La magistratura non è più un ordine costituzionalmente
riconosciuto, bensì un disordine legato soltanto dalla velleitaria
individuazione di quello che appare di volta in volta il nemico comune da
combattere.
Magistratura democratica nacque nel 1964, coagulando intorno
a sé magistrati genericamente «di sinistra» o «progressisti»: i suoi aderenti
erano particolarmente motivati dall'affermazione della piena autonomia ed
indipendenza dell'ordine giudiziario rispetto al potere politico ed alla
struttura gerarchica dei giudici. Il 30 novembre 1969, tuttavia, la formazione
si spaccò: ne uscirono tutte le componenti moderate, accusando la frazione di
sinistra di essere troppo sbilanciata a favore dei nuovi movimenti operai e
studenteschi sorti nel '68.
L'occasione della rottura fu rappresentata dal «caso Tolin».
Francesco Tolin era direttore del periodico Potere Operaio, che il 30 ottobre
69 pubblicò un articolo dal titolo Sì alla violenza operaia, che portò
successivamente alla condanna del direttore a 17 mesi di carcere senza
condizionale. Una parte di Md si schierò in difesa dell'articolo contro i reati
di opinione, e successivamente criticò con toni molto duri la sentenza di
condanna: atteggiamenti che non furono tollerati dalla parte moderata di quel raggruppamento,
che diede successivamente vita alla corrente «Impegno Costituzionale».
Questi ultimi, dunque, rimasero fermamente ancorati alle
regole dello Stato di diritto, pur rivendicando ai giudici il potere-dovere di
applicare integralmente i dettami della Carta Costituzionale, e la piena
autonomia ed indipendenza dell'ordine giudiziario rispetto al potere politico,
senza mai uscire dai canoni tradizionali della legge: certezza del diritto,
generalità ed astrattezza della norma da applicare al caso concreto.
Solo in Italia i movimenti eversivi di estrema sinistra
trovarono un appoggio nella più conservatrice delle corporazioni: la
magistratura. Fu un caso? Certamente no, e in seguito se ne spiegheranno le
ragioni.
Alla neonata Md era necessario fornire un background
politico che le garantisse una forte connotazione di sinistra (anzi, di estrema
sinistra): per questo non c'erano eccessivi problemi, in quanto la maggior
parte delle teste pensanti di quel gruppo si erano formate - negli anni '67/74
- nei grandi calderoni politico-ideologici che erano in quel periodo le
Università, e trovavano un forte supporto nei movimenti antagonisti emergenti.
Fu Luigi Ferrajoli, mente finissima e giurista eccellente,
poi uscito dalla magistratura per abbracciare la carriera accademica) il cuore
pulsante dell'elaborazione politica della nuova Md, che vedeva nei gruppuscoli
extraparlamentari di sinistra i portatori del «sol dell'avvenire», i quali
avrebbero inevitabilmente abbattuto lo Stato borghese e le sue disuguaglianze di
classe.
Con il documento Per una strategia politica di Magistratura
Democratica Ferrajoli - insieme a Senese ed Accattatis - presentò una relazione
al congresso della nuova Md tenutosi a Roma il 3 dicembre 1971, in cui la
piattaforma politica del raggruppamento definiva la «giustizia borghese come
giustizia di classe» e la stessa Md «come componente del movimento di classe»,
che avrebbe dovuto far ricorso alle «contraddizioni interne dell'ordinamento:
la giurisprudenza alternativa consiste nell'applicare fino alle loro estreme
conseguenze i principi eversivi dell'apparato normativo borghese».
Il giurista Tarello, nella sua relazione, concludeva
l'intervento in termini estremamente preoccupati, affermando che «...questo
tipo di analisi politica porta a favorire non una vera indipendenza ma
piuttosto una dipendenza e un controllo della magistratura».
Nessuno, allora e per molti anni a venire, colse appieno il
pericolo (e il segnale) che poteva derivare dalle teorizzazioni di Ferrajoli e
del gruppo toscano, e dalla critica aspra di Tarello: nessuno, tranne i membri
di Md più vicini al Pci e - molto tempo dopo - i massimi dirigenti di questo
partito.
Una risposta alla strategia politica messa in campo dai
giudici di estrema sinistra fu data da Domenico Pulitanò - giudice di Milano
notoriamente legato all'epoca al Pci: «La prassi dei magistrati democratici si
pone e vuole porsi come alternativa non già ai valori democratico-borghesi (il
che rischierebbe di portarci oltre la legalità) ma alle loro deformazioni autoritarie
nella giurisprudenza corrente. Si può
definire un uso
alternativo del diritto? Il problema è
solo terminologico... L'uso alternativo del diritto, là dove praticabile, è per
noi un problema politico prima che teorico, e la discussione metodologica non
deve far perdere di vista il fine politico».
Non servono parole ulteriori per chiarire quale differenza
abissale di prospettive vi fosse tra l'estrema sinistra e la sinistra moderata
di Md: l'uso alternativo del diritto, infatti, non era per nulla un «problema
terminologico». Intorno ad esso si giocava una scelta di campo di dimensioni
storiche, perché, a memoria, per la prima volta una parte consistente (e
soprattutto ben attrezzata culturalmente) della burocrazia statale si schierava
nella lotta di classe, sentendosene pienamente partecipe.
Dopo di allora, la frazione filo-Pci di Md praticò una sorta
di entrismo: né aderire né sabotare, ma restare in attesa, secondo il vecchio
principio leninista pas d'ennemi à gauche («Neanche un nemico a sinistra») nella
sua accezione meno truculenta e stalinista. La magistratura milanese - dove
pure la frazione di estrema sinistra di Md era la più forte d'Italia - si
adeguò pienamente a questa tattica.
Fonte: visto su Il Giornale di mercoledì 17 novembre 2013
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