Peschiera del Garda: militari di servizio al Forte III
Risorgimento da riscrivere. Liberali & massoni contro la Chiesa, è il titolo significativo di un’opera recente di
Angela Pellicciari.
In effetti a 150 anni dai moti del 1848-49 e a quasi 140 dalla proclamazione del Regno d’Italia, è compito impellente dello storico narrare spassionatamente e obbiettivamente quello che fu veramente il Risorgimento italiano. Un dato di partenza ormai accertato riguarda l’impopolarità del movimento di unificazione. Il Risorgimento non fu per nulla popolare. Questo fatto inequivocabile è stato a lungo sottaciuto o ammesso, diremo così, en passant dagli studiosi, senza che ne traessero le debite conseguenze.
Impopolarità del Risorgimento
Leggendo i testi di autori che scrivono a ridosso di quegli anni e quelli di numerosi epigoni contemporanei si possono trovare spesso espressioni del tipo: il popolo di Milano o il popolo di Venezia insorsero nel 1848. Sotto questo ambiguo termine però che cosa effettivamente si comprendeva? La massa della popolazione cittadina o non forse un’agguerrita minoranza ideologicamente orientata? Furono queste minoranze, infatti, numericamente poco rilevanti, ma decise ideologicamente e appartenenti alle classi elevate della società di allora, a guidare il movimento risorgimentale, nell’indifferenza, se non addirittura nell’ostilità, dei ceti popolari, soprattutto delle campagne.
Recitava una canzone del 1949
Viva Radetzky e viva Metternich
La forca ai sciori e viva i povaritt (1)
Rivoluzione incompiuta, ma Rivoluzione
Quest’aspetto minoritario del Risorgimento suscitò a suo tempo la critica della storiografia marxista, che parlò allora di Rivoluzione incompiuta, di Rivoluzione conservatrice, per la svolta ‘moderata’ che prese il moto rivoluzionario proprio nel ’48, con l’alleanza tra una sua parte e Casa Savoia.
Si trattò tuttavia sempre di una Rivoluzione, figlia del moto politico del 1789, cui si ricollega nello spirito e negli effetti. Il nazionalismo, parto anch’esso della Grand Revolution dell’89, fu certo uno dei capisaldi dell’ideologia quarantottesca, una sorta di religione laica, con i suoi sacrari e i suoi martiri, ma in generale erano i princìpi liberali e anticattolici (incarnati soprattutto da sette segrete come la massoneria, la carboneria o il movimento mazziniano) che ne costituirono l’altra nota dominante.
Il ’48 da questo punto di vista è davvero importante. Vede, infatti, il fallimento sul nascere del tentativo cattolico-liberale neoguelfo, cui il Papa Pio IX aveva quasi dato la benedizione durante i primi anni di pontificato, e che venne però troncato con la celebre Allocuzione del 29 aprile 1848, quando la guerra all’Austria era già stata dichiarata da Carlo Alberto. In quel pronunciamento Pio IX separava la cosiddetta causa ‘nazionale’ dalla religione cattolica e dal Papato e intimava al generale Durando, comandante le truppe pontificie sul Po, di non invadere il Lombardo-Veneto e quindi di non aggredire l’Austria.
Il ’48 inoltre, a fronte di questa sconfitta, segna anche un decisivo progresso, dal punto di vista rivoluzionario, nella sua tattica aggressiva. Quello che, infatti, perse in purezza ideologica, accantonando per un momento sia il terrorismo di stampo carbonaro che l’insurrezionalismo mazziniano, entrambi falliti proprio a causa dell’ostilità della maggioranza degli italiani, guadagnò in efficacia assicurandosi l’appoggio del Re di Sardegna che, concedendo la costituzione (Statuto Albertino, 4 marzo 1848) adottando il tricolore, sopprimendo l’ordine della Compagnia di Gesù nell’agosto, si mise alla testa della fazione moderata. L’Austria rappresentava doppiamente il nemico. Era lo straniero che conculcava il territorio nazionale irredento, e soprattutto il garante armato del sistema politico uscito dal Congresso di Vienna fondato sul principio dell’alleanza fra Trono e Altare, tra principio di legittimità e religione cattolica.
