Dino è stato il mio primo e unico amico d’infanzia.
Se escludo alcuni mesi per adempiere ai miei impegni
scolastici, sono cresciuto fino all'età di otto anni a Bosco Piazza, una
frazione di Torricella Del Pizzo in provincia di Cremona. Una lingua di terra
compresa tra il fiume Po e i suoi argini maestri. Terra sabbiosa e al tempo
stesso fertile, ricca di prati, di campi di grano, di boschi di pioppi, e dove
l'insistente monotono frinire delle cicale e il richiamo del cuculo
rendevano ancor più noiose e insopportabili le calde ore estive.
Allevato dai nonni e dagli zii in tempo di guerra,
oltre a sollevare dalle fatiche mia madre impegnata nel lavoro e alla cura di
mio fratello più piccolo, la campagna rappresentava il posto più sicuro di
questo mondo. Questo era quello che credevano i miei, ignari dei pericoli che
passavo frequentando Dino, visto che con lui ero sempre in guerra.
In quel gruppo di case che formavano il Bosco c’era
anche Mario che aveva la nostra età. Nonostante si giocasse anche con lui, i
miei pensieri, le mie preoccupazioni, il mio cuore avevano un nome solo:
Dino.
Ero attaccato a lui come la lappola dei fossi. E non
c'era una spiegazione perché questo avvenisse. Forse era il suo modo
d'insegnarmi i segreti della campagna, oppure quello ruffiano di farsi
perdonare solo con gli sguardi, proprio non lo saprei. Scusate se mi ripeto:
aveva di bello quel modo tutto suo di farsi perdonare.
Ambedue biondi con la candela al naso, stessa altezza,
anche se lui più vecchio quasi d'un anno, formavamo una coppia indissolubile.
Nella bella stagione, in braghette e corpetto sbracciato, con la
fionda che spuntava da dietro il taschino, a piedi nudi e sporchi come
selvaggi si batteva la campagna in lungo e in largo. Perfino per
fratelli ci scambiavano.
Dino si accompagnava al suo Checco: una cornacchia
ammaestrata a cui avevano tarpate le ali; io al mio bastone che mi serviva
sia per andar a pascolare le oche di nonna e di zia Teresa che per
difendermi da lui. Eh, sì! Dovevo tenerlo ben lontano perché di tanto in
tanto ci si azzuffava, e purtroppo lui aveva sempre la meglio.
Mentre rimanevo in città, lui non si staccava dalla
campagna, e ogni volta che ritornavo mi aggiornava. Non solo, mi costringeva a
seguirlo nelle sue imprese, se non obbedivo ai suoi ordini, diventava
aggressivo, violento, e me le suonava. Mi considerava un po' come il
suo servo, se non addirittura il suo schiavo.
Si scavalcavano le siepi e si faceva man bassa negli
orti dei vicini. Ci si arrampicava sugli alberi per arrivare ai nidi, a volte,
erano piante altissime, e per due soldi di cacio come noi, erano talmente alte
che, nello scendere, oltre al terrore, ero preso anche dalle vertigini. Quel
che si faceva a quei poveri animali che ci capitavano tra le grinfie non è da raccontare.
Ricordo che si scorrazzava per la campagna in mezzo ai prati, nei
boschi, sugli argini, sulle rive degli stagni e del fiume, strappando
rosolacci, spiaccicando insetti e sguazzando nei fossi. Sempre fuori di casa e
liberi come uccelli. Le prede si dividevano senza bisticciare; fatta eccezione
il giorno che catturammo insieme un leprotto. Visto che non lo si poteva
portare a giudizio di Re Salomone, senza darmi spiegazioni, se lo tenne. In lui
conviveva generosità ed egoismo, e bastava poco perché passasse dall'amore
all'odio. A giorni era così cattivo che anche le api lo sfuggivano: era
l'unico tra noi ragazzini che s'avvicinava alle arnie.
