sabato 24 febbraio 2018
giovedì 22 febbraio 2018
UN CRETINO
Nei balli, mi scateno e ricevo pure applausi, non
perché sono un fanatico seguace di Tersicore, ma perché mi diverto un mondo a
fare il buffone, nonostante resistenza e scioltezza non siano più quelle d’una
volta.
Le due ultime occasioni le ho avute ai matrimoni
dei miei figli. Soprattutto a quello di Nicola e Caterina, dove mi capitò
un episodio davvero singolare.
Il primo ballo lo feci per dovere con la donna
più brutta e più vecchia, quella che di solito non la fa mai danzare nessuno.
Ballai poi con tante, tra cui Caterina, mia moglie e Giada: una
simpaticissima nipotina di mia moglie. Anche se dopo qualche ballo di fila
dovevo riprendere fiato, quella volta non mi arresi se non alla fine.
Durante una pausa m’intrattenni con un amico dei miei
figli: un single che, da quello che mi ha lasciato intuire e da ciò che
successe poi, aveva e avrà tutte le buone intenzioni di praticare l'onanismo
per tutta la vita. Mi stavo informando sul suo lavoro quando m’accorsi che una
bella bionda guardava con insistenza verso di noi. Chiesi allora a Carlo:
- La conosci? - indicandogliela.
Mi rispose che non gli sembrava.
Dopo cinque minuti, gli feci notare che sempre la
stessa ragazza lampeggiava con insistenza, e se non era il caso di
rispondere e richiamarne l'attenzione con qualche breve cenno di
cortesia. Carlo mi fece notare che era circondata da altri tre
ragazzi. Risposi che non era interessata a loro avendo occhi solo per noi.
Allora gli proposi di andare a invitarla per un ballo. Ma lui temeva in un rifiuto.
Beh, non aveva tutti i torti! A volte le donne ci solleticano per poi umiliarci
con un rifiuto. In ogni caso, è sempre meglio tentare, se non si vogliono aver
rimorsi.
Fui richiesto per un ballo da mia cognata, e
allora lo lasciai in balia delle sue incertezze. Dopo qualche ballo,
come scesi dalla pista, Carlo mi venne incontro e mi indicò che la ragazza
stava ballando. Notai che, grazie ai tacchi alti, aveva una siluette degna
di nota, che ondeggiava e sculettava con la sensualità d'una
spogliarellista. Doveva essere una di quelle donne che posano sempre, e
che son piene di se stesse. Lo si intuiva dalle movenze e da come assestava i
capelli che danzando le scendevano sul volto. Era impegnata in uno di quei
balli dove ciascuno viaggia per conto proprio. Consigliai a Carlo di
intromettersi portando con sé la mia nipotina, rifiutò, temendo che lei si
accorgesse del pretesto. Lo fissai negli occhi e capii che anche se avesse
bevuto una pozione del mio prodigioso "brodo di volpe" non l'avrei
migliorato. Non sapevo come togliergli quell'aria da addormentato. Ma che razza
di zuccone m’era capitato? Non ressi, e allora sbottai:
- Senti un po’: sappi che le donne, oltre al loro
ciclo mensile, vanno in calore. In fin dei conti, l’uomo è una bestia: ha fame,
ha sete, fa i suoi bisogni e ha le stesse esigenze sessuali degli animali.
Anzi, forse di più. Il maschio deve stare al richiamo della femmina, e non è
che, quando gli tira, possa trovare da sfogarsi, si fa avanti, può fare delle
avances e far intuire le proprie intenzioni, mentre le donne se il giorno prima
erano d’accordo, il giorno dopo non lo sono più. Ora vado a bermi
qualcosa, tu però, datti da fare!
Ritornai dopo dieci minuti nei pressi della
pista, Carlo mi venne in contro e amareggiato:
- È andata via con uno.
