AMO LA MIA PATRIA.
Ma non come è stata fatta da una ristretta cerchia d’intellettuali
distanti dal popolo, combattuta da potenze straniere ai danni di un sud
depredato e violentato
di Gianfredo Ruggiero
Nella prima metà dell’800 l’Italia centro settentrionale era
divisa in una moltitudine di statarelli arretrati e in profondo ritardo sulla
rivoluzione industriale che, partendo dall’Inghilterra, stava cambiano il volto
dell’Europa.
Nel sud d’Italia la situazione era molto diversa. Il
meridione, dopo essere stato faro di civiltà con la Magna Grecia prima e la
Roma Imperiale poi, attraversò un periodo di decadenza causato dalle continue
dominazioni straniere e le successive vessazioni dei vicerè spagnoli.
La rinascita del sud avvenne nel 1816 con la costituzione
del Regno delle Due Sicilie, uno Stato italiano del tutto indipendente retto da
sovrani italiani che riprese il cammino di modernizzazione e di progresso
culturale avviato da Federico II, il più grande imperatore che l’Italia abbia
mai avuto dai tempi di Roma.
Sotto la dinastia dei Borboni (a tutti gli effetti
napoletani) fu avviata la riorganizzazione delle amministrazioni locali cui fu
data ampia autonomia (antesignana del federalismo municipale con cui oggi si
baloccano i leghisti), fu dato grande impulso all’industria sia metallurgica
che cantieristica, all’agricoltura, alla pesca ed anche al turismo, segno di un
diffuso benessere.
Le ferrovie, inventate nel 1820, ignote in Italia, fecero la
loro prima apparizione a Napoli (1839). Nel 1837 arrivò il gas e nel 1852 il
telegrafo elettrico.
La riforma agraria pose fine alle leggi feudali e permise di
bonificare paludi e di incrementare l’agricoltura.
Grande impulso fu dato alla cultura, all’arte e alle scienze:
il teatro San Carlo, primo al mondo, fu costruito in meno di un anno. In quegli
anni sorsero il Museo archeologico, l’Orto Botanico, l’Osservatorio
Astronomico, l’Osservatorio Sismologico Vesuviano, la Biblioteca Nazionale,
l’Accademia delle Belle Arti, l’Accademia Militarela Nunziatella.
Scuolepubbliche e conservatori musicali erano presenti in ogni città.
L’Università di Napoli, divenne al pari della Sorbona di
Parigi, il più grande polo culturale dell’Europa.
Lo sviluppo industriale fu travolgente con 1 milione e
600mila addetti contro il milione e 100 del resto d’Italia. I primi ponti in
ferro in Italia, opere d’alta ingegneria, furono realizzati in quegli anni.
Le navi Mercantili del Regno delle Due Sicilie solcavano i
mari di tutto il mondo e la sua modernissima flotta, costruita interamente nei
cantieri navali meridionali, era seconda solo a quella Inglese. Nel 1860
contava oltre 9.000 bastimenti e nel 1818 era stata varata la prima nave a
vapore italiana.
Le industrie tessili e metallurgiche si svilupparono in
tutto il Regno (solo quella di Pietrarsa dava lavoro ad oltre mille
operai a cui si aggiungevano i settemila dell’indotto).
Nel Regno delle Due Sicilie la disoccupazione era
praticamente inesistente e così l’emigrazione (per tornare a questa situazione
bisognerà attendere gli anni trenta del ‘900). Gli sportelli bancari, altro
segno di sviluppo economico, erano diffusi in ogni paese. E’ qui che videro la
luce i primi assegni.
La Sicilia, la Campania ed il basso Lazio erano ricchissimi
di reperti archeologici etruschi, greci e romani che affiancati da musei e
biblioteche diedero un impulso alla costruzione di alberghi e pensioni per
accogliere i numerosissimi visitatori. Sorsero
così le prime agenzie turistiche italiane.
Carlo III di Borbone fondò l’Accademia di Ercolano che diede
l’avvio agli scavi archeologici di Pompei ed Ercolano. Oggi Pompei è una delle
città più visitate al mondo.
La sanità non era da meno con oltre 9mila medici usciti
dalle Università meridionali che operavano in ospedali e ospizi sparsi in tutto
il territorio. Il Regno delle Due Sicilie poteva vantare la più bassa mortalità
infantile d’Italia.
Le strade erano sicure e la mafia, che soprattutto oggi
affligge il sud e non solo, non esisteva neppure come parola.
Dal punto di vista amministrativo il Regno del Sud godeva
ottima salute, non a caso la Borsa di Parigi, allora la più grande al mondo,
quotava il Regno al 120 per cento, ossia la più alta di tutti i Paesi.
Nella conferenza internazionale di Parigi nel 1856 fu
assegnato al Regno delle Due Sicilie il premio di terzo paese del mondo, dopo
Inghilterra e Francia, per lo sviluppo industriale.
Come mai allora Garibaldi con soli mille uomini riuscì ad
abbattere un Regno così ben organizzato e sostenuto dal suo popolo?
