giovedì 28 novembre 2019

1848, LA GUERRA DI LIBERAZIONE DI MILANO E VENEZIA CONTRO L’AUSTRIA, CURTATONE, MONTANARA E GOITO




Il  1848 prima guerra di indipendenza ove morirono molti napoletani...ma non è ricordato da alcuno!


Tratta da uno scritto di Giacinto dè Sivo, drammaturgo, letterato e storico del Regno delle Due Sicilie, Maddaloni (Regno delle Due Sicilie)

- Cari ragazzi,- Esordì il maestro questa mattina, eccomi a voi con il racconto mensile. So che lo stavate aspettando con trepidazione.- 
Si fermò per qualche secondo vicino alla cattedra e poi prese il solito grosso libro e lo aprì.

- Come già sapete vi leggerò una storia vera, accaduta circa dieci anni fa nel nostro Stato, ed in Italia del Nord e che è bene che voi conosciate con precisione perché un domani questi eventi potrebbero essere nascosti o camuffati. Noi non possiamo conoscere il futuro, questo no, ma con un po’ di immaginazione possiamo individuarne i possibili sviluppi, e molte volte a pensar male ci si azzecca. Sicuramente siamo parecchio odiati nel contesto europeo, la nostra forza autarchica, il nostro progresso scientifico, la nostra ricchezza ed il nostro assetto sociale ci sono molto invidiati, soprattutto dalla nazione più potente del mondo: l’Inghilterra…chissà. Comunque il 1848 fu un anno orribilis…concessione della Costituzione nel Regno delle Due Sicilie, guerra esterna, guerra interna in Napoli e poi contro Ruggero VII in Sicilia, abolizione della costituzione…un bel ’48!

- Il mio racconto, oltre che dai dati documentali è anche suffragato da una mia personale amicizia con il Dott. Giuseppe Antonio Pasquale Barletta , nostro uomo di primario ingegno che partecipò personalmente alla campagna di Curtatone, Montanara e Goito e pure ebbe qualche comparsa perfino a Venezia.

Tutto era in fermento in Italia nel 1848, fermento sostenuto dall’inglese Lord Mintho e dall’Inghilterra che odiava Napoli e la sua dinastia, la Giovine Italia di Giuseppe Mazzini, sempre appoggiata dall’Inghilterra, che soffiava sul fuoco della rivoluzione, le sette che volevano il cambiamento di tutto, la Città di Milano che con le sue cinque giornate aveva scacciato gli austriaci e sollevato l’ingresso del Piemonte in guerra, Giuseppe Garibaldi che rientrato in Italia se ne va a Como a ricercar volontari, Pio IX che sperando in una pacifica transizione dei poteri e nella magnanimità dell’Austria, si rende disponibile a governare la Lega Italiana, Carlo Alberto che impegna il suo esercito di oltre cinquantamila uomini in una guerra contro l’Austria ma che segretamente, spinto dall’Inghilterra, vuole il governo su tutta l’Italia, Ferdinando II che si impegna (ingenuamente) a dare sostegno militare a Carlo Alberto, il Granducato di Toscana in subbuglio e favorevole alla guerra, così come lo Stato della Chiesa, Il Ducato di Parma e Piacenza, quello di Modena e la rinata Repubblica di Venezia sotto la guida di Daniele Manin. Nacque tutto per le cinque Giornate di Milano?

In questo contesto, ed in prossimità del fatto che nel brevissimo periodo Pio IX, avrebbe fatto cadere il suo disegno di sostegno alla Lega Italiana, vi racconto cosa accadde al primo corpo di spedizione napoletano.
Mentre una certa donna lombarda, Cristina Trivulzio Belgioioso, venuta a Napoli, formò un gruppo di centoventi volontari per inviarli nello scacchiere di guerra ove il loro comportamento fu vicino al pessimo, il 1° Battaglione del 10° di Linea di 800 uomini, al comando del Colonnello Rodriguez, partiva quel 5 Aprile, prima via terra poi sul Palinuro verso Livorno e poi per la Lombardia, non avendo ancora il Papa concesso il libero passaggio delle truppe.
Il 14 aprile un secondo battaglione di volontari crociati (Rossaroll) di 558 uomini, insieme ad un secondo Battaglione (altri 800 uomini) del 10° di Linea, al comando del maggiore Viglia, partì via mare sul piroscafo a vapore Archimede.

“Re Ferdinando sottoscriveva il 7 aprile una proclamazione nunziante ai suoi popoli la partenza delle soldatesche; e dichiarante:
“Pigliar la causa italiana con quelle forze che lo Stato del Regno permetteva. Tener come fatta la lega italica, dacchè volevala il consenso unanime dè principi e dè popoli; egli primo averla proposta, egli primo mandar ministri a Roma Già iti soldati e militi per mare e per terra per operare con l'esercito dell’Italia di mezzo: le patrie sorti decidersi su campi lombardi; i Napolitani doversi stringere al loro principe, uniti esser temuti e forti. Confidare nel valore dell’esercito, nella magnanima impresa: per ispiegar vigore fuori, volersi dentro pace e concordia; però sperar nell’amor pel popolo, nella Guardia nazionale, per serbar l’ordine e tutelar le leggi; contassero sulla sua lealtà alle libere istituzioni che ha giurate e vuol mantenere. Unione, abnegazione e fermezza; e sarà certa l’italiana indipendenza. Tacciano avanti a tanto scopo le men nobili passioni; e ventiquattro milioni di italiani avranno una patria potente, comune patrimonio di gloria, e nazionalità da pesare nelle bilance d’Europa.”

Fatti d’arme.

Al 1° Battaglione di linea Napolitano, Carlo Alberto medesimo gli ordinò di prendere possesso del Ponte di Goito (in muratura), mentre egli si dirigeva a Pastrengo. 
Il nostro 2° Battaglione del 10° appena arrivato al campo toscano del Gen. Ferrari ha il suo battesimo di fuoco con gli austriaci, poi d’impeto il giorno 8, il 2° Battaglione sloggiò il nemico. Il Battaglione Napolitano del Viglia, più due battaglioni di volontari di cui uno Napolitano e due di linea toscani, rioccuparono Montanara lasciata libera per errore del Gen. Ferrari. Il giorno 13 maggio gli austriaci attaccarono a Curtatone, Il battaglione volontari napolitano, uno di livornesi, altro di granatieri toscani, due compagnie di bersaglieri, ventiquattro cavalli, e pochi artiglieri attorno a un obice e un cannoncino: poco più che duemila. I Napolitani usciti dalle trincee l’affrontarono, seguiti dal resto del campo; il che, parendo fossero più che non erano, sgominò gli Alemanni, che cadder lasciando morti e prigionieri. Ivi cadde il livornese Dott. Montanelli, arringatore di studenti per la guerra italica.