- Ahi, ahi! caro ragazzo, allora sei messo proprio
male! Con le donne non ci vogliono tentennamenti. Quella era arrivata qui sola,
non s’era portata dietro dei mosconi, perciò dovevi osare, visto che ti aveva
lampeggiato con insistenza. Ti racconto un'arguzia sentita a teatro e recitata
da giovani attori, non so se fosse una loro creazione o di qualcun altro; in
ogni caso dovrebbe insegnarti qualcosa sulle donne:
- Sai qual è la differenza tra una briciola di pane che cade
a terra e la verginità?
- No!... Non saprei.
- Bravo! Infatti non c'è!... In entrambi i casi, il
primo uccello che passa se la prende e se la porta via. Considera inoltre
che non sei così irresistibile che le donne debbano arrivare a offrirsi ... E
adesso dimmi dove sono andati?
- Sono andati al parcheggio e forse sono saliti in
macchina.
- Allora per te è finita.
- Signor Monti, mi farebbe un favore? Lei andrebbe a
vedere cosa fanno?
- Cosa?... Ma vuoi che faccia il guardone?
- Io non posso farlo, perché se la ragazza mi vedesse,
sarei finito.
- Arrivarci qualche minuto prima, no vero?... Ma non
hai qualche amico da dargli questo incarico?
- No!...e poi nessuno conosce quella ragazza. C’è solo
lei che mi può aiutare.
Stavo già maledicendo il momento in cui m’ero fermato con quell’allocco
dall'aria addormentata, quando lui mi mise in mano le chiavi della sua macchina
e invocando aiuto:
- Il ragazzo, con cui è andata via, è arrivato insieme
a me e ha parcheggiato la sua Citroen grigia accanto alla mia BMW blu. Si
trovano entrambe in prima fila, sul viale a destra dopo una decina di
macchine. Sul sedile posteriore c’è una busta, me la porti. Lo consideri come
un pretesto per dare uno sguardo dentro alla Citroen, se le riesce di vedere
come vanno le cose.
Dopo qualche attimo d’esitazione:
- Va be’! Ci vado perché non mi sono mai rifiutato di
fare un favore a chi mi chiede aiuto. Se tu avessi lo stesso coraggio con le
donne come l'hai con me, nonostante tu non sia una meraviglia d'uomo, saresti
uno sciupa femmine coi fiocchi.
Prima ancora d’arrivare al parcheggio ero già pentito.
Allentando il passo e con qualche ripensamento arrivai sul luogo. Individuate
le auto, pian pianino, cercando di non far rumore su quello schifoso ghiaiato,
m'avvicinai. Avevano i finestrini aperti; il ragazzo teneva gli occhi chiusi in
un’espressione goduriosa, lei gli era sopra. Mi bastò quell’attimo, e come un
ladro m’impossessai di quella lettera.
Carlo m’aspettava all’inizio del viale, gli consegnai
la lettera e con rabbia gli misi in mano le sue chiavi. Mi corse dietro, e
ansimando:
- E non mi dice niente?
- Cosa vuoi che ti dica?
- Mi dica qualcosa?
Non volendo umiliarlo più di tanto, me la cavai con un:
- Se tu m'avessi ascoltato, le cose avrebbero preso
una piega diversa. Svegliati, mio caro! Altrimenti nella vita soffrirai la
fame.
(1) Masturbazioni.
Fonte: srs di Enzo Monti
del 28 settembre 2013
mercoledì 21 febbraio 2018
LA PELLICCIA
Nell’Odissea, Omero dice che Giove ha dato le sventure
agli uomini affinché abbiano di che cantare.
A me basta poco: uno sguardo compiacente, un sorriso,
tre parole, un pettegolezzo per poter mettere giù qualcosa. Non sarà un canto,
ma neppure una lagna. A che serve scrivere delle disgrazie quando ogni giorno
ne arrivano a vagoni?
Dopo il racconto fattomi dal commesso della
pellicceria è come se avessi vinto cinquanta euro al gratta e vinci o se avessi
bevuto al bar un paio di calici di champagne. E se poi questa storia mi riesce
di metterla in modo decente sulle pagine bianche, volo allora tra le
nuvole, e la sua storia diventa la mia: è come se l’avessi vissuta io.