Una guerra ideologica
La guerra del ‘48 fu quindi una guerra ideologica, combattuta non meno con le armi della propaganda che con quelle reali. Alla guerra vera se n’aggiunse un’altra parallela, non meno efficace, quella psicologica, fatta di libelli, intimidazioni, in perfetto stile giacobino. Questo fu certamente l’apporto più importante che quella minoranza diede a Carlo Alberto, più ancora forse dei numerosi volontari che si affiancarono all’esercito piemontese nel corso della campagna. Il superamento della fase mazziniana non fu però sufficiente per garantirne il successo.
Fu, infatti, determinante, come dimostrarono le campagne del 1859 e del 1866 l’intervento delle potenze estere, in primis la Francia di Napoleone III e l’Inghilterra. La conclusione paradossale cui si giunge è la seguente: il Risorgimento appare un fenomeno rivoluzionario guidato da una minoranza, incapace da sola di attuare il suo progetto di costituzione di uno stato nazional-liberale, senza l’aiuto interessato di un’antica e prestigiosa dinastia (i Savoia) e di potenti alleati esteri.
La monomania storiografica filo-risorgimentale ha voluto dimenticare o, peggio, ha denigrato, bollandolo come traditore o rinnegato, chi, per un motivo o per l’altro, non avesse aderito a quello schema ideologico. Noi conosciamo tutto o quasi sui protagonisti rivoluzionari del 1848-49. Abbiamo i loro nomi, ne conosciamo le azioni, possediamo anche i loro cimeli, in istituzioni sorte appunto per mantenerne viva la memoria come i Musei del Risorgimento (quello di Vicenza, per esempio, custodisce un paio di mutande di Garibaldi!).
La damnatio memoriae invece è scesa, come un velo, sui nomi, le azioni e i pensieri di chi militava dall’altra parte della barricata, ingenerosamente condannati al silenzio. Tra questi figurano certamente e in prima linea quegli italiani e soprattutto quei veronesi che militarono tra le file imperiali durante quei tragici anni.
Gli italiani nell’esercito imperiale alla vigilia del 1848
Quando nel 1814 la Casa d’Austria riprese possesso della Lombardia e delle Venezie, abrogò uno dei provvedimenti legislativi più impopolari dell’epoca napoleonica: la coscrizione obbligatoria. Quest’istituto, introdotto la prima volta dalla Rivoluzione francese e poi diffuso in tutti i territori conquistati da Napoleone, suscitò ovunque un’inestinguibile ripugnanza, causando, tra i ceti meno abbienti, che ne erano la vittima principale, uno stato endemico di rivolta – si pensi, per stare al caso di Verona, alle rivolte contadine del 1809 – con un’elevatissima percentuale, nonostante ogni sforzo in contrario, di renitenti alla leva, che andavano a rimpolpare le file dei briganti di strada e degli oppositori del regime.
L’Austria non volle seguire l’esempio di Napoleone, per due buone ragioni. Innanzitutto, il sistema era troppo costoso e impopolare, stante la naturale riluttanza delle popolazioni. In secondo luogo, cosa più importante, contrastava con i princìpi stessi della monarchia. La coscrizione obbligatoria presuppone infatti l’idea del cittadino-soldato e della nazione armata. Tutto lo Stato, in ogni sua classe, si arma contro il possibile nemico, con il coinvolgimento ideologico delle masse sempre più grande, chiamate anch’esse a partecipare in prima persona ai destini della nazione, o più prosaicamente come l’intendeva Bonaparte come ‘carne da cannone’ in gran quantità e a basso costo.
L’Austria non poteva che rifiutare quest’impostazione della questione militare. Il soldato nella prospettiva imperiale era unito al Sovrano da un vincolo di fedeltà personale, fondato sul principio della legittimità sacrale della Sua autorità. Di qui il carattere sovranazionale dell’esercito asburgico. Chiunque, italiano, tedesco, francese che fosse, il quale avesse giurato fedeltà all’Imperatore, poteva farne parte. Il sistema di coscrizione quindi rispettava questi criteri.
Nel Lombardo-Veneto consisteva nel sorteggio. I coscritti delle classi di leva venivano estratti a sorte, restando la possibilità per i più abbienti d’essere sostituiti, dietro pagamento, ecc. Di solito erano i contadini più poveri e soprattutto gli indesiderati che entravano a far parte dell’esercito.