Contemporanea zuffa seguiva a Montanara. V’eran due battaglioni di linea toscani, quattro compagnie del nostro 10°, due battaglioni volontari, cinque cannoni, e pochi cavalli toscani, intorno a duemila. Il generale Laugier, udendo l’inimico. Pose due cannoni sulla strada. Fra due battaglioni di volontari trincerati, sostenuti dalla linea toscana dietro il centro. I Napolitani, da manca sulla via di Curtatone serbavan le comunicazioni con quest’altro campo, con a destra i cavalli nascosti da una casina. I Tedeschi assaltaron di fronte, lanciando tre Battaglioni a molestar la sinistra; ma il Laugier ordinò al Giovannetti e quindi ai Napolitani e a due compagnie toscane di avanzare sul destro del nemico. La cosa riuscì; e una delle compagnie nostre col capitano Cantarella prese di forza una casina. Il ministro toscano Corsini presente alla battaglia battea le mani dicendo: Viva i Napolitani!

Radetzki con oltre ventimila uomini si diresse quindi a Curtatone e Montanara con superiorità numerica di oltre quattro volte…dopo aspri combattimenti e privi di artiglieria Laugier ordinò la ritirata. Le compagnie Napolitane, trovatesi tra due fuochi, passarono a nuoto il fiume. Il napolitano Pilla, morì sostenendo con il suo battaglione pisano la generale ritirata. Il Battaglione Napolitano perduti 250, tra morti e prigionieri e 86 feriti, ridotto a duecento appena, passò la notte a Goito, e a dimane andò a Brescia.

A Montanara comandava il Giovannetti. I nostri stavan divisi così. La compagnia cacciatori a sinistra, l’ottava fucilieri al centro, e i granatieri e la quinta indietro. Dalle undici del mattino sino a tardi la sera, il combattimento contro gli austrici fu violentissimo. Quindi fu ordinata la ritirata verso Castelluccio. Le nostre compagnie che al mattino contavano 287 uomini, a sera contarono 183 mancati 104 tra morti e prigionieri. Questo misero avanzo fu messo a guardia del ponte di Goito. Al vecchio Caldarella, salvato sulle braccia dei soldati, fu assegnata da Carlo Alberto la medaglia al valor militare.

Il 10° di linea, del colonnello Rodriguez, stava fermo sul ponte di Goito. Egli ordinò ai suoi di non prendere sgomento e di essere prodi. Gli alemanni tardarono e fu la salvezza. Carlo Alberto visitò a mezzodì il ponte e lodò le difese fatte dai soldati Napolitani. Colà eranvi otto compagnie del Rodriguez e’l maggiore Viglia: tre stavano sul parapetto della testa del ponte, una presso un muro di giardino con feritoie, guardanti il fiume verso il molino, altra su due case dietro il ponte, e l’ultime tre a sinistra della linea di battaglia sarda, di costa alla riva del fiume. I Tedeschi li investirono sulle ore tre, occupando una casina propinqua: però i nostri lasciato il parapetto per sloggiarli, rischiaron di cader prgionieri, e furono salvi da un’altra compagnia mandata dal Viglia. Rinnovarono l’assalto, e da ultimo aiutati da un battaglione sardo, a forze unite li respinsero.
Gli austriaci allora si raggomitolarono sulla dritta, e urtarono sulla sinistra avversa; ma patirono gravi danni dalle artiglierie, sicchè disordinati retrocessero a Rivalta. Peschiera si arrese. 

Al Rodriguez fu data la croce di S. Maurizio e Lazzaro; ad altri ufficiali medaglie del valor militare.
Una grande vittoria che vide i Napolitani artefici in tutto e così paganti in tutto a livello di vite .

Il maestro fermò la lettura ma nella nostra classe rimase un silenzio tombale. Avevamo quasi tutti la bocca semichiusa, per non dire aperta. Un racconto bellissimo, vero e sentito.
Il maestro ci disse:
- Cari ragazzi, sulla situazione delle nostre altre truppe al comando del generale Guglielmo Pepe, e della resistenza di Venezia, ve ne parlerò in un altro racconto. Vorrei ora soffermarmi su Curtatone, Montanara e Goito.-
La classe iniziò a risvegliarsi e vociare in silenzio, ma il maestro alzò il braccio destro a mezz’aria e chiese di nuovo il silenzio.
- Questo che vi ho letto è un corto brano di storia che il nostro Giacinto dè Sivo rilasciò tempo fa ai giornali. E’ storia vera. Quale la mia preoccupazione? Che questa storia verissima non sarà riportata ai posteri, che i nostri morti napoletani non saranno ricordati nel futuro! Io sento, spero sia solo mia immaginazione, che la Storia ci sarà contro, che l’Inghilterra vincerà con una dinastia che non sarà la nostra e sarà posta la “damnatio memoriae” nei nostri confronti.

- Poi l’Inghilterra sta preparando il Canale di Suez che permetterà di “scavalcare l’Africa per i navigli provenienti dall’oceano indiano…e questo fatto non mi convince…

Quanta verità usciva dalle parole del maestro, pensai io. E’ vero, se il Rodriguez, se il Viglia, se Ferdinando II non saranno mai ricordati nel futuro…allora tutto sarà perso. Chi scriverà la storia vera? Ma sarà mai scritta di nuovo? 

La campana di fine studio suonò e lasciammo la scuola in gran silenzio. Ognuno di noi era un Rodriguez, ognuno un Viglia, ognuno un soldato di Curtatone, Montanara e Goito, ognuno un napoletano!
*
Tratto da uno scritto di Giacinto dè Sivo, drammaturgo, letterato e storico del Regno delle Due Sicilie, Maddaloni (Regno delle Due Sicilie)

Fonte: da facebook di di Domenico Iannantuoni    del 24 novembre 2019

domenica 24 novembre 2019

QUADRO STATISTICO-ECONOMICO DEI VARI STATI D'ITALIA PREUNITARI DI ADRIANO BALBI




Nel 1830 uno studioso, Adriano Balbi preparò una tabella interessante.


QUADRO STATISTICO-ECONOMICO DEI VARI STATI D'ITALIA PREUNITARIA"


REGNO LOMBARDO-VENETO
Popolazione 4.930.000; 
Esercito 5.000  (0,1%)
Rendita(in franchi) 122.000.000  (27,8 franchi a persona)

REGNO DI SARDEGNA
Popolazione 3.800.000;
Esercito 23.000; (0,6%)
Rendita 60.000.000;  (15,8 franchi a persona)

GRANDUCATO DI TOSCANA
Popolazione 1.275.000;
Esercito 4.000; (0,3)
Rendita 17.000.000;   ( 13,3 franchi a persona)

STATO PONTIFICIO
Popolazione 2.590.000;
Esercito 6.000; (1,5%)
Rendita 30.000.000; ( 11,6 franchi a persona)

REGNO DELLE DUE SICILIE
Popolazione 7,420.000; 
Esercito 30.000;  (04%)
Rendita:84.000.000.  ( 11,3  franchi a persona) 


Dopo arrivò il  risorgimento, l'indebitamento, le tasse, e l'emigrazione, per sfuggire alla fame,  alla pellagra, alla miseria nera. 



venerdì 22 novembre 2019

L'ULTIMA POESIA DI ROBERTO PULIERO IN OSPEDALE… “GRASSIE A CHI M'HA CURÀ” .