Di primo pomeriggio e alla fine degli anni Settanta,
avevo in negozio Alberto: un quarantenne, alto, atletico, dai modi
gentili e dal soldo facile. Era venuto a ritirare un occhiale da sole a cui
avevo sostituito una lente quando entrò Gigi, un mingherlino insignificante in
divisa da commesso e che lavorava nella più nota pellicceria della città. I due
si salutarono: Gigi con un’aria deferente, l’altro con quel distacco con cui si
tiene lontano un seccatore.
Come Alberto uscì dal negozio, spinto dalla curiosità
Gigi mi chiese:
- Ma lo conosci?
- Posso dire solo come cliente.
- Ma lo conosci bene?
- Come cliente so che è un uomo brillante, che non gli
manca il soldo; ma non so cosa faccia di preciso.
- Allora, te lo racconto io.
- Scusa: prima di dirmi qualcosa, spiegami perché come
ti ha visto s'è irrigidito e ha tenuto un atteggiamento così freddo e
distaccato nei tuoi confronti.
- Credo che stia sulle sue. Forse non vuol
rispondere a qualche domanda indiscreta o ricevere complimenti. Non saprei come
spiegartelo.
Costretto a prestare ascolto, pensavo alla pappa che
dovevo sorbirmi, quando:
- Di sabato pomeriggio d’un paio d’anni fa, questo
signore entrò in negozio da noi accompagnato da una gran bella donna. Era
appena finita la stagione lirica nella nostra Arena. Mi trovavo nel
sottonegozio che usiamo come magazzino e laboratorio; stavo preparando le
pellicce da spedire ai turisti stranieri quando venni chiamato dai miei
titolari ai piani superiori. Nell’atelier dietro al negozio, trovai questa
coppia che stava provando un paio di pellicce che sembravano che fossero state
disegnate apposta per quella femmina. Mi chiesero se si potevano accorciare. La
donna, sui trent’anni, dagli occhi di fuoco e dalla carnagione mediterranea,
oltre a essere una bella mora aveva un corpo da modella.
Mi spiace sempre tagliare le pelli, per di più,
entrambi i capi le stavano a pennello. Risposi che avrebbero fatto sempre a
tempo ad accorciarle e che, se fossi stato in loro, me le sarei prese così
com’erano. L’uomo asseriva che se le avessi accorciate d’una spanna avrei ridotto
l’importanza del capo, sarebbero state meno eleganti e più facili da
portare tutti i giorni. Appuntando degli spilli accorciai le pellicce; e
la donna le indossò un’altra volta. Non erano più le stesse, perdevano in gran
parte linea ed eleganza. L’uomo ammise ch’era meglio non ritoccarle. Mi chiese
poi quale fosse la mia preferita. Risposi che avrei scelto la più chiara, non
solo per il taglio più leggero e moderno, ma perché dava più luce al viso della
signora. Furono gentilissimi, mi ringraziarono entrambi. La donna, nello
stringermi la mano, come emozione mi trasmise la sua gioia. Ritornato in
laboratorio, mi giungevano le trattative e le modalità di pagamento.
Appresi dal proprietario che l’uomo aveva tirato sul prezzo, che aveva
lasciato due assegni da nove milioni ciascuno su due conti correnti diversi, e
che aveva voluto il numero di telefono per dare la conferma, di lunedì mattina,
se la banca gli avesse dato il nullaosta. Al pomeriggio sarebbe passato poi a
ritirarla. In negozio eravamo al settimo cielo.
Nelle prime ore di lunedì pomeriggio, l’uomo entrò in
negozio: era solo. In bottega gh'era pien de vudo, (1)( come siam soliti
dire noi commercianti veronesi). L'uomo si fece consegnare gli assegni con
la scusa di poterli controllare, e davanti a tutti, con freddezza li
ridusse in tanti coriandoli.
- Ma come?
- Lasciami finire! I due assegni erano validi. Confessò che
gli erano serviti per passare una meravigliosa e indimenticabile notte. Si
scusò per il disturbo, consegnando alla moglie del titolare una busta come
ringraziamento. Che non doveva essere solo una mancetta, visto che la signora
non s'è mai lamentata.
