giovedì 29 agosto 2019

UN SIGILLO PER RUBARE MEGLIO


Imposta Regno di Savoia

Non è un segreto che i Savoia abbiano portato in dote alla penisola unificata, una montagna di debiti:  li avevano prima dell’unità;
li hanno incrementati con le campagne militari organizzate per eliminare i legittimi governanti e insediarsi al loro posto; 
150 anni più tardi il debito è fuori controllo diventando un buco nero in grado di inghiottire tutta l’Europa. 
Ai tempi della Repubblica Veneta le tasse erano al 6%; oggi ci stanno soffocando con una pressione fiscale per le imprese, vicinissima al 70% ma lo negano.
Dal loro arrivo hanno solo pensato come, dove e in quale percentuale apporre nuove imposte e i successori si son dimostrati degni eredi: Imposta sul sale, sui fiammiferi, sull’energia elettrica, sul tabacco, sugli alcoolici, sugli accendini, sui carburanti, sui redditi, sul valore aggiunto, sulla casa, sui capannoni, sui rifiuti … su tutto e senza discontinuità, nemmeno nelle fasi cruciali della storia che hanno visto la trasformazione dell’Italia da Regno a Impero e da Impero a Repubblica.
Mai un momento di tregua fiscale.

Imposta Fascio

Testimone ne è il contrassegno di Stato sui liquori, un sigillo metallico non più in uso emesso dalla zecca di Stato: un mezzo, secondo gli intenti dichiarati, di monitorare la qualità dei prodotti ma in realtà un modo per garantire il monopolio dello Stato, dove Monopolio significa certezza assoluta del prelievo fiscale.
I tre contrassegni nelle immagini allegate, reperiti fortunosamente, ormai appartengono alla storia, ne sono stati testimoni e la raccontano.
Tutti e tre sono in lamierino di alluminio, di uguali dimensioni e di simili fattezze, indubbio che siano stati eseguiti dallo stesso produttore con i medesimi macchinari, la Zecca.
Il primo ha l’effige dello scudo sabaudo e sul retro la dicitura “Contrassegno di Stato – liquori – oltre 4/5 a 1 l.”;

Imposta Repubblica

Il terzo con impressa la classica testa di donna col capo cinto da una corona turrita e la dicitura “Repubblica italiana” mentre sul retro “contrassegno di Stato – liquori – oltre 4/5 a 1l.”;
Il secondo si differenzia dal primo avendo si l’effige dello scudo sabaudo ma ai lati di questo sono impressi due fasci littòri mentre sul retro porta la dicitura “Imposta spiriti – L.1”.
Ed ecco la storia che raccontano questi tre sigilli:
Il primo documenta la smodata sete di tasse dei Savoia; 
il terzo testimonia l’assoluta continuità tra Regno e Repubblica, rappresentata dal fatto che la Repubblica Italiana non si è presa la briga né di cambiare formato dei contrassegni, né di cambiare i macchinari per la loro stampa, né di eliminarli semplicemente.
Il secondo rappresenta una temporanea discontinuità ideologica: Mussolini ha fatto imprimere “Imposta Spiriti” anziché del precedente “Contrassegno di Stato”. Non è una cosa da poco perché “Imposta Spiriti” porta immediatamente a pensare che lo Stato si è preso una parte del valore di quella determinata cosa mentre con “Contrassegno di Stato” lo Stato allude quasi ad un sigillo di garanzia e invece ti frega e te lo nasconde. 
In ogni caso sempre di Stato ladro stiamo parlando ma almeno, in questo caso, Mussolini ha avuto l’onesta e il coraggio di dichiararlo mentre quelli prima e quelli venuti dopo di lui, nostri contemporanei, ci hanno sempre fatti fessi.