Roberto Pugliero



Il giorno 19 novembre , a 73 anni, si è spento Roberto Puliero, grande regista, attore e radiocronista storico dell'Hellas Verona.
Ricoverato a Borgo Trento, nelle ultime settimane ha scritto una poesia dedicata a dottori e infermieri che l'hanno curato.


Ricoverato a Borgo Trento, nelle ultime settimane ha scritto una poesia dedicata a dottori e infermieri che l'hanno curato.


GRASSIE A CHI M'HA CURÀ 

Quando un giorno uno el se cata
ricoverado a l’ospedal,
più che ben, se po’ anca dir
che, struca struca... te stè mal
Ma, za dopo un par de giorni,
te te senti consolà,
e da una serie de attensioni
circondado e confortà!
Gh’è un bel sciapo de infermiere
che come ti te le ciami,
le se parcipita a iutàrte
come un supìo de tsunami!
Le te alsa, le te sbalsa,
le te senta, le te sbassa,
le te palpa, le te tasta,
le te dindola e strapassa
Fin da mattina imboressàde
la Federica o la Veronica
un’iniesson de bonumor
che la par la bomba ’tomica!
E le prova ad una ad una
sigalando un fià a la bona...
... che sia pronte par la sera
le cansone del Verona,
e le sistema le bandiere!,
parchè riva fin lassù
la gioiosità festosa
dei colori gialloblù!
... po’ gh’è Andrea, che te lo senti
quando riva el so vocion
che’l par proprio vegnù fora
da un Sior Todaro brontolòn
E Francesco che po’ se casco,
so a la fin contento istesso...
sono sicuro: co un colpetto
el me tira su dal cesso!
E gh’è la Elena col boresso
sempre annesso e incorporado
con la Kety a far da spalla
a quel “duo“ un fià scombinado
Fin che intanto la Michela,
coi so oceti birichini,
la te fa solo pensar
a pastissi e tortellini...
... e po’ gh’è la Paola capobanda:
per governar quelo che gh’è,
ela ghe basta un bel sorriso,
’na parola, anca un giossetin de te...
Du anni fa, forsi impisocado
e de sonno ancora storno,
m’era fin scapà da dir
“quasi quasi qua ghe torno!“
Ben, scusè, m’ero sbalià!...
Voi tornar ma no malà...
voi tornar pa ringrassiar
chi ogni giorno m’ha curà
con affetto e co umiltà
impinando el so lavoro
de amicissia e umanità
 R.P.

mercoledì 20 novembre 2019

Sisinium: Fili de le pute, traite, Gosmari, Albertel, traite. Falite dereto colo palo, Carvoncelle!”



Un ghigno compare sul mio viso, non potete vederlo ma vi assicuro che c’è, e il motivo mi viene cagionato dalla lettura di alcune documentazioni relative agli idiomi della penisola italica.

Non essendo un cultore della storia linguistica del nostro Paese devo, ob torto collo, riferirmi ad altrui affermazioni per comprendere l’evoluzione linguistica della “mia lingua”.

È universalmente riconosciuto che l’italiano moderno poggia i suoi enormi piedi sul latino classico, quello letterario per intendersi mentre il volgo (da vulgaris) aveva un suo idioma composto da un limitato vocabolario latino infarinato con le antiche lingue parlate nell’area, questi dialetti alla fine hanno dato origine alle varie lingue romanze attualmente vive nel bacino linguistico neolatino.

Questa è in breve sintesi la definizione (spero che qualcuno storca il naso, me ne rallegro).

Una prima lista di queste parole volgari la si ritrova nell’Appendix Probi del III secolo dove al fianco della corretta parola latina compare quella che il vogo utilizzava nell’uso comune, lo scopo era quello di affermare la corretta dizione ad uso didattico della parola (pardon per il gioco di “parole”).

In ogni caso il latino classico ha continuato la sua vita anche oltre l’impero romano essendo utilizzato come lingua ufficiale per tutti gli scritti finché un malcapitato giorno del 960 una dichiarazione processuale non sancì la nascita della lingua italiana o per essere più precisi del napoletano, il documento era il Placito Capuano e qui sono sicuro di non essere l’unico a conoscerne l’esistenza.

Qualche annetto dopo, diciamo intorno al 1300, venne eretto il primo grande “monumento” linguistico del volgare della “Caput Mundi” decaduta, la Cronica dell’Anonimo Romano nel quale, udite udite, si rivela come il vulgaris parlato in Roma fosse se non identico affine al napoletano, giusto per citare qualche parola: tiempo, uocchi, vocca, iente (gente), pozzo (posso).

Certo, non è da tutti poter consultare la Cronica, allora vi invito a visitare l chiesa sotterranea di S.Clemente, in uno degli affreschi dell’XI secolo che raffigura il papa Clemente I durante una celebrazione sarete felici di leggere “Sisinium: Fili de le pute, traite, Gosmari, Albertel, traite. Falite dereto colo palo, Carvoncelle!”, beh, se vogliamo è un misto tra volgare e latino e anche quest’ultimo non più rispettoso dei canoni classici della lingua.

Il capitolo 18 della Cronica contiene una biografia di Cola di Rienzo dalla quale voglio estrapolare una parte di una legge emessa: “… fece leiere una carta nella quale erano li ordinamenti dello buono stato. Conte, figlio de Cecco Mancino, la lesse brevemente. Questi fuoro alquanti suoi capitoli:
Lo primo, che qualunche perzona occideva alcuno, esso sia occiso, nulla exceptuazione fatta.
Lo secunno, che li piaiti non se proluonghino, anco siano spediti fi’ alli XV dìe.
Lo terzo, che nulla casa de Roma sia data per terra per alcuna cascione, ma vaia in Communo.
Lo quarto, che in ciasche rione de Roma siano auti ciento pedoni e vinticinque cavalieri per communo suollo, daienno ad essi uno pavese de valore de cinque carlini de ariento e convenevile stipennio.
Lo quinto, che della Cammora de Roma, dello Communo, le orfane elle vedove aiano aiutorio.
Lo sesto, che nelli paludi e nelli staini romani e nelle piaie romane de mare sia mantenuto continuamente un legno per guardia delli mercatanti.
Settimo, che li denari, li quali viengo dello focatico e dello sale e delli puorti e delli passaii e delle connannazioni, se fossi necessario, se despennano allo buono stato.
Ottavo, chelle rocche romane, li ponti, le porte elle fortezze non deiano essere guardate per alcuno barone, se non per lo rettore dello puopolo.
Nono, che nullo nobile pozza avere alcuna fortellezze.
Decimo, che li baroni deiano tenere le strade secure e non recipere li latroni e li malefattori, e che deiano fare la grascia so pena de mille marche d’ariento.
Decimoprimo, che della pecunia dello Communo se faccia aiutorio alli monisteri.
Decimosecunno, che in ciasche rione de Roma sia uno granaro e che se proveda dello grano per lo tiempo lo quale deo venire.
Decimoterzio, che se alcuno Romano fussi occiso nella vattaglia per servizio de Communo, se fussi pedone aia ciento livre de provisione, e se fussi cavalieri aia ciento fiorini.
Decimoquarto, che·lle citate e·lle terre, le quale staco nello destretto della citate de Roma, aiano lo reimento dallo puopolo de Roma.
Decimoquinto, che quanno alcuno accusa e non provassi l’accusa, sostenga quella pena la quale devessi patere lo accusato, sì in perzona sì in pecunia”

Leggendola si notano le tantissime affinità tra il romanesco del 1300 e il napoletano, cosa affatto strana se si considera il ragionamento che avevo suggerito all’inizio, eminenti studiosi ritengono che la base linguistica del napoletano possa immergersi nella contaminazione del latino con la lingua osca comunemente parlata a Capuam e Pompei e dal successivo inquinamento dovuto alle aggiunte dei vari mercanti campani che attraversavano il territorio.

Roma per la vicinanza e il continuo scambio con le regioni a sud assunse quindi col passare del tempo l’uso e la padronanza del volgare napoletano che intanto aveva iniziato a includere assonanze longobarde, arabe, normanne e parzialmente bizantine anche se odiate, la conformazione politica del territorio inoltre ne favoriva lo sviluppo.

Le aree a nord del Soglio Pontificio invece assonarono il volgare latino con influenze germaniche degenerando la lingua negli attuali dialetti che oggi si parlano al nord.

E fu proprio da queste degenerazioni che nacque l’attuale romanesco ma questo avvenne in modo prevalente solo in seguito al sacco di Roma da parte dei lanzichenecchi nel 1527 che diedero al romano-napoletano il definitivo taglio che le fece allontanare i due idiomi, in precedenza l’avvento dei papi medicei portò nella Città eterna le prime contaminazioni linguistiche dell’area toscana.

Tornando alle truppe carliniste dei lanzichenecchi, operarono un tal buon lavoro all’interno dell’Urbe che la popolazione calò sino a contare poche migliaia di individui, le successive integrazioni residenziali portò all’interno della città genti provenienti sia dalla Toscana che dai monti unbro-marchigiani con la loro parlata già distinguibile dalla napoletana, la lingua volgare romana quindi si esiliò completamente dalla napoletana dando vita a quella che oggi chiamiamo romanesco.

Grazie a queste modificazioni successive Roma allontanò il suo parlato da Napoli che intanto diffuse e migliorò la lingua che diede alla letteratura validi e importanti contributi mentre l’uso popolare ne favorì la musicalità fonetica a tal punto che l’arte del cantare napoletano ha poi generato quella che oggi chiamiamo musica italiana (mi spiace per i padani, ma i loro lamenti musicali possono solo da fungere da anestetico).

Anonimo Romano, Cronica, ed. G. Porta, Milano, Adelphi, 1979

Claudio Giovanardi, Lingua e dialetto di Roma all’inizio del terzo millennio, in:”Parolechiave” Nuova serie di “Problemi del Socialismo”, n. 36, Roma dicembre 2006, pp. 143 – 162

G. Billanovich, Come nacque un capolavoro: la ‘Cronica’ del non più Anonimo Romano. Il vescovo Ildebrandino Conti, Francesco Petrarca e Bartolomeo di Iacovo di Valmontone, in: “Rendiconti dell’Accademia Nazionale dei Lincei – Classe di scienze morali, storiche e filologiche”, s. IX, 6 (1995), pp. 195 – 211

Fonte srs di Vincenzo Tortorella  da Principatus del 21 giugno 2014

lunedì 18 novembre 2019

LA STRUTTURA ANTIGHIACCIO DELL'ARENA DI VERONA





Le gradinate dell’Arena, prima di essere delle gradinate, sono un tetto che protegge gli arcovoli sottostanti.
Quando gli antichi romani arrivarono nella Gallia Cisalpina, trovarono un situazione climatica molto diversa da quella di Roma: con clima più piovoso, inverni molto più freddi, nebbiosi e spesso con temperature sottozero. 
Nella costruzione dell’ Arena avevano intuito che lasciare le gradinate e gli arcovoli sottostanti in balia di tale clima ne avrebbe destabilizzato, nel corso dei secoli, le strutture. 





Arrivarono a risolvere tale problema con un efficace intuito ingegneristico-architettonico: esportarono a martellina circa un  centimetro di pietra dalla superficie superiore dei gradini, lasciando un leggero rialzo solo sui bordi laterali di contatto, e appoggiandoli poi con un' impercettibile inclinazione verso l’interno. 






Questo ha permesso per secoli l’impossibilità dell’acqua di entrare nelle strutture sottostanti. Tale tecnica non è mai stata più usata nei vari restauri successivi.

sabato 16 novembre 2019

VENEZIA…DONAZIONI PER STATO DI CALAMITÀ




Onestamente non avrei voluto scrivere questo post ma i commenti, la cattiveria e l’ignoranza che ho letto nei vari post in questi giorni mi ha fatto pensare.
Ma andiamo per punti:

- DONAZIONI PER STATO DI CALAMITÀ: questo è il più ricorrente dei vostri lungimiranti pensieri.

A vostro parere, nessuno dovrebbe donare nemmeno un euro alla causa perché è cito: “un caffè costa 20 euro in piazza San Marco, se lo paghino da soli lo stato di calamità”; “dopo tutti i soldi che si sono mangiati, ancora chiedono soldi? Ricchi e ladri siete”; “ma i veneti non erano quelli che volevano l’autonomia? Se sono così bravi se la paghino da soli”.
Ora questi sono solo 3 degli illustrissimi pensieri che avete sfornato e aprono altre questioni in merito ma ancora una volta andremo in ordine.