Eppure, di lui ricordo i fischi di quando richiamava
la sua cornacchia, l'odore del suo sudore, le croste delle sue sbucciature, i
calli delle sue mani, l'abilità nell'usare il temperino, d'infilare un lombrico
nell'amo e nel riconoscere dalle uova il tipo d'uccello. Quanti rimpianti e
quanta nostalgia dei profumi e dei sapori della terra dei miei nonni! E che dire
delle nostre imprese? E di quel giorno?
Di mattina, entrammo nella stalla di mio zio Gino
per vedere il vitellino nato da una settimana. Non c’era nessuno, neppure
Tacheli, il mezzadro dello zio. Come l’animale ci vide o ci sentì, sebbene
fosse impastoiato, s'alzò dalla sua cuccia di paglia, felice di vederci. Aveva
il pelo macchiato di marrone, due occhioni colmi di stupore e un musetto,
nonostante fosse bagnato di muco, talmente delizioso e piacevole da
attirare baci e carezze.
Un paio di volte mamma mucca si voltò verso di noi
richiamando il vitellino con dei muggiti, forse per avvisarlo che sarebbe
caduto in mano a due monelli. Dopo averlo coccolato e accarezzato con dolcezza
sul muso e sulla groppa, quella bestia del mio amico si slacciò i calzoncini e
gli strofinò sul muso il suo pistolino(1). Chiamatela cattiva abitudine o
brutto vizio, ma lui quell'arnese l'aveva sempre in mano. Ma non pensate male!
Lo fece senza malizia. Non avevamo ancora l’età per immaginare ciò che le
nostre ragazze ci avrebbero fatto nell’età adulta. Lo fece così, tanto per
scherzare.
Il vitello gli diede una linguata, Dino rideva
divertito e glielo appoggiò sul muso una seconda volta. Il vitello che aveva
mancato la preda la prima volta, prima di riprovare ad agguantarglielo, gli
diede una testata in avanti come quando succhiava il latte dalla mammella di
sua madre. Dino finì a terra. E allora fui io a ridere.
Come si riebbe, crucciato e in tono di comando:
- Adesso, lo devi fare anche tu.
- Cos’è che devo fare?
- Devi darglielo da leccare.
- Ma neanche per sogno!
- Ti manca forse il coraggio?
- Non son mica scemo! Non vedi che t’ha dato una
testata come dà alla tetta di sua madre prima di prenderne il capezzolo?
- Ma che razza d’amico sei allora?
- Uno che non vuol perdere il proprio
pistolino(1).
- Sbrigati! Lo devi fare anche tu,- avvicinandosi con
fare minaccioso.
Il mio bastone quel giorno era alto quanto me ed era grosso
come la metà d’un manico da scopa. Cercò di strapparmelo, lo respinsi e lo
minacciai. Quella bestia non aveva paura neanche del diavolo. Fece qualche
passo avanti, e allora alzai in alto il bastone. Mentre cercava ancora di
assalirmi, gli sferrai una botta dall’alto in basso. Lo colpii alla spalla,
avendo piegato in tempo il capo per evitare il colpo. Che fosse sbilanciato o
scivolato non lo saprei, sta di fatto che per la seconda volta cadde a terra.
Nel suo sguardo lampeggiarono sia l'odio che
la vendetta. Stava per rialzarsi, quando lo minacciai:
- Se ti alzi, t’accoppo!
E poi … e poi me la diedi a gambe ancor più
velocemente della volta che lui m’aveva rotto il mio schioppetto(2) e io avevo
tramortito con una sassata il suo amato Checco.
Il giorno dopo, con accanto la sua fedele cornacchia, era
davanti alle mie finestre come se niente fosse. Se non fosse venuto,
sarei andato io da lui.
(1) Pene di bambino.
(2) Fucile da bambino.
Fonte: srs di Enzo
Monti del 12 settembre 2013
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