Dati successivi agli anni 1848-49 indicano che la renitenza alla leva tra i veneti al soldo imperiale era bassissima. Nel 1863, mentre nell’esercito italiano da poco costituito le diserzioni si aggiravano sul 20%, tra i coscritti veneti si segnalavano 17 refrattari su 7.008 reclute, l’anno successivo 22 su 6907. (2)
Il servizio militare sulla carta durava 10 anni, 8 di servizio attivo più 2 di riserva. Tuttavia, per motivi d’economia, si preferiva ridurlo a tre anni effettivi, per i corpi non specializzati, come la fanteria.(3)
Questa modalità di reclutamento non gravava eccessivamente sulle popolazioni, almeno in Alta Italia, se il Lombardo-Veneto nel 1846 forniva per ogni milione d’abitanti 6.333 uomini, contro gli 11.715 dell’Austria o i 16.774 del Regno di Boemia. Le regioni italiane erano tenute a formare 8 Reggimenti di fanteria, 1 di cavalleria leggera (il n. 6) e 2 battaglioni di Cacciatori a piedi (Jäger), l’8° e l’11°. I Reggimenti di fanteria venivano reclutati su base territoriale e costituivano quindi dei reparti omogenei ed in particolare:
Reggimento n. 13 Wimpfen, con distretto d’arruolamento Padova e Venezia.
Regg.to n. 16 Conte Zannini, Vicenza e Treviso.
Regg.to n. 26 Ferdinando d’Este, Udine.
Regg.to n. 38 Haugwitz, misto di bresciani, mantovani e veronesi.
Regg.to n. 45 Arciduca Sigismondo, formato da reclute veronesi e rodigine.
Regg.to n. 23 Ceccopieri.
Regg.to n. 43 Geppert, Como.
Regg.to n. 44 Arciduca Alberto, Milano(4).
S’è asserito che politica consueta dell’Austria fosse quella di dislocare i vari reparti il più possibile lontani dai luoghi di reclutamento, per meglio garantirsi della loro fedeltà e sfruttare il naturale antagonismo e la diversa nazionalità tra le truppe e le popolazioni dei paesi di guarnigione per meglio controllare entrambi. Questa tesi in verità appare poco fondata.
Il Feldmaresciallo Radetzky, comandante in Capo dell’esercito imperiale in Italia, alla vigilia della guerra del 1848, disponeva, infatti, di circa 70-75.000 uomini, suddivisi in 61 battaglioni di fanteria, 36 squadroni di cavalleria e 108 batterie. Gli italiani formavano 24 battaglioni di fanteria, ed erano il più numeroso contingente nazionale del suo esercito, pari al 33% del totale, ossia un soldato su tre delle truppe di Radetzky era italiano.
Considerando gli anni precedenti al ’48, i documenti dimostrano che la dislocazione dei reggimenti era guidata esclusivamente da esigenze pratiche, e che, quand’era possibile, si preferiva porli di guarnigione nelle terre d’origine. Così, negli anni che vanno dal 1830 al 1847, il Reggimento Haugwitz n. 38, composto da veronesi, mantovani e bresciani, è di guarnigione nelle seguenti piazze, tutte, eccetto due, in Italia: Brescia, Ancona-Cremona, Brescia, Cremona, Mantova, Verona, Cremona, Ragusa, Fiume, Udine, Vicenza-Padova, Mantova-Legnago. Allo stesso modo il n. 45 Arciduca Sigismondo, anch’esso composto di veronesi, nei medesimi anni è di stanza a Fiume, Zara, Udine-Mantova, Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Verona, e nel 1848 si trova parte a Bergamo, parte a Verona. È stato anche sostenuto che gli italiani delle classi abbienti, i nobili soprattutto, fossero assai restii, proprio per considerazioni ideologiche, ad entrare nel corpo-ufficiali, dominato dall’elemento tedesco. In verità anche in questo caso le cifre smentiscono l’assunto. Nel Reggimento italiano di fanteria n. 45 sono 42 gli ufficiali dal cognome italiano su 115, pari al 36,5 %, mentre nell’altro Reggimento, formato in parte da veronesi, il 38° Haugwitz, gli ufficiali italiani sono quasi la metà, il 42%.(5)
Nella bufera