Per dare risposta a questa domanda dobbiamo prima capire chi
fece realmente L’Unità d’Italia.
A partire dai fratelli Bandiera, che sbarcati a Cosenza il
16 giugno 1844 per organizzare la sollevazione popolare furono invece accolti
dai forconi dei contadini, tutti i tentativi di insurrezione popolare, dalla
Repubblica romana del 1849 di Mazzini ai moti carbonari, ebbero risultati
effimeri perché il popolo era del tutto assente e disinteressato (a parte
qualche malessere che sfociava in deboli rivolte).
Al nord, dominato dagli austriaci, l’insofferenza era invece
marcata, ma per motivi economici e non certo per idealismo patriottico.
Di Italia Unita si parlava solo nei ristretti circoli
intellettuali liberali e nei palazzi della politica piemontese. Il minuscolo
regno dei Savoia era infatti smanioso di allargare i suoi confini e di contare
sullo scacchiere europeo.
La prima e unica guerra risorgimentale condotta in prima
persona dai piemontesi contro l’Austria - comunque affiancati da
regolari e volontari di altri stati italiani, tra i quali ben 16 mila
napoletani guidati da Guglielmo Pepe – si trasformò in un disastro per le
truppe sabaude.
La seconda guerra d’indipendenza che portò all’annessione
della Lombardia fu vinta grazie all’apporto della Francia di Napoleone III che
a Magenta il 4 giugno 1859 sconfisse gli austriaci costringendoli alla
resa. Al generale francese Patrice De Mac Mahon, artefice della vittoria, a
Magenta è stato – giustamente – dedicato un monumento.
La terza guerra per la conquista del Veneto fu vinta grazia
agli accordi con la Prussia di Bismarck. La condotta delle truppe sabaude fu
deludente e ancor di più quella della marina sonoramente battuta dagli
austriaci nella battaglia di Lissa.
Anche la tanto mitizzata presa di Roma avvenne grazie agli
stranieri e non certo per il valore dei soldati piemontesi. I bersaglieri del
generale La Marmora poterono infatti attraversare trionfanti la Breccia di
Porta Pia e sconfiggere i pochi soldati svizzeri posti a protezione del Papa
solo perchéseppero approfittare dei rovesci militari della Francia contro la
Germaniache costrinsero Napoleone III nel 1870 ritirare le sue truppe a difesa
dello Stato Pontificio.
Le Guerre d’Indipendenza furono pertanto vinte più
dall’abile diplomazia di Cavour che dal sangue italiano e, cosa ancor più
deprimente, senza alcun coinvolgimento popolare. A parte le gloriose cinque giornate di
Milano, fatto rimasto sostanzialmente isolato.
Riunito sotto la corona Sabauda quasi tutto il nord, i
Savoia volsero lo sguardo al ricco e prospero Regno del Sud contro il quale
attivarono, ancor una volta, la loro spregiudicata diplomazia per ottenere il
sostegno dell’Inghilterra.
L’Inghilterra, che vedeva del Regno delle Due Sicilie un
pericolosissimo concorrente marittimo, fu ben felice di assecondare le mire
espansionistiche piemontesi.
Si attivarono soprattutto i circoli massonici inglesi, a cui
erano affiliati i padri del risorgimento da Mazzini a Garibaldi e lo stesso
Cavour, per fornire quegli enormi finanziamenti necessari per corrompere
generali e ammiragli borbonici e spingerli al tradimento. Una cifra enorme fu
stanziata a tal scopo da Albert Pike, Gran Maestro Venerabile della massoneria
di Londra, e da Lord Palmerson Primo Ministro della Regina Vittoria.
Ma erano veramente mille i garibaldini? Certamente! Ma ogni giorno sbarcavano sulle coste
siciliane migliaia di soldati piemontesi congedati il giorno prima e protetti
dalla flotta Inglese dell’ammiraglio Mundy, a questi si unirono i soldati
borbonici passati al nemico per denaro insieme ai loro generali Landi e
Anguissola.
Da mille che erano i garibaldini divennero in pochissimi
giorni oltre 20.000, una vera e propria armata d’invasione sotto mentite
spoglie. Infatti non vi fu alcuna
dichiarazione di guerra.
Il 13 febbraio 1861 cadeva la fortezza di Gaeta, ultimo
baluardo borbonico. Per tre mesi, tanto durò l’assedio dell’isola, la città fu
martoriata dai bombardamenti navali. Eroico fu Francesco II, il giovane Re
napoletano, ed eroica fu la sua consorte Regina Sofia e l’intera popolazione
che si strinse attorno ai loro sovrani nella strenua difesa della loro libertà.
Ignobile fu invece il comportamento del generale piemontese
Cialdini che non esitò un istante a scagliare oltre 160 mila bombe per
massacrare l’intera popolazione su ordine di Cavour.
Con la capitolazione di Gaeta finì il glorioso Regno delle
Due Sicilie che aveva fatto dell’Italia meridionale uno Stato autonomo ed
indipendente, prospero e moderno. E da qual giorno iniziò l’inesorabile declino
del sud reso possibile dalla incapacità e disinteresse dello Stato unitario
prima e post fascista poi.