Fonte: srs di Daniele Quaglia, da LIFE del 27 agosto 2019



mercoledì 28 agosto 2019

PICCOLA ERA GLACIALE E CACCIA ALLE STREGHE




Europa Centrale, mezzogiorno del 3 agosto 1562. Il cielo improvvisamente comincia a farsi scuro, sembra che la notte sia scesa con ore di anticipo. Poco dopo comincia a soffiare un vento sempre più forte che presto si trasforma in tempesta. Le finestre delle case vanno in frantumi, i tetti vengono spazzati via come se fossero di paglia, gli alberi cadono come piegati da una forza sovrannaturale. Ma il peggio deve ancora venire. L’’acqua torrenziale si trasforma in una grandinata di intensità mai vista.
Frutteti e vigneti sono distrutti quasi all’istante, così come il grano nei campi. La gente ha cercato riparo nelle chiese o dentro le mura domestiche ma gli animali sono rimasti privi di protezione. A mezzanotte, quando finirà l’inferno, si conteranno migliaia di capi di bestiame e cavalli uccisi dalla tempesta. Un nobile spostandosi da Vienna a Bruxelles ricorderà di avere visto devastazione ovunque durante il suo viaggio, lasciando intendere che questa perturbazione di proporzioni bibliche ha avuto un fronte di diverse centinaia di chilometri. 
Perturbazione che ancora oggi non sappiamo come si sia formata, ma della quale i contemporanei credevano di sapere con certezza l’origine: la stregoneria.


Durante la piccola era glaciale in Europa gelo, neve e inondazioni provocarono carestie con centinaia di migliaia di morti. All’inizio per i contadini, i più colpiti da questo feroce cambiamento climatico, i responsabili potevano essere solo tre.
Dio che puniva il mondo per i suoi peccati, il diavolo che si divertiva a tormentare l’uomo o le streghe. Idee nate in un ambiente culturale profondamente degradato e alle quali la chiesa, almeno in un primo periodo, tentò di mettere un freno.

Purtroppo però gli eventi atmosferici anomali continuarono a flagellare il continente europeo e alla fine la stregoneria divenne capro espiatorio di qualsiasi cosa accadesse. Anche quando i processi assumevano i toni della farsa, come nel caso dell’interrogatorio del tirolese Christoph Gostner che nel 1595, evidentemente insano di mente, pretendeva di avere poteri magici con i quali, per proteggere la comunità, poteva trasformare le grandinate in una debole pioggia. Quando l’inquisitore gli chiese perché non avesse evitato una burrasca verificatasi una settimana prima rispose che quel giorno aveva bevuto, e da ubriaco non se ne era preoccupato.

Per quanto illogiche certe affermazioni erano perfettamente credibili agli occhi della popolazione. Al contrario va però segnalato che l’inquisizione spesso si rendeva conto di non trovarsi dinnanzi a un pericoloso eretico ma più semplicemente a un folle, e cercava di porre rimedio. Presto però anche i tribunali ecclesiastici cominciarono a credere che certi fenomeni atmosferici fossero di origine magica. 
In particolare la grandine fu vista un po’ come la specialità di streghe e stregoni, e come tale considerata un vero e proprio crimine. Un cambiamento di prospettiva che portò a circa 40 mila condanne a morte dal 1450 al 1750. 

La chiesa a dire il vero si era sempre dimostrata ostile a condannare per semplice superstizione. Fino al XIV° secolo il suo nemico principale era l’eretico, colui che metteva in dubbio il primato dell’ortodossia. Ma dal 1380 in poi vi fu un cambio di prospettiva, e nel 1430 si registra la prima grande caccia alle streghe accusate di aver rovinato i raccolti nella Savoia francese. Nel 1480 poi, sotto il pontificato di papa Innocenzo VIII, la figura della maga in grado di mutare il tempo diventerà totalmente reale agli occhi degli inquisitori.