Lo stato di calamità e le donazioni in merito avvengono quando: “... al verificarsi o nell’imminenza di calamità naturali o eventi connessi all'attività dell'uomo in Italia.” 
E ancora: “La delibera dello stato di emergenza stanzia l’importo per realizzare i primi interventi. 
Ulteriori risorse possono essere assegnate, con successiva delibera, a seguito della ricognizione dei fabbisogni realizzata dai Commissari delegati.” 
Per tutto il resto vi rimando al sito della protezione civile Italiana e ai vari emendamenti per tali situazioni nei vari siti ministeriali. 
Ora quello che si nota e che lo stato di calamità viene proclamato per la causa viene concesso indipendentemente dal popolo che lo subisce.

Per rispondere quindi ad una delle tante affermazioni, se avete così tanti problemi con il popolo veneto e la gente di Venezia, fateveli passare, perché non ricordo ci fossero problemi a chiamare lo stato di calamità e aiutare gente che soffre per terremoti e disastri climatici in altre regioni di Italia, IMO.

Per quanto riguarda la questione “20euro un caffè a San Marco = siamo tutti ricchissimi, quindi cazzi vostri”, vorrei ricordare una piccola questione: “il patrimonio sociale è l’Insieme di tutti i beni di cui è titolare una società, comprensivo di denaro, beni mobili e immobili, obbligazioni, crediti, ... E' a tutti gli effetti l'ammontare di attività e passività presenti in un dato momento nella disponibilità della società.
Si distingue dal capitale sociale, che è solo il valore in denaro dei conferimenti dei soci, così come stabilito nell'atto costitutivo della società.” Per tutto il resto vi rimando al libro V del codice civile.

Premesso che, nemmeno io vado a spendere 20 euro per un caffè e che a Venezia è pieno di altri Bar e bacari dove il caffè lo paghi 1.20€, nessuno mi sembra vi abbia forzato ad andare lì a prendere il caffè e con tutta probabilità il 90% dei leoni da tastiera che affermano questo non ci sono nemmeno mai stati a prendere il caffè a San Marco. Chiusa per questa parentesi polemica, mi scuso ma sono umano anche io e ho i miei difetti, quanto citato sopra significa che i soldi provenienti da donazioni private e dallo stato non vengono utilizzati per coprire solo i danni materiali dei vari alberghi della città, bensì vengono utilizzati per ripristinare la situazione urbana e aiutare le persone comuni che non avranno i soldi per coprire i costi dei danni, di restauro e lavori di manutenzione della propria casa.

Infine il capitolo politico. Voglio essere il più apartitico possibile in tutto questo. Sono molti gli articoli usciti negli ultimi giorni di chi fossero le responsabilità riguardanti il Mose e i fondi per i lavori utilizzati in tutt’ altro modo. Sono il primo a dire che queste persone devono pagare e che venga finito il lavoro per salvaguardare la città ma questo differisce dal non avere la responsabilità e la sensibilità di voler donare fondi di aiuto a persone che stanno soffrendo e che non hanno nulla a che fare con quel magna magna politico. 

Mentre riguardo la questione autonomia politica de Veneto, potete rimanere tranquilli che tutti i vostri malumori e non volontà di aiutare Venezia e il popolo veneziano faranno solo accrescere la volontà di essere autonomi e distaccarsi da gente che non vuole essere un popolo unito. Qui voglio chiudere quest’ultimo punto perché è facilissimo venire fraintesi o voler essere fraintesi, perciò non mi dilungo.

Concludo dicendo ai leoni da tastiera che continuano a scrivere certe cazzate, che l’ignoranza purtroppo è una brutta bestia ma se non ci fate voi qualcosa noi non possiamo farci nulla. Voi rimanete pure così.

Nota: Venezia sorge nel 25 Marzo 421. Sorge su palafitte nella laguna per opera di gente impaurita in cerca di riparo dalla furia di barbari predatori.
Ad oggi rimane ancora sopra tutto e tutti nella sua inarrivabile bellezza.
Ti rialzerai e vivrai ancora di luce propria Venezia, stanne certa.





ALTA MAREA RECORD, VENEZIA IN GINOCCHIO, DURA LETTERA DELLA CONTESSA CHIARA MODICA DONÀ DALLE ROSE


Contessa Chiara Modica Donà Dalle Rose



Riceviamo e pubblichiamo questa durissima lettera a firma della Contessa Chiara Modica Donà Dalle Rose, esponente di spicco della classe intellettuale femminile italiana e nello specifico veneta. Presidente della Biennale di Arte Sacra, componente del Cda dell’Università di Architettura di Venezia.

“Venezia, non è una città, non è un villaggio, non è una metropoli né ha mai aspirato ad esserlo. Venezia è una realtà unica al mondo, sospesa nel tempo tra il sogno, l’incantesimo e la storia, è la realizzazione concreta e tangibile di una sola e grande opera d’arte composta, non dimenticatelo mai voi che guadate le immagini sul media, anche dai noi veneziani, uomini e donne, giovani e vecchi, del passato e del presente che la vivono giorno per giorno e la conservano e custodiscono nei fatti e nella memoria. I veneziani sono coloro che vi sono nati, coloro che hanno scelto di viverci, coloro che hanno dovuto abbandonarla, coloro che dopo averci studiato hanno deciso di adottarla, e di tutti coloro che prima di vantarsene hanno deciso di viverla in un incredibile intreccio di spettacolari luci e complesse difficoltà.  Siamo in tanti, molti di più di quanti vorrebbero farvi credere per giustificare una funzionale diminuzione dei servizi prioritari.

A Venezia si nasce ancora, si miei cari, tra le onde della marea di ieri sera, i primi vagiti di tanti cuccioli d’uomo si facevano sentire nel non lontano ospedale di San Giovanni e Paolo. Mentre tutti in famiglia facevamo fronte alla grande tempesta di vento, acqua e mare che violentemente si era scagliata su Venezia e la nostra dimora, tra le prime come un guerriero di punta nella laguna Nord a tagliare il vento che viene dal nord, ho avuto l’impressione che la casa si fosse trasformata in una nave che solcava i mari del nord. Intorno a noi devastazione, distruzione, vaporetti, barche e gondole affondate e strozzate alle paline, altre totalmente fuori controllo sopra le fondamenta a pochi centimetri dai ponti e dai palazzi. I canali morbidi e silenziosi di Venezia trasformati in fiumi in piena. Gli esercenti, le scuole, ogni attività al piano terra devastata ed in ginocchio. Gli squeri divelti dalla laguna trasformatasi in mare aperto.

Non è stato facile il risveglio questa mattina, stremati dalla paura e dalla stanchezza, ma soprattutto afflitti dalla rabbia perché ancora oggi dopo anni di parole e investimenti incredibili fatti, il rispetto della laguna che deve necessariamente passare dalla conoscenza dei suoi flussi e dei suoi equilibri non è stato ancora affrontato con la dovuta serietà e concretezza. Ma come è possibile che in Olanda sin dal 1200 l’uomo riuscì ad arginare il fiume Amstel e l’oceano con la realizzazione di un sistema strutturato di argini e canali, recuperando circa un quinto dell’area della terraferma nel paese (circa 6.500 km²). Buona parte del territorio, come l’intera provincia di Flevoland è costituita da polders , tra cui molti del XII secolo, ovvero da terreni prosciugati e strappati al mare, a paludi costiere e lagune e che adesso sono bonificati e protetti dalle dighe. Senza il drenaggio continuo e la protezione di queste dune costiere, circa metà dell’Olanda sarebbe coperta dal mare o dai diversi fiumi che l’attraversano: l’oceano! Nel 1932 con la costruzione della Afsluitdijk, ossia la diga di sbarramento, fra la Frisia e l’Olanda Settentrionale il mare è stato nuovamente separato e trasformato nel lago Ijsselmeer. Quest’ultimo, in parte prosciugato ha dato poi origine alla provincia di Flevoland. Fra il 1958 e il 1986 si attuò il noto piano Delta, una mastodontica operazione per chiudere i bracci di mare e limitare al massimo i rischi di inondazione. E nel 1997 è stata conclusa la diga di Stormvloedkering.

Due emergenze assolute per Venezia se volete che resti patrimonio italiano, altrimenti è meglio che ritorni ad essere Repubblica Marinara della Serenissima indipendente al più presto da questo stivale che la tratta come un sassolino, appunto, nella scarpa:

– Emergenza moto ondoso per tutti veneziani e turisti;

– Blocco navi veloci nel bacino di San Marco;

– Studio concreto delle conseguenze del Mose e di tutti i lavori fatti e conseguenze sul delicato       equilibrio preesistente della laguna;

– Predisposizione di rimedi subito e non per forza milionari;

– E soprattutto ascoltare i veneziani e coloro che la vivono.

Per i turisti delle navi veloci, nel medio tempore dell’ottenimento dell’auspicata interdizione al passaggio, propongo due tasse da versare sui conti del comune per un fondo  dedicato e destinato solo alla salvaguardia della laguna per finanziare una soluzione reale:

1.      SEE TAX La tassa  di 100,00 euro a persona per poter ammirare piazza san Marco comodamente dalla nave  (è uno spettacolo unico e se continua così direi senza molte possibilità di repliche!!);

2.      FEET TAX La tassa di 100,00 euro a persona per poter comodamente scendere e mettere piede in Venezia dallo scalo marittimo (del resto chi viene in macchina deve parcheggiare, poi prendere il vaporetto e alla fine la cifra più o meno è la stessa!).

Come guardiano del faro, con la mia famiglia, di uno dei palazzi storici di Venezia, chiedo al governo di considerare che è assolutamente urgente ripristinare UNA TUTELA Ad HOC di questi beni, un regime AD HOC superando  visioni demagogiche e biecamente populiste,  abbandonando lo sterile rapporto pubblico e privato che denota che  questi beni sono privati solo quando si parla di gettito fiscale o di richiesta di autorizzazioni ma quando si parla di tutela del patrimonio il do ut des è solo il peso economico della salvaguardia è puramente a senso unico, lasciandoci assolutamente soli al nostro destino, con la consapevolezza che noi non abbiamo i mezzi. 
I grandi del passato, politici e giuristi veri, che dal 1939 avevano scritto e salvaguardato negli anni la legge Bottai erano dei grandi studiosi con una visione chiara e lungimirante del futuro e della verosimile possibilità del privato di ricostruire le case dopo la guerra, dopo un terremoto, dopo un’alluvione ma soprattutto di coloro che ogni giorni dovevano fare i conti con l’onere economico del restauro. Un onere non molto lontano da quello che ogni madre insegna ai figli per prevenire le carie nello spazzolarsi i denti tre volte al giorno, per usare una metafora!

Nel 2012 , con il Decreto Monti, come in un neo-medioevo del pensiero umano, si è spazzata via con un’accetta di omertà ogni obiettiva considerazione e riconoscimento dell’impossibilità per i privati di continuare ad abitare le loro case ed restaurarle, compressi nella morsa di una tassazione sempre più forsennata in cambio del nulla.

Chiedo pertanto che venga abrogato il decreto Monti e ripristinata la legge Bottai senza mezzi termini  e che ripartano i contributi speciali per il finanziamento a fondo perduto per il restauro di questa città altrimenti al posto dei palazzi, giorno dopo giorno, costruiranno il set di una colossale fiction con pannelli di cartongesso raffiguranti le facciate di un passato glorioso. … ed il prossimo the new Pope di Sorrentino sarà “the fiction Pope”!

Siamo lasciati soli, con solo ed esclusivamente oneri e pesi, in una città in cui la parola restauro ha il peso e la stessa frequenza di un appuntamento quotidiano. Tutti vedono la parte che luccica ma pochi si rendono conto della fatica e della dedizione che c’è dietro ad ogni veneziano per la salvaguardia della sua casa, piccola o grande che sia, del 400 o dell’800 poco importa, al piano nobile, al piano terra come in piccionaia.

Quando ero giovane con gli amici andavamo in piazza San Marco a provare l’ebrezza di vogare nel salotto più bello del mondo, i cm erano 60/80 al massimo, ieri si è toccata una punta storica troppo alta e salata come le onde del mare che sembravano esserci impadronite di una città di vetro che chiede solo rispetto e consapevolezza da parte di tutti della sua unicità. Povera la nostra Basilicata di San Marco e tutte le bellissime chiese che sono state sommerse e ferite nel profondo. La mia risposta indire un premio per chi nasce a Venezia, e un premio a quei genitori che ancora credono nel glorioso passato della Serenissima”.

Contessa – Chiara Modica Donà Dalle Rose

Fonte: srs di Chiara Modica Donà Dalle Rose, da SICILIA  2.0 NEW del 13 novembre 2019




POST DI  MILO BOZ VENETO





Il silenzio quasi monolitico, un silenzio totale che ci fa capire quanto in fondo è finita la memoria e conoscenza di questa storica realtà che per 1100 anni è stata creata e amministrata dalla meravigliosa Repubblica Veneziana che, se indagata e raccontata, potrebbe oggi fare arrossire qualsiasi forma di governo presente nel mondo per perfezione, distribuzione dei ruoli, meritocrazia, senso del dovere, del bene comune e onore si proprio di onore alla vita, alla bellezza, onore al rispetto del bene e del tempo altrui.

L’insegnamento politico della Repubblica Serenissima di Venezia è testimoniato dalle strutture amministrative di quello Stato e dalla consistenza delle Opere che ha tramandato e che oggi, in poco meno di un secolo, dopo il primo scossone dato dalla furia di Napoleone, sta per essere distrutto e vanificato sotto gli occhi di tutti per bieca ignoranza e tracotante presunzione.

Quando studiavo la storia al liceo e poi all’università, non avevo dubbi che l’evoluzione avrebbe potuto proporre, nel tempo, forme organizzative più efficienti e moderne. Pensavo potessimo solo migliorare, sfatato il pericolo di ben due guerre mondiali.

Ma oggi mi rendo conto che mi sbagliavo, la struttura amministrativa Veneta era ed è, ancora oggi , un modello da imitare. 
Le linee guida storiche che portarono al formarsi della Pubblica Amministrazione Veneziana, prima di quelle morali dovrebbero essere oggi insegnate a tutti coloro che credono di poter amministrare la res pubblica, poco importa che siano di sinistra, di centro o di destra, mancini o ambidestri, bianchi, giallo, neri o rossi.

Fonte srs di Millo dei Bozzolàn




venerdì 15 novembre 2019

IL SENSO DELLA SCUOLA




Questa mattina, appena sveglio, ho trovato una busta chiusa sul mio comodino e ne sono rimasto stupito. La grafia era quella di mio padre che riconosco a distanza…poi c’era anche la sua firma.

- Per Francesco, firmato Raffaele Latella.- Così era scritto sulla busta.
Stropicciai gli occhi e ne iniziai la lettura.

Caro Francesco,
ieri abbiamo fatto una bella ed istruttiva passeggiata e credimi ne sono stato felicissimo.
Ne ho raccontato alcuni particolari a tua madre mentre tu eri già a letto e poi, non avendo sonno, mi è venuto in mente di scriverti questa mia lettera che ci renderà ancor più amici di quanto già noi siamo.

Volevo parlarti del significato e del senso della scuola che io pure ho frequentato fino all’università.

Per noi dello Stato delle Due Sicilie, devi sapere, che la scuola ha un senso profondo ed etico che capirai meglio durante i tuoi studi. Noi non studiamo obbligatoriamente per progredire e sopravanzare così gli altri popoli, ma progrediamo naturalmente approfondendo le nostre conoscenze come banale risultato del nostro studio. E’ questa una delle ragioni del nostro comportamento fatalista, che non vuol dire rassegnato ma bensì riportato alla volontà di Dio. 
Molti, nei paesi del Nord, vedono gli studenti come militari in carriera, obbligati allo studio per la crescita del sapere ma non del senso della sapienza; cosa, questa, per noi primaria prima ancora del sapere medesimo. Ecco, per esempio, come abbiamo costruito nella nostra Città, nel 1737, primo al mondo, il più bel teatro per la musica, il San Carlo che poi funse da modello per tutti gli altri teatri di cui leggi sui giornali.

Non studiare dunque per primeggiare, ma per apprendere. 
Aiuta i tuoi compagni in difficoltà e non dirlo mai a nessuno. 
Chiedi umilmente, se ti è necessario, l’aiuto ad altri e non dimenticarti mai di menzionare chi ti ha dato aiuto.
Vedi la tua scuola come una chiesa e rispettala. 
Ama il tuo maestro e ascoltalo sempre poiché è lui che ti sta forgiando nel tuo futuro di uomo.
La sapienza sia per te non quanto saprai ma come tu lo saprai e sorridi sempre nelle difficoltà della vita.

Un bacio, tuo Padre

Fonte: srs di Domenico Iannantuoni, da Facebool, Quelli di Casalnuovo Monterotaro…oltre ogni pregiudizio


martedì 12 novembre 2019

VINCENZO DI BARTOLO E LA ROTTA DEL PEPE




Vincenzo di Bartolo

Mia madre mi accompagnò a scuola, anche se ormai spesse volte questa la raggiungevo da solo, perché quella mattina aveva degli impegni presso la sartoria che stava lì vicino e forse mi avrebbe aspettato fino all’orario di uscita.
Mentre camminavamo non parlai mai perché i miei pensieri andavano continuamente alla bella lettera di mio padre.
Giunto a scuola baciai mia madre e distrattamente entrai.
Ma quel giorno sarebbe stato per me e per tutti i miei compagni un giorno veramente speciale.
Il mio maestro sbrigò in fretta le rituali formalità, attese un paio di minuti per veder entrare Antonio Loffredo (sempre in ritardo canonico) poi, si avvicinò alla porta e si rassicurò che fosse veramente chiusa. Con fare coinvolgente della sua mimica si avvicinò a noi camminando in punta di piedi e pose il dito indice sulle sue labbra in posizione verticale emettendo un sibilante – Sssssssssh- segno di richiesta di silenzio totale.
Poi a bassa voce ci disse: - Oggi ragazzi, è una giornata speciale…la giornata del racconto mensile! – Rimanemmo tutti di stucco e silenti.- Il maestro proseguì. – Oggi vi parlerò, anzi vi leggerò di un grande uomo delle Due Sicilie che risponde al nome di Vincenzo di Bartolo…ma mi raccomando, massimo silenzio per avere la vostra massima attenzione. Poi aprì un libro di una certa dimensione e iniziò a leggere.

Vincenzo Di Bartolo nacque ad Ustica (PA) nel 1802 e vi morì nel 1849. Egli fu un grande navigatore ancora oggi orgoglio della nostra marina duo-siciliana.
Il padre Ignazio e sua madre Caterina Pirera, fecero non pochi sacrifici per fargli frequentare il pregiatissimo Istituto Nautico di Palermo. Poi Vincenzo, finita la scuola nautica, iniziò a navigare con impegni sempre nuovi e con armatori diversi. Egli però era anche un vero navigatore internazionale ed osservava come le grandi potenze del Nord Europa avessero formato un monopolio su alcuni prodotti delle terre lontane e principalmente quelle asiatiche. Gran Bretagna, Olanda, Francia, Danimarca e Svezia, avevano fondato tutte una propria Compagnia delle Indie orientali e stabilito così una specie di “cartello” monopolistico per la vendita di tutte le spezie. Tra queste vi era una spezia molto importante per noi: il pepe nero!
Esso era venduto a cifre elevatissime dalle Compagnie delle Indie delle nazioni sopra richiamate costringendo gli stati a loro vassalli ad un vero e proprio salasso economico.
Il pepe non veniva usato solo per le sue caratteristiche culinarie, ma soprattutto perché la sua funzione negli alimenti era quella di coadiuvarne la loro conservazione.

Aprire una via del “pepe” che fosse solo dello Stato delle Due Sicilie, rimase il suo cruccio fondamentale per diversi anni finchè trovò maniera di far conoscere questa sua idea all’Ammiraglio della marina mercantile delle Due Sicilie.
L’ipotesi giunse quindi sul tavolo del re Ferdinando II, il quale ne rimase favorevolmente colpito, e direi addirittura entusiasta. Quindi approvò il progetto ma con pochi denari. Mise a disposizione del capitano Vincenzo di Bartolo uno stipendio fisso ma non gli garantì quello per la ciurma. Quindi gli concesse in uso il brigantino “Elisa” da 248 tonnellate di stazza. Ma al resto dei soldi doveva pensarci Vincenzo di Bartolo il quale, anziché annichilirsi, rimase felicissimo dell’intenzione di Ferdinando II.

Procurarsi i soldi per lui era semplicissimo avendo a disposizione una nave.
Contattò di lì a poco alcune aziende siciliane e calabresi dedite alla produzione del sapone derivato dall’olio lampante d’oliva. Questo era un pregiatissimo prodotto di cui le Due Sicilie andavano veramente fiere, e con queste aziende egli stabilì un pagamento della merce a vendita avvenuta, cioè al ritorno dal viaggio. Assunse poi una ciurma esperta di navigazione con promessa di pagamento a viaggio effettuato e a Palermo non ebbe difficoltà a trovarla. 




Caricò il suo brigantino e con le armi delle Due Sicilie spiegate al vento salpò da Palermo diretto a Boston, in America del Nord.
In America la fame di sapone era nota a tutti gli europei e le Due Sicilie erano la prima potenza industriale produttrice d’Europa.
Giunto che fu a Boston, gli advisor portuali comprarono tutto il carico del di Bartolo, ad ottimo prezzo, e questi, quasi subito, tornò a Palermo gioioso e pieno di dollari.

A Palermo, Vincenzo di Bartolo subito si recò presso la sede del Banco di Sicilia (Socia del Banco delle Due Sicilie) per farsi cambiare i dollari in ducati, saldò tutti i suoi debiti verso i produttori di sapone e della ciurma, ma gli rimase a disposizione ancora una cospicua cifra per il suo viaggio verso le Indie Orientali. Era raggiante.

Sapendo che le acque di Sumatra e dell’Indonesia in genere erano pullulanti di navi pirata, fece dipingere il brigantino con i colori di una nave da guerra ed all’uopo montò a prua una piccola colubrina che fosse ben visibile.
Caricò dunque il vascello di tutte le produzioni tipiche delle Due Sicilie, quali vasi e ceramiche, specchi, sete, lane e tessuti, scacciapensieri e strumenti musicali, ed una gran quantità di ciò che noi chiamiamo cianfrusaglie ma di impatto per una eventuale compravendita.
Poi lanciò il bando per la ciurma, ancora di dodici persone, ma questa volta la selezione fu più accorta e predilesse chi aveva già fatto qualche circumnavigazione dell’Africa.
Completato l’equipaggio e stabiliti i salari, si dedicò con il suo vicecomandante appena nominato ai rifornimenti di acqua e vino e quindi dei viveri tra cui predilesse arance, mandarini, mele “annurca” e Cotogne e altre mele dolci e frutte di stagione durevoli, molti boccacci di frutta conservata e fichi secchi. Quindi farina per una buona panificazione di bordo e pasta secca in abbondanza, salumi e formaggi dei colli Nebrodi siciliani in gran quantità. Non mancarono diversi barili di buono e forte vino nero e bianco di sicilia e quindi di “Marsala”ed acqua a iosa.
Poi sul molo, al momento di salpare, si raccolse una gran quantità di gente ed anche una banda musicale di Palermo che rallegrò il saluto ai nostri viaggiatori con l’inno al Re.






Il viaggio iniziato in un giorno di aprile fu bellissimo e gli scali per approvvigionarsi di acqua fresca furono alle Canarie, a Capo Verde, a Città del Capo, e quindi fu affrontato il tratto più lungo del viaggio con arrivo a Sumatra, dopo soli 68 giorni di navigazione; era il primo di luglio del 1839!

Era la prima volta che un veliero del Regno delle Due Sicilie si spingeva così lontano nelle Indie Orientali, rompendo così il monopolio del commercio del pepe mantenuto sino a quel momento da marine mercantili potenti e agguerrite come quelle inglese e olandese. Marine che non avevano certo a cuore un libero scambio di prodotti come lo era nella mente del nostro comandante.

Vincenzo di Bartolo ed il suo equipaggio furono accolti con gentilezza dagli indigeni i quali apprezzarono subito lo scambio di doni con gioia e festosità. Una nota particolare va al grande apprezzamento non solo dei tessuti e dei manufatti in genere quanto al gusto eccellente dei prodotti alimentari delle Due Sicilie. Gusto unico al mondo!
In breve dunque la porzione sud occidentale dell’isola di Sumatra iniziò la raccolta del “pepe nero e della “noce moscata” e di altre spezie sconosciute al di Bartolo ma un problema sopraggiunse immediatamente; il carico era leggerissimo e il brigantino non avrebbe retto il mare.

Anche in questo caso l’amicizia del capo-villaggio fu tale che in breve furono portate al porticciolo grandi quantità di prodotti di Sumatra tra i quali non mancavano oro e pietre preziose che nella loro cultura non rappresentavano grande valore commerciale.
La parte bassa della stiva fu colmata con questi preziosi doni e sopra questi trovarono alloggio le leggere spezie.
Dopo pochi giorni il comandante Vincenzo di Bartolo, salutati i responsabili degli indigeni e stabiliti con loro rapporti di commercio continuativo, volse la prua all’oceano indiano ed iniziò il viaggio di rientro.
Verso il finire del mese di ottobre dello stesso anno 1839 il porto di Palermo era già visibile all’orizzonte.
La gioia ed il tripudio di gente, al suo ingresso in porto, fu enorme. Anche il vicerè delle Due Sicilie si aggiunse alle personalità di spicco cittadine.
Tutta la notte fu poi rischiarata da bellissimi fuochi d’artificio e a Di Bartolo ed al suo equipaggio fu donata una ricchissima cena di “bentornato”.

La via del “pepe”, autonoma ed autarchica, era aperta definitivamente e lo Stato delle Due Sicilie non fu più obbligato da quel giorno, a subire i prezzi imposti dalle Compagnie Indiane Orientali inglesi, o olandesi o danesi o svedesi.
Il pepe nero, di ottima qualità, entrò quindi a prezzi minimi, oserei dire insignificanti fino ad allora, nelle produzioni alimentari casearie e dei salumi per la loro conservazione, nonché grande fu l’uso in cucina e nella farmacia delle Due Sicilie.
Ferdinando II nominò il comandante Vincenzo di Bartolo Ammiraglio della marina mercantile. Egli fece molti altri viaggi verso l’Indonesia e Sumatra non solo a carattere commerciale ma anche diplomatico.
A lui, inoltre, dobbiamo riconoscere l’apertura delle ambasciate delle Due Sicilie in quei paesi dell’estremo oriente.

Fonte: srs di Domenico Iannantuoni, da Facebool, Quelli di Casalnuovo Monterotaro…oltre ogni pregiudizio