Nel 1860 – e qui arriviamo al vero motivo che spinse lo
statarello piemontese a inventarsi l’Unità d’Italia – il debito pubblico del
Piemonte ammontava alla somma di oltre un miliardo di lire di allora, una
voragine spaventosa che il piccolo Stato Sabaudo con i suoi 4 milioni di
abitanti mai e poi mai sarebbe riuscito a colmare per l’arretratezza della sua
economia montana.
Nel 1861, quando avvenne l’unificazione del Nord con il sud,
il Patrimonio aureo dell’Italia Unita era di 668 milioni di lire oro. Ebbene di
questi ben 443 proveniva da Regno delle Due Sicilie e solo 8 alla Lombardia (il
resto dagli altri stati annessi). Questa enorme massa di denaro
proveniente dal sud permise di rimpinguare le disastrate casse del Regno di
Savoia e a dare vigore alla sua asfittica economia.
Appena sbarcato in Sicilia il primo obiettivo di Garibaldi
fu…la zecca di Palermo per impossessarsi dei 5 milioni di ducati in oro
depositati.
Nei dieci anni successivi i piemontese effettuarono un vera
e propria opera di spogliazione. Svuotarono le casse comunali, quelle delle
banche, saccheggiarono le Chiese e smontarono i macchinari delle fabbriche per
rimontarli al nord. Agevolati in questo dai molti notabili meridionali subito
accasati, per denaro e potere, alla corte del nuovo sovrano.
Nelle casse piemontesi finirono inoltre gli enormi proventi
dalla vendita dei beni ecclesiastici confiscati e del demanio borbonico.
Lasciando per sempre il suo Regno Francesco II disse
profeticamente: “il nord non lascerà ai meridionali nemmeno gli occhi per
piangere”.
Quello che il giovane Re napoletano non poteva prevedere era
l’ondata repressiva, i massacri di contadini, la fucilazione dei renitenti alla
leva, i villaggi bruciati, le brutali violenze con tanto di esposizione di
teste mozzate ad opera della soldataglia piemontese che per dieci anni
avrebbero martoriato il suo ex-Regno. Spiace evidenziarlo, ma a macchiarsi le
mani di sangue innocente furono in gran parte i bersaglieri.
Alcuni giornali stranieri (la censura del governo al
riguardo era rigorosa) pubblicarono delle cifre terrificanti nonostante fossero
sottostimate: nel solo primo anno di occupazione vi furono 8.968 fucilati,
13.529 arrestati in gran parte deportati nei campi di concentramento e
“rieducazione” al nord, 6 paesi dati alle fiamme, 12 chiese saccheggiate.
Complessivamente si parla di un milione di contadini uccisi e decine di
villaggi rasi al suolo. La chiusura per
decreto di un numero imprecisato di scuole e di Chiese. (Vittorio Gleijeses: La Storia di Napoli, Napoli 1981 – Isala
Sales: Leghisti e sudisti, Laterza Editore 1993 – Antonio Ciano: I Savoia ed il massacro del sud, ed.
Granmelo, Roma 1996).
Antonio Gramsci, nato in Sardegna ma originario di Gaeta,
parlando della questione meridionale ebbe a dire”…lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e
fuoco l’Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo
vivi i contadini poveri che gli scrittori compiacenti tentarono di infamare con
il marchio di briganti”.
I briganti per l’appunto…tutti i figli maschi erano
obbligati, pena la fucilazione, a prestare il servizio militare per sparare ai
loro fratelli del sud. Per chi si rifiutava non restava altra via che quella
dei monti, braccati con l’infamante etichetta di “briganti”.
Tanta ignominia ai danni del sud ha provocato delle profonde
ferite che ancora oggi stentato a rimarginarsi, alimentate in questo dalle
posizioni di supponenza etnica e di antimeridionalismo del partito di Bossi.
Per tentare di unire veramente l’Italia, per superare i
contrasti con la Chiesa e per sradicare il fenomeno mafioso bisognerà attendere
l’avvento del Fascismo: il Concordato del ’29 pose fine al contenzioso con la Chiesa
di Roma, il grande programma di opere pubbliche e di bonifica diede lavoro ai
giovani meridionali e la politica repressiva del Regime, con il Prefetto Mori,
costrinse la mafia ad emigrare in America (per poi tornare al seguito delle
truppe di liberazione).
Oggi festeggiamo il centocinquantesimo anniversario della proclamazione
del Regno d’Italia (e non dell’unità d’Italia, come viene erroneamente detto,
che avverrà solo dopo la Prima Guerra mondiale e con l’annessione di Fiume del
‘24).
Brindiamo pure, caro Presidente della Repubblica, ma non
dimentichiamoci della Storia, se volgiamo guardare al futuro.
Nonostante tutto: Viva L’Italia, la nostra Patria!
Fonte: srs di Gianfredo Ruggiero, presidente del Circolo Culturale Excalibur – Varese; Posted on 9 aprile
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