Come tocco finale, aggiunse:
- No, no! ... Non aveva segni in faccia. Questo tuo
cliente sarà anche un uomo brillante ma, per me, è un gran figlio di brava
donna.
(1)
C'era pieno di vuoto
Fonte: srs di
Enzo Monti del 26 settembre 2013
martedì 20 febbraio 2018
DINO
Bosco Piazza
Dino è stato il mio primo e unico amico d’infanzia.
Se escludo alcuni mesi per adempiere ai miei impegni
scolastici, sono cresciuto fino all'età di otto anni a Bosco Piazza, una
frazione di Torricella Del Pizzo in provincia di Cremona. Una lingua di terra
compresa tra il fiume Po e i suoi argini maestri. Terra sabbiosa e al tempo
stesso fertile, ricca di prati, di campi di grano, di boschi di pioppi, e dove
l'insistente monotono frinire delle cicale e il richiamo del cuculo
rendevano ancor più noiose e insopportabili le calde ore estive.
Allevato dai nonni e dagli zii in tempo di guerra,
oltre a sollevare dalle fatiche mia madre impegnata nel lavoro e alla cura di
mio fratello più piccolo, la campagna rappresentava il posto più sicuro di
questo mondo. Questo era quello che credevano i miei, ignari dei pericoli che
passavo frequentando Dino, visto che con lui ero sempre in guerra.
In quel gruppo di case che formavano il Bosco c’era
anche Mario che aveva la nostra età. Nonostante si giocasse anche con lui, i
miei pensieri, le mie preoccupazioni, il mio cuore avevano un nome solo:
Dino.
Ero attaccato a lui come la lappola dei fossi. E non
c'era una spiegazione perché questo avvenisse. Forse era il suo modo
d'insegnarmi i segreti della campagna, oppure quello ruffiano di farsi
perdonare solo con gli sguardi, proprio non lo saprei. Scusate se mi ripeto:
aveva di bello quel modo tutto suo di farsi perdonare.
Ambedue biondi con la candela al naso, stessa altezza,
anche se lui più vecchio quasi d'un anno, formavamo una coppia indissolubile.
Nella bella stagione, in braghette e corpetto sbracciato, con la
fionda che spuntava da dietro il taschino, a piedi nudi e sporchi come
selvaggi si batteva la campagna in lungo e in largo. Perfino per
fratelli ci scambiavano.
Dino si accompagnava al suo Checco: una cornacchia
ammaestrata a cui avevano tarpate le ali; io al mio bastone che mi serviva
sia per andar a pascolare le oche di nonna e di zia Teresa che per
difendermi da lui. Eh, sì! Dovevo tenerlo ben lontano perché di tanto in
tanto ci si azzuffava, e purtroppo lui aveva sempre la meglio.
Mentre rimanevo in città, lui non si staccava dalla
campagna, e ogni volta che ritornavo mi aggiornava. Non solo, mi costringeva a
seguirlo nelle sue imprese, se non obbedivo ai suoi ordini, diventava
aggressivo, violento, e me le suonava. Mi considerava un po' come il
suo servo, se non addirittura il suo schiavo.
Si scavalcavano le siepi e si faceva man bassa negli
orti dei vicini. Ci si arrampicava sugli alberi per arrivare ai nidi, a volte,
erano piante altissime, e per due soldi di cacio come noi, erano talmente alte
che, nello scendere, oltre al terrore, ero preso anche dalle vertigini. Quel
che si faceva a quei poveri animali che ci capitavano tra le grinfie non è da raccontare.
Ricordo che si scorrazzava per la campagna in mezzo ai prati, nei
boschi, sugli argini, sulle rive degli stagni e del fiume, strappando
rosolacci, spiaccicando insetti e sguazzando nei fossi. Sempre fuori di casa e
liberi come uccelli. Le prede si dividevano senza bisticciare; fatta eccezione
il giorno che catturammo insieme un leprotto. Visto che non lo si poteva
portare a giudizio di Re Salomone, senza darmi spiegazioni, se lo tenne. In lui
conviveva generosità ed egoismo, e bastava poco perché passasse dall'amore
all'odio. A giorni era così cattivo che anche le api lo sfuggivano: era
l'unico tra noi ragazzini che s'avvicinava alle arnie.