Per comprendere questo cambiamento occorre però cercare di capire cosa significassero a quei tempi una gelata fuori stagione, una grandinata o più semplicemente un periodo di siccità. Per i contadini dell’epoca un raccolto distrutto non rappresentava semplicemente una perdita economica ma la morte certa per fame. Naturale quindi che in un ambiente culturale dove si credeva realmente che con qualche formula o con la forza del pensiero si potesse mutare il tempo, la ricerca di un capro espiatorio fosse la conseguenza più logica della collera popolare. Ne è un triste esempio il fenomeno delle levatrici.

In un contesto storico nel il quale la mortalità infantile era già altissima durante il periodo caldo medioevale, con l’arrivo di temperature più rigide e conseguente malnutrizione il fenomeno dei bambini che non supera il primo anno di età assunse le dimensioni di un’ecatombe. Ed è così che cercando di sfogare il proprio dolore in qualche modo genitori e parenti se la prendevano con chi li aveva fatti nascere, e le levatrici cominciarono a finire sul rogo a migliaia accusate di aver fatto il malocchio al momento del parto. Sono reazioni psicologiche che per la loro irrazionalità faranno sicuramente sorridere il lettore, ma che erano perfettamente verosimili per chi viveva in quei secoli bui, sia che ci si trovasse di fronte a un bambino morto o a un raccolto perso.




Basti pensare alla terribile caccia alle streghe svoltasi per tra il 1626 e il 1631 nel bacino del Reno, in particolare a Trier, Colonia e Mainz. La psicosi di massa era cominciata il 24 maggio del 1626 quando, secondo l’astronomo contemporaneo Friedrich Ruttel, una grandinata di proporzioni eccezionali si abbatté sulla città di Stoccarda. La grandine raggiunse i 2 metri di altezza e fu immediatamente seguita da un rapidissimo calo delle temperature. La mattina seguente la gente rimase terrorizzata dalla presenza di ghiaccio negli specchi d’acqua della zona.

Tutto ciò provocò naturalmente la perdita di tutto il raccolto seguita da un vertiginoso aumenti di prezzo e dalla conseguente carestia. Un fenomeno che avrebbe impressionato anche noi che viviamo nel XXI° secolo. Naturale che l’unico effetto possibile su una popolazione indottrinata a credere in episodi come la distruzione di Sodoma e Gomorra fosse il panico. E infatti in tutta la regione processi e roghi si diffusero a macchia d’olio. Dopotutto le spiegazioni era due: qualcuno aveva lanciato il malocchio o Dio stesso aveva voluto punire l’intera regione per i suoi peccati. Tanto valeva fare piazza pulita di ogni possibile sospetto.

Un’altra testimonianza di questa follia popolare ce la porta Hans Linden che nel suo “Gesta traverorum” del 1675 racconta il caso della diocesi dell’arcivescovo Johannes VII Von Schonenberg. Dal 1581 al 1599 vi furono solo due anni fertili. Gli altri 16 furono caratterizzati da lunghi periodi di carestia. Mancava infatti il grano a causa del gran gelo. Per questo motivo la popolazione, convinta di essere vittima di un incantesimo, procedette alla – testualmente nel documento originale – “eradicazione” delle sospette fattucchiere. 

Concludendo si può quindi affermare che la caccia alle streghe è un fenomeno, a livello temporale, perfettamente sovrapponibile a quelle della piccola era glaciale in tutti i paesi europei.
Se analizziamo i processi svoltisi nella regione alpina notiamo che si concentrano maggiormente dal 1560 al 1630. Nel solo cantone di Vaud, in Svizzera, tra il 1580 e il 1620 furono messe a morte 971 streghe. 
Ed è molto interessante notare che negli stessi anni proprio quelle zone videro due fasi di grande recrudescenza della piccola era glaciale tra il 1550 e il 1560 e tra il 1580 e il 1600.

Il fenomeno della caccia alle streghe andò poi declinando nel XVIII° secolo. Gli ultimi processi si svolsero in Baviera tra il 1715 e il 1722, in Svizzera nel biennio 1737-1738 e in Germania nel 1746-1749, con l’ultima condanna a morte nel 1782. Non a caso già qualche tempo più tardi, all’inizio del XIX° secolo, terminava la fase più rigida della piccola era glaciale.

Fonte: srs di ALESSANDRO ASPESI, da Meteolive del 19 agosto 2019






martedì 27 agosto 2019

ERANO CALABRESI I LEGIONARI CHE TORTURARONO E CROCIFISSERO GESÙ

La passione di Cristo


Pilato e i suoi soldati sarebbero stati di origine Bruzia. Tra storia e leggenda questa antica tesi era utilizzata per “spiegare” come un castigo divino le numerose catastrofi naturali che periodicamente flagellano la regione


Domenico Luigi Costa, nelle sue “Memorie Storiche Calabresi”, edite nel 1994, di fronte ai continui disastri ed alle immani sciagure di ogni genere cui è stata soggetta la Calabria, si chiedeva quale maledizione potesse gravare su questa terra, peraltro così ricca di bellezze naturali ed artistiche.

Alla luce di quanto i calabresi in ogni tempo siano stati martoriati, soggiogati da invasioni, terremoti, incursioni barbaresche, epidemie, alluvioni, brigantaggio, ndrangheta e malaffare, l’uomo di cultura si domandava se non avesse un fondo di verità la leggenda secondo cui sulla Calabria pesi la maledizione divina per essere stati nostri antenati i soldati romani che materialmente attuarono la passione e morte di Nostro Signore Gesù Cristo.

Nel capitolo dedicato ai Crocifissori di Cristo, Costa si rifà allo storico ed umanista di Francica, Gabriele Barrio, vissuto nel XVI secolo, il quale, nella sua monumentale “De antiquitate et situ Calabriae”, edita nel 1571, smentisce nel modo più categorico quanti in passato hanno largamente riportato tale ipotesi, definendola “ripugnante diceria che i Brettii avessero crocifisso Cristo Nostro Signore”.

Luigi Domenico Costa, analizzando la vicenda dal lato storico, ci dice che ai tempi di Gesù i soldati agli ordini del pretore romano Ponzio Pilato, e Pilato stesso, fossero di origine Bruzia
E, precisamente, ai tempi in cui fu commesso il “più grande delitto della storia”, erano stanziati in Palestina i soldati della “Coorte Italica” proveniente da Reggio, comandata da quel centurione Cornelio, che fu il primo pagano ad essere convertito da San Pietro. Così come, anche “La Legio X Fretensis” (dello Stretto) alla quale apparteneva quel tale Cassio Longino che ferì il costato di Gesù e dal quale fuoriuscì acqua e sangue, era composta da soldati nostri antenati, Bretti o Bruzi.

Molto più recentemente, circa un decennio fa, il quotidiano nazionale La Stampa, tra i più diffusi del Paese, nella sua pagina culturale, così titolava un suo articolo: “È stato un calabrese a trafiggere Gesù”, e proseguiva: “Nella Palestina dell'epoca era di stanza la decima legione Fretensis. L'aveva voluta Ottaviano, i suoi soldati provenivano dalla zona dello Stretto”.
Se così è, allora tutto ci è chiaro!


Fonte:  srs di Rocco Greco, da NEWS 24.it del 19 aprile 2019 
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lunedì 26 agosto 2019

ARTIGIANI, MORIA DI IMPRESE: SCOMPARSE 6.500 AZIENDE IN SEI MESI




La recessione? Per gli artigiani è già realtà.
Nel primo semestre del 2019 il comparto artigiano ha vissuto una netta contrazione, tanto che secondo l’analisi effettuata dalla Cgia di Mestre sono scomparse 6.500le aziende solo nei primi sei mesi dell’anno. E la tendenza permane pesantemente negativa. 
A pesare sugli artigiani, per la Cgia, sono soprattutto lo spettro dei maxi aumenti dell’Iva, il calo dei consumi, le tasse che non scendono, l’impennata degli affitti, l’accesso al credito che rimane difficoltoso.

Trentino Alto Adige, unica isola felice
Ad eccezione del Trentino Alto Adige, in tutte le altre regioni italiane il saldo del primo semestre è stato negativo. 
I risultati più preoccupanti si sono registrati in Emilia Romagna(-761), in Sicilia (-700) e in Veneto(-629). 
Per la Cgia è la «moria» delle aziende artigiane dura ormai da 10 anni. 
Tra il 2009 e il 2018, infatti, il numero complessivo è sceso di quasi 165.600 unità

L’Iva fa paura
«Lo spettro dell’aumento dell’Iva, rileva la Cgia, è una ulteriore “stangata” al mondo dell’artigianato e potrebbe arrivare il prossimo primo gennaio. Se non si disinnescherà l’aumento dell’Iva - rilevano gli artigiani di Mestre -, l’innalzamento di 3 punti percentuali sia dell’aliquota ordinaria che di quella ridotta rischia di provocare degli effetti molto negativi sul fatturato di queste attività che vivono quasi esclusivamente dei consumi delle famiglie».
E oltre agli effetti economici e occupazionali, la riduzione del numero delle attività artigiane e in generale dei negozi di vicinato ha provocato delle ricadute sociali altrettanto significative - aggiunge -. Con meno botteghe, si assiste a una desertificazione dei centri storici e anche delle periferie urbane sia delle grandi città che dei piccoli paesi».

La situazione drammatica del Sud
A livello territoriale è il Mezzogiorno la macro area dove la caduta è stata maggiore. 
Tra il 2009 e il 2018 in Sardegnala diminuzione del numero di imprese artigiane attive è stata del 18 per cento (-7.664). 
Seguono l’Abruzzocon una contrazione del 17,2 per cento (-6.220). 
L’Umbria, che comunque è riconducibile alla ripartizione geografica del Centro, con -15,3 per cento (-3.733). 
La Basilicatacon il 15,1 per cento (-1.808).
 E la Sicilia, sempre con il -15,1 per cento, che ha perso 12.747attività.

La carenza di personale qualificato
«Per rilanciare questo settore è necessario, oltre ad abbassare le imposte e alleggerire il peso della burocrazia, rivalutare il lavoro manuale - afferma il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo - Negli ultimi 40 anni c’è stata una svalutazione culturale che è stata spaventosa. L’artigianato - continua Zabeo - è stato dipinto come un mondo residuale, destinato al declino e per riguadagnare il ruolo che gli compete ha bisogno di robusti investimenti nell’orientamento scolastico e nell’alternanza tra la scuola e il lavoro, rimettendo al centro del progetto formativo gli istituti professionali, in passato determinanti nel favorire lo sviluppo economico del Paese. Oggi, invece, sono percepiti dall’opinione pubblica come scuole di “serie b”». 

Nonostante la crisi e i problemi generali che assillano l’artigianato, non sono pochi gli imprenditori di questo settore che segnalano la difficoltà a trovare personale disposto ad avvicinarsi a questo mondo. «Soprattutto al Nord - spiega Mason - si fatica a reperire nel mercato del lavoro giovani disposti a fare gli autisti di mezzi pesanti, i conduttori di macchine a controllo numerico, i tornitori, i fresatori, i verniciatori e i battilamiera. Senza contare che nel mondo dell’edilizia è sempre più difficile reperire carpentieri, posatori e lattonieri. Più in generale, comunque, l’artigiano di domani sarà colui che vincerà la sfida della tecnologia per rilanciare anche i `vecchi saperi´. Alla base di tutto, comunque, rimarrà il saper fare che è il vero motore della nostra eccellenza manifatturiera».

Fonte: da Corriere economia del 17 agosto 2019 


domenica 25 agosto 2019

IL LAMENTO DEL CONSUMATORE DI TASSE MERIDIONALE

Adriano Giannola



Adriano Giannola, presidente di Svimez e quindi meridionalista per professione,ha nel corso del tempo avversato le richieste di maggiore autonomia avanzate da alcune regioni settentrionali. Dapprima appellandosi alla Costituzione, poi sostenendo che dal residuo fiscale andrebbero dedotti gli interessi sui titoli di Stato posseduti dai residenti in quelle regioni. Adesso si spinge ad affermare che le regioni che chiedono più autonomia andrebbero incontro a una deindustrializzazione e meridionalizzazione.

E’ fondamentale chiarire le idee al Nord che si deindustrializza e si meridionalizza quanto più conta di riavere i suoi soldi come dice Zaia, e tanto più quanto punta a instaurare un sovranismo regionale a cui corrisponde la prospettiva di una più forte subalternità nell’Ue. Chi dice dobbiamo far crescere Milano, sottovaluta che il Nord da solo può ambire al massimo a fare il terzista di lusso alla Germania. Se si va avanti così, il Nord ritornerà sui livelli economici pre-crisi nel 2025”.

In pratica, pare che per Giannola la richiesta di maggiore autonomia sarebbe autolesionistica.
Posto che, nel fare da fornitori ad aziende tedesche, diverse imprese delle regioni in questione hanno generato ricchezza e posti di lavoro e questo non vedo come possa essere considerato negativamente, non si capisce per quale motivo dovrebbe esserci “una più forte subalternità nell’Ue”.

Non sembra che Paesi di dimensioni più piccoli dell’Italia siano subalterni nella Ue più dell’Italia stessa.
Si può forse dire che l’Olanda sia in una situazione di subalternità rispetto all’Italia? A me pare di no.

Credo che argomenti come questo non aiutino la causa di chi è contrario alla concessione di maggiore autonomia a talune regioni. Perché magari sarà una sensazione sbagliata, ma sembra moltoil lamento del consumatore di tasse nei confronti del produttore di tasseche cerca di ridurre il fardello che porta sulle spalle.

Fonte: srs di di MATTEO CORSINI,da Miglioverde del 22 agosto 2019


sabato 24 agosto 2019

PAOLO BERNARD. VERSIONE FINALE DI: NON POSSO PIU’ ESSERE GIORNALISTA. MOTIVI.



Io ero giornalista quando potevo fare quello che vedete in foto. Era un altro universo, secolo, epoca, oggi scomparsi per me.

C’è un mio video che è circolato molto e in cui lascio una specie di "testamento", indicato nel mio recente articolo sui metodi ‘fai-da-te’ di procurarsi eutanasia quando il morire ci riduce il fine-vita a un insulto alla dignità e ad un’agonia per nulla, mentre né medici né familiari sanno o possono aiutarci a spegnerci degnamente. Il video si conclude con un addio ai lettori, nel mio rammarico di non aver potuto fare di più come giornalista (si legga però l'ultimo paragrafo).

Per coloro che non si danno pace su come sia possibile che un Paolo Barnard getti la spugna del giornalismo, a prescindere da ciò che mi accade nella vita privata, è mio dovere ripetere, molto più in sintesi, ciò che già scrissi mesi fa. Eccovelo e un abbraccio a tutti.

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Non mi è più possibile essere giornalista. In primo luogo il mio lavoro è stato devastato dal Facebook-journalism e dal Twitter-journalism, due tumori del mestiere che ricadono sotto l’ombrello del Google-journalism, o peggio persino, col Netflix-journalism.

Oggi chiunque dal pc può infarcirsi di Google search, poi sparare ‘giornalismo’ nel web, Social o persino sui quotidiani online e reclamare, buffonescamente, competenza e celebrità. Il risultato è un’iperinflazione da Weimar di grotteschi personaggi auto proclamatisi giornalisti o commentatori, cioè tizi che eruttano masse di ‘factoids’ sparati ogni ora e 24/7, in un impazzimento fuori controllo. Tragicamente, hanno masse crescenti di pubblico stolto al seguito, che a ogni 'factoid' proclama “ecco la verità!”. Fra l'altro è proprio questo pubblico che ha preteso che il giornalismo diventasse intrattenimento istantaneo a portata di click o smart phone 24/7 come Netflix. 

Notatelo: ho appena scritto che i nuovi giornalistoidi dilaganti  del  Google-Netflix-journalism eruttano fattoidi sparati ogni ora 24/7ma lo fanno perché è la gente che oggi chiede maniacalmente la news o il commento dopo pochi minuti da qualsiasi fatto accaduto, esattamente come oggi pretende eruzioni continue di serial e film su Netflix (+ altri) e guai se ogni giorno non ci sono, o esattamente come stanno incollati ai messaggi o ai like sui loro social 24/7. Ma che cazzo di frenesia è questa? Questo non sarà mai giornalismo. E' una pietosa deformazione cerebrale molto ben conosciuta, ha un nome: "Short term, dopamine driven, feedback loops".

Si tratta di una forma di tossicodipendenza dal Web studiata a tavolino nei laboratori di Facebook (et al.) dal 2004 in poi. I "Short term, dopamine driven, feedback loops" viaggiano sulla gratificazione immediata (dopamine driven) delle risposte (feedback da like, commenti, o appunto articoli) che diventa una tossicodipendenza (loops). Applicata al mio mestiere, ha significato letteralmente la fine del mio mestiere.




Io nacqui come giornalista e reporter negli anni’80, mi consolidai negli anni ’90 a Report, e nella mia vita ho prodotto vero giornalismo. Cos’è il giornalismo?

Necessita di un editore in primo luogo, radio Tv o stampa; il giornalista deve essere pagato; il giornalista deve avere i mezzi finanziari per viaggiare, indagare, e attendere se necessario. Queste sono le tre basi elementari e indispensabili per qualsiasi tipo di giornalismo. Il resto è una truffa. Il mio maggior libro, che fu il Longest-Seller e il Best-Seller della collana Rizzoli che lo pubblicò (in foto), richiese 4 mesi di viaggi, quasi 25.000 euro di spese vive, e quasi un anno per la pubblicazione. Le mie inchieste RAI erano lavori maniacalmente rifiniti nel controllo dei fatti, delle fonti, e anche lì occorse tempo e denaro. Idem per il mio impegno in economia. Quello era il giornalismo di Paolo Barnard, per un vero pubblico.

Da anni ormai quelle tre condizioni indispensabili mi sono pervicacemente negate, e l’ostracismo degli editori contro di me ha raggiunto una tale pervicacia che non ho più speranza di lavorare. Esprimermi su un Social (demenziale come tutti i Social), o su un sito che è divenuto un Cult per una setta nazionale di miei fans, non è fare giornalismo. Sottolineo che una setta di fans non muove nulla, e infatti, da quando si sono raccolti attorno a me, da essi non è partito assolutamente nulla di concreto e utile nel Paese. Inutile che continuino a scrivermi "non mollare!", cosa che fanno perché da drogati di "Short term, dopamine driven, feedback loops" pretendono il loro Barnard quotidiano, mica perché poi si danno da fare per cambiare un cazzo nel Paese, come appena scritto sopra. Ripeto: senza i sopraccitati fondamentali mezzi, anch’io finirei col truffare i lettori con fattoidi da Google-journalism, e sono sincero: negli ultimi tempi ci stavo cascando. Stop. Poi c'è sempre lui, l'immortale lui: il fatto che gli italiani sono una razza aliena nel pianeta, qui è inutile tentare qualsiasi cosa, tutto viene deformato in parrocchiette e mafie, e va in vacca. Tutto, io ci ho lasciato