Nel gennaio 1848, quando a Milano lo ‘sciopero del tabacco’ sta raggiungendo il suo culmine, l’alto comando militare austriaco in Italia non dubita affatto della lealtà dei soldati italiani(6), e nonostante siano giunte avvisaglie, nei mesi precedenti, di una forte attività di propaganda per spingere alla disubbidienza e alla diserzione i reparti d’ogni nazionalità, ed in particolare i lombardo- veneti, Radetzky non crede di dover intervenire e li giudica casi isolati(7). Il Generale imperiale von Schönhals anzi, nelle sue Memorie, ricorda con compiacimento come a Milano il 5 gennaio “...i soldati uscirono dalla caserma col cigarro in bocca, non però come l’altre volte isolatamente. I granatieri italiani in ispecie avevano un cigarro ai due lati della bocca, e se ne andarono allegramente, mandando fuori nugoli di fumo.”(8)
Poi arrivò la catastrofe. Mano a mano infatti che si diffondevano le notizie sulle varie insurrezioni nelle capitali italiane e all’estero, il fermento rivoluzionario si fece sempre più forte in tutto il Regno e soprattutto a Milano e Venezia. Scoppiò quindi la rivoluzione anche a Vienna e l’Imperatore Ferdinando I il 15 marzo concesse la Costituzione.
La ripercussione nel Regno Lombardo-Veneto fu violentissima. I rivoluzionari uscirono allo scoperto, chiedendo in ogni città la formazione della Guardia Civica, una maggiore libertà di stampa e l’introduzione del sistema parlamentare, e a poco a poco, a seconda dell’energia dei loro interlocutori, fossero militari o civili, finirono col sostituirvisi. L’apparato di governo asburgico si sciolse come neve al sole, incapace di fronteggiare quell’insolita situazione e spiazzato dai fatti viennesi. Anche i militari erano in difficoltà.
L’esercito infatti non era concentrato, ma disseminato in numerose piazze e quindi l’apparato militare giunse sull’orlo del collasso, mentre i rivoluzionari si armavano, tagliavano le vie di comunicazione e prendevano piede in quasi tutte le città-capoluogo, eccetto le importantissime piazzeforti del Quadrilatero, Verona e Mantova, dove troviamo di guarnigione reparti italiani, ovvero nella prima 2 battaglioni, per un totale di 12 compagnie, del 45° Regg.to Arciduca Sigismondo (fanti veronesi e rodigini) appartenenti alla divisione di Riserva Taxis(9), e, nella seconda, due battaglioni del n. 38 Haugwitz, (bresciani, mantovani e veronesi) che, sebbene spinti alla diserzione dai rivoluzionari locali, rimangono fedeli(10).
Laddove le autorità imperiali non erano sufficientemente risolute, i primi a farne le spese erano proprio i soldati italiani, come ad esempio a Venezia, dove il Tenente Generale Conte Zichy, che aveva assunto i pieni poteri, finì collo stipulare, il 22 marzo, una capitolazione di resa con il Governo provvisorio rivoluzionario presieduto da Daniele Manin, nella quale si contemplava tra l’altro il passaggio delle numerose truppe italiane del 1° battaglione Regg.to n. 13 Wimpfen (reclutate nel padovano e veneziano) e del 5° battaglione di guarnigione, anch’esso formato da italiani, sotto le nuove autorità rivoluzionarie. Il che, buon grado o malgrado, furono costretti a fare(11).
In Lombardia, mentre a Milano i rivoluzionari erano insorti (18-22 marzo), le comunicazioni sembravano interrotte. Radetzky, nel tentativo estremo di soffocare la ribellione, aveva dato ordine a tutte le guarnigioni e reparti della Lombardia di convergere sulla capitale, ma, stando alle Memorie di Von Schönhals, l’ordine fu quasi completamente disatteso, poiché quasi nessuna ordinanza riuscì a giungere destinazione.
Soltanto da Bergamo giunsero delle truppe. “In conseguenza di quest’ordine, da Bergamo si mise in marcia un battaglione del Reggimento Arciduca Sigismondo, ma per uscire da quella città avea dovuto aprirsi il varco pugnando, ed il suo comandante, Tenente Colonnello Barone Schneider, cadeva ucciso dal cavallo. Questo battaglione giunse non pertanto felicemente a Milano, come ché fra continue pugne, guidato dal valoroso Colonnello Heinzel. Esso era composto di Italiani.”(12) Più precisamente di veronesi e rodigini.
Lo stesso reparto viene ancora citato dall’ufficiale austriaco, mentre narra di uno scontro avvenuto durante le Cinque giornate nei pressi di Porta Ticinese. “In uno di questi attacchi si segnalò il battaglione di fanti Sigismondo venuto da Bergamo, il quale corse colla baionetta addosso agli assalitori e acconciò i suoi compatrioti pel dì delle feste.”(13)
Disertori
Il numero delle diserzioni, se non esattamente quantificabile, fu comunque alto(14). Ancora von Schönhals ricorda che se un battaglione del Regg.to Geppert n. 43 (di comaschi) che era di stanza a Monza, riuscì, pur combattendo e perdendo tutti i bagagli, a ricongiungersi con il grosso dell’esercito sotto Milano15, altri reparti si dissolsero.
A Brescia si ha la defezione di una compagnia e 1⁄2 del 3° battaglione Haugwitz, che addirittura fa prigioniero il comandante; a Cremona 2 battaglioni del Regg.to n. 44 Arciduca Alberto, formato da milanesi ed 1° battaglione del Regg.to n. 23 Ceccopieri, anch’esso formato da lombardi, diserta con gli ufficiali, evidentemente italiani; e lo stesso accade anche a Udine e Palmanova (3° battaglione Regg.to Arciduca Ferdinando n. 26 di friulani) a Treviso (3° battaglione del Regg.to Zanini N. 16, di vicentini e trevigiani).(16)
Perché queste truppe disertarono? Certamente la pressione psicologica, la propaganda, le minacce, le voci infondate diffuse artatamente sul loro destino, i tentativi di corruzione, esercitarono un ruolo fondamentale.
Come si diceva la guerra del ‘48-49, sull’esempio di quelle scatenate dai rivoluzionari francesi, era una guerra ideologica. Narra ad esempio nel suo rapporto, il Cap. Von Aichelberg, costretto ad attraversare il Veneto in rivolta con le truppe italiane al suo comando, appartenenti ad un battaglione del Regg.to Arciduca Ferdinando d’Este n. 26 (fanti friulani):
“Tutti i simboli dell’autorità imperiale erano stati distrutti e al loro posto sventolava il tricolore italiano; ovunque gli uomini del trasporto [cioè del reparto] venivano accolti con grida di gioia e di ‘Evviva gl’italiani, evviva l’Italia, l’indipendenza, evviva Pio IX ecc.’ [...] Ai soldati venivano ovunque offerti pane e vino e c’erano pure taverne dove essi potevano rifocillarsi senza pagare nulla. Voci, totalmente infondate e artatamente messe in circolazione per esaltare il popolo e per infondere entusiasmo, circolavano di bocca in bocca, agenti seguivano il trasporto tentando con ogni sorta di ragionamento e anche con del denaro di minare lo spirito delle truppe.”
A Bassano “i capi della guardia civica, preti ed emissari vennero alle due caserme dove gli uomini erano acquartierati, lessero loro gli ultimi giornali milanesi e veneziani, oltre a scritti sediziosi, poemetti, ecc.; fu tenuta una messa e venne distribuito del denaro. I civili facevano capannello con dieci o più militari per volta allo scopo di coinvolgerli tramite la discussione. Chiedevano ai soldati di fermarsi a Bassano, dove sarebbero stati trattati benissimo. Furono fatti tentativi per terrorizzarli dicendo loro che sarebbero stati inviati in Germania come ostaggi, che sarebbe stato loro raddoppiato il tempo di ferma, che sarebbero stati uccisi per vendicare le truppe tedesche cadute in Italia. Fu loro detto che l’Italia aveva bisogno di loro per la propria difesa ecc.”(17)
Altro strumento di propaganda era il cosiddetto ‘catechismo’ rivoluzionario, esemplato sui modelli dell’89, una versione blasfema dei catechismi a domanda e risposta allora impiegati per l’istruzione religiosa. Come ha giustamente osservato Alan Sked, che pure non nutre particolari simpatie per l’Austria: “Il catechismo era essenzialmente un documento d’odio” (18). Oltre a sostenere con tono declamatorio e demagogico il più acceso nazionalismo, fomentava l’avversione per le altre nazionalità e soprattutto per quella tedesca.
Eccone qualche brano. “Cosa distingue esteriormente l’italiano? L’odio per il tiranno tedesco, odio che deve essere manifestato sempre e comunque, nelle parole e nelle azioni.” e ancora, “Quando potremo dirci benedetti nella nostra nazionalità? Quando berremo il sangue dei tedeschi nei crani di Metternich e Radetzky”(19).
Non manca ovviamente la parte dedicata ai ‘collaborazionisti’ come appunto i soldati italiani presenti nelle file imperiali, che vengono bollati come Caini e che saranno puniti da Dio con la morte. Chi invece non crede al catechismo, è tacciato di pseudoitaliano, destinato, come il fico sterile di evangelica memoria, ad essere sradicato e gettato nel fuoco (20). Sono utilizzate infine al medesimo scopo, sempre imitate da modelli che rimontano all’epoca giacobina, delle versioni blasfeme di preghiere della liturgia cattolica, come Le Litanie dei pellegrini lombardi(21) o il Padrenostro dei lombardi, ove si prega Dio di liberare dal male e dai Tedeschi(22).
Se tuttavia la pars destruens, per così dire, della propaganda rivoluzionaria si dimostrò efficace nell’allontanare parte delle truppe italiane dalle proprie bandiere, questi disertori, non abbracciarono affatto la causa nazionalista. Essi semplicemente se ne ritornarono alle loro case, e, sebbene si cercasse, in un primo tempo, di utilizzarne una parte contro l’esercito imperiale, tuttavia, era tale l’indisciplina e la riottosità al combattimento, che non furono mai impiegate in prima linea(23).
Le truppe fedeli
Tuttavia, se vi furono numerose diserzioni, molti (circa 10.000) rimasero fedeli al loro giuramento, con la maggioranza dei loro ufficiali. In particolare le storie reggimentali indicano che nella guerra del 1848-49 si distinsero i tre Reggimenti 38° Haugwitz (veronesi, mantovani e bresciani), il 45° Arciduca Sigismondo (ancora veronesi e rodigini) e il 43° Geppert di Como(24), nonché vari altri reparti di minor entità, come un battaglione (il 3°) del Regg.to n. 44 Arciduca Alberto, composto di milanesi(25). È un fatto che tra queste truppe fedeli all’Impero, due Regg.ti, il 45° e il 38°, erano composti dai soldati reclutati nel territorio veronese. Questi reparti, assieme ad altri meno consistenti formati da coscritti lombardo-veneti, hanno partecipato a tutte o quasi le battaglie più cruente della prima guerra d’Indipendenza. Vorrei ricordare brevemente alcuni significativi episodi, che si caricano anche di uno speciale significato simbolico, e gettano una luce poco usuale sui fatti risorgi- mentali.
Il 38° Reggimento di fanteria Haugwitz. La battaglia di Sorio (8 aprile 1848)
Il 38° Haugwitz (bresciani-veronesi-mantovani), alcuni reparti del quale, abbiamo visto, presidiano Mantova, alla vigilia della Rivoluzione, è impegnato in alcuni notevoli combattimenti nel corso dell’aprile 1848.
Radetzky il 6 aprile è giunto finalmente a Verona, dopo aver abbandonato Milano e la Lombardia. Sono rimaste in suo possesso solo le fortezze del Quadrilatero. Il Piemonte ha dichiarato la guerra all’Austria il 23 marzo ed ha attraversato il Ticino. Accanto all’esercito sardo, che è il meglio armato e più numeroso, si affiancano una schiera di truppe eterogenee, spesso improvvisate, che provengono da tutte le parti d’Italia.
La posizione dell’esercito austriaco è quella di una fortezza circondata su tre lati. L’unica via di comunicazione col resto della Monarchia è a Nord attraverso la valle dell’Adige. Nel Veneto si sono costituiti dei bizzarri corpi franchi che si fanno chiamare i Crociati. Portano come contrassegno una croce rossa sulla divisa, quando l’hanno; sono entusiasti della guerra all’Austria, provengono da tutte le città venete, e sono formati in gran parte di studenti. In generale sono male armati e non avvezzi alla disciplina militare.
Ai primi d’aprile 1848, queste truppe di volontari cominciarono a disporsi pochi chilometri ad ovest di Vicenza nei pressi di Montebello, nel punto in cui le ultime propaggini dei monti Lessini quasi toccano i colli Berici. Radetzky a quanto sembra, appena arrivato a Verona, inviò una colonna piuttosto nutrita, forte di una quindicina di compagnie di fanti, 4 squadroni di cavalleria, 6 cannoni da 12 e una compagnia zappatori verso Vicenza, per verificare in quale stato fossero le strade e se le comunicazioni erano aperte.
Il comando era stato affidato al maggiore generale principe Federico di Liechtenstein, che divise le sue truppe in due colonne, affidando il comando della seconda al maggiore Martini (evidentemente un italiano). La fanteria imperiale era formata da reparti del 43° Geppert (comaschi) e del 38° Haugwitz (veronesi-bresciani-mantovani).
Il 7 aprile le truppe austriache entrarono in contatto con la linea nemica. Il giorno successivo le due colonne attaccarono con decisione. Quella di Martini si frazionò a sua volta. Alcune compagnie attaccarono le posizioni dei rivoluzionari verso sud-est a Meledo, le rimanenti invece affiancarono sulla destra le truppe della colonna Liechtenstein, che aggiravano Sorio, sulle colline a nord di Montebello. Ancora più a nord altre truppe chiudevano la tenaglia, costringendo i ‘crociati’ a ritirarsi su tutta la linea fino a Vicenza. L’esito paradossale della battaglia di Sorio (7-8 aprile 1848), definita la prima battaglia del Risorgimento nel Veneto, si risolse in uno scontro tra italiani, Vicentini, Padovani, Trevigiani da una parte, veronesi e lombardi dall’altra(26)
38° Haugwitz a Castelnuovo (11 aprile 1848)
Il secondo episodio, davvero tragico, in cui vediamo impegnati reparti del 38°, è a Castel- nuovo del Garda, il 12 aprile 1848. Carlo Alberto, intenzionato a porre l’assedio a Peschiera, chiede alle truppe irregolari di attuare una diversione che appoggi l’attacco alla piazzaforte. Così un battaglione di genovesi, milanesi e svizzeri, al comando del colonnello Manara, sbarca a Bardolino, proveniente da Salò.
A Castelnuovo vi è la polveriera che serve la fortezza in tempo di pace, guardata da pochi soldati imperiali. Anziché limitarsi a svuotare il magazzino, una parte, la più numerosa, delle truppe di Manara, decide di asserragliarsi a Castelnuovo, convincendo la popolazione, forse spinta dal parroco, a cooperare alla difesa, con la costruzione di barricate. Piano giudicato da un autore risorgimentale un’“idea temeraria e folle”, e “generosa e audace imprudenza” (27).
La via tra Peschiera e Verona è quindi interrotta. Dalla città si dà ordine ad una colonna, comandata dal Generale principe Gugliemo Thurn und Taxis, di far sloggiare il nemico. Fanno parte della colonna anche due compagnie del 38°, comandate dal Cap. Maurer; aiutante di campo del principe è il veronese nob. Guglielmo Salerno. Il resto è noto. L’attacco alla baionetta dei fanti imperiali, i combattimenti, il saccheggio, l’incendio. Se quattro soltanto sono i morti e feriti austriaci, i rivoluzionari ne lasciano sul terreno 43, cui si aggiungono 53 abitanti del paese(28). Il 38° ebbe modo di segnalarsi inoltre alla riconquista di Vicenza il 10 giugno, con il 3° battaglione aggregato alla Brigata Simbschen(29), infine nella prima giornata di Custoza, il 23 luglio, nell’assalto delle posizioni piemontesi presso l’Osteria di Bosco, vicino a Sona(30).
Regg.to 45° Arciduca Sigismondo
Si è menzionato sopra come reparti del 45°, dopo essersi aperta la strada da Bergamo, si siano distinti a Milano, durante le Cinque giornate. Ripiegati poi a Verona, li ritroviamo nel Veneto mentre combattono, sempre sotto il comando del Colonnello Heinzel, contro i “Cacciatori del Reno”, comandati dal Colonnello conte Livio Zambeccari (31). Altri battaglioni del medesimo sono di stanza a Verona in quel fatale marzo e rimangono al loro posto.
Dove tuttavia si distinse particolarmente il 45° fu a S. Lucia, il 6 maggio 1848. In particolare, il 3° battaglione, aggregato alla Brigata Strassoldo, fu schierato sull’estrema sinistra del fronte austriaco tra S. Lucia e la località Colombara, sostenuto da 4 compagnie di granatieri D’Anthon anch’essi italiani(32). In questo punto, come è noto, si esercitò il massimo sforzo offensivo dei piemontesi, che però non riuscirono a penetrare profondamente nello schieramento imperiale, e vennero ben presto ricacciati. Ancor’oggi, un monumento funebre eretto nel decimo anniversario della battaglia, ricorda i nome dei caduti imperiali del 45°: il tenente nobile Carlo Baravalle di Blakenburg, il caporale Antonio Sandroni, il sotto caporale, Bortolo Vettore, il gregario, Giuseppe Boldrini, Teodoro Pietropan, Guglielmo Bonfanti, Antonio Lavin, Angelo Boesso, Biagio Terrini, Giovanni Bruschetta, Antonio Bolesani, Lorenzo Orlando, Antonio, Polastri, Giacomo Antonini, Sperandio Gambirasio(33).
Note
(1- Sked A., Radetzky e le armate imperiali, Bologna, Il Mulino,1983, p. 340.2)
2) A. Kozlovic, La battaglia di Sorio. 8 aprile 1848, Vicenza, Editrice Veneta, 1998, p. 56.
3) A. Kozlovic, La battaglia di Sorio..., p. 56.
4) A. Kozlovic, La battaglia di Sorio..., p. 52.
5 Sked A., Radetzky e le armate..., p. 105.
6 Sked A., Radetzky e le armate..., p. 112-113.
7 Sked A., Radetzky e le armate..., p. 88-92.
8 Memorie della guerra d’Italia degli anni 1848-1849 di un veterano austriaco, 2 voll., Milano, Tip. Gugliemini, 1852, I, p. 80.
9 Polver G., Radetzky a Verona nel 1848, Verona, Cabianca, 1913. 65 e 81.
10 Memorie della guerra..., I, 149.
11 Memorie della guerra..., I, 157 e 165.
12 Memorie della guerra..., I, 126.
13 Memorie della guerra..., I, 129.
14 Sked A., Radetzky e le armate..., p. 111-113.
15 Memorie della guerra..., I, 134.
16 Memorie della guerra..., I, 148-149 e 167. Sked, 391-392.
17 Sked A., Radetzky e le armate..., p. 398-399.
18 Sked A., Radetzky e le armate..., p. 121.
19 Sked A., Radetzky e le armate..., p. 406-408.
20 Sked A., Radetzky e le armate..., p. 408.
21 Sked A., Radetzky e le armate..., p. 419-420.
22 Sked A., Radetzky e le armate..., p. 421-422.
23 Memorie della guerra..., I, 103-104. Fabris C.,
24Sked A., Radetzky e le armate..., p.113.
25Fabris C., Gli avvenimenti militari del 1848-49, 3 voll., Torino, Roux Frassati, 1898, II, 393-396.
26Memorie della guerra..., I, 197-198. 2
7Polver G., Radetzky a Verona, p. 226.
28Polver G., Radetzky a Verona..., p. 224. Memorie della guerra..., I, 198-200.
29 Fabris C., Gli avvenimenti militari..., III, p. 106.
30 Fabris, C., Gli avvenimenti militari..., II, p. 273.
31 Memorie della guerra..., I, pp.212-213.
32 Fabris C., Gli avvenimenti militari..., II, p.220.
33 B. Brusini, Melotti, F. Gastaldelli, I. Mengalli, L. Orso, B. Pericolosi, R. Zantedeschi, Un borgo, una storia: S. Lucia nel Risorgimento tra ‘700 e ‘800, 3 vol., Verona, Associazione Festeggiamenti Santa Lucia, 1992, p. 88, n. 59.
Fonte: srs di di Nicola Cavedini; estratto Conferenza tenuta al Convegno storico internazionale “Il 1848 nel Veneto e in Europa” Verona, 21-22-23 ottobre 1999