Eppure, di lui ricordo i fischi di quando richiamava
la sua cornacchia, l'odore del suo sudore, le croste delle sue sbucciature, i
calli delle sue mani, l'abilità nell'usare il temperino, d'infilare un lombrico
nell'amo e nel riconoscere dalle uova il tipo d'uccello. Quanti rimpianti e
quanta nostalgia dei profumi e dei sapori della terra dei miei nonni! E che dire
delle nostre imprese? E di quel giorno?
Di mattina, entrammo nella stalla di mio zio Gino
per vedere il vitellino nato da una settimana. Non c’era nessuno, neppure
Tacheli, il mezzadro dello zio. Come l’animale ci vide o ci sentì, sebbene
fosse impastoiato, s'alzò dalla sua cuccia di paglia, felice di vederci. Aveva
il pelo macchiato di marrone, due occhioni colmi di stupore e un musetto,
nonostante fosse bagnato di muco, talmente delizioso e piacevole da
attirare baci e carezze.
Un paio di volte mamma mucca si voltò verso di noi
richiamando il vitellino con dei muggiti, forse per avvisarlo che sarebbe
caduto in mano a due monelli. Dopo averlo coccolato e accarezzato con dolcezza
sul muso e sulla groppa, quella bestia del mio amico si slacciò i calzoncini e
gli strofinò sul muso il suo pistolino(1). Chiamatela cattiva abitudine o
brutto vizio, ma lui quell'arnese l'aveva sempre in mano. Ma non pensate male!
Lo fece senza malizia. Non avevamo ancora l’età per immaginare ciò che le
nostre ragazze ci avrebbero fatto nell’età adulta. Lo fece così, tanto per
scherzare.
Il vitello gli diede una linguata, Dino rideva
divertito e glielo appoggiò sul muso una seconda volta. Il vitello che aveva
mancato la preda la prima volta, prima di riprovare ad agguantarglielo, gli
diede una testata in avanti come quando succhiava il latte dalla mammella di
sua madre. Dino finì a terra. E allora fui io a ridere.
Come si riebbe, crucciato e in tono di comando:
- Adesso, lo devi fare anche tu.
- Cos’è che devo fare?
- Devi darglielo da leccare.
- Ma neanche per sogno!
- Ti manca forse il coraggio?
- Non son mica scemo! Non vedi che t’ha dato una
testata come dà alla tetta di sua madre prima di prenderne il capezzolo?
- Ma che razza d’amico sei allora?
- Uno che non vuol perdere il proprio
pistolino(1).
- Sbrigati! Lo devi fare anche tu,- avvicinandosi con
fare minaccioso.
Il mio bastone quel giorno era alto quanto me ed era grosso
come la metà d’un manico da scopa. Cercò di strapparmelo, lo respinsi e lo
minacciai. Quella bestia non aveva paura neanche del diavolo. Fece qualche
passo avanti, e allora alzai in alto il bastone. Mentre cercava ancora di
assalirmi, gli sferrai una botta dall’alto in basso. Lo colpii alla spalla,
avendo piegato in tempo il capo per evitare il colpo. Che fosse sbilanciato o
scivolato non lo saprei, sta di fatto che per la seconda volta cadde a terra.
Nel suo sguardo lampeggiarono sia l'odio che
la vendetta. Stava per rialzarsi, quando lo minacciai:
- Se ti alzi, t’accoppo!
E poi … e poi me la diedi a gambe ancor più
velocemente della volta che lui m’aveva rotto il mio schioppetto(2) e io avevo
tramortito con una sassata il suo amato Checco.
Il giorno dopo, con accanto la sua fedele cornacchia, era
davanti alle mie finestre come se niente fosse. Se non fosse venuto,
sarei andato io da lui.
(1) Pene di bambino.
(2) Fucile da bambino.
Fonte: srs di Enzo
Monti del 12 settembre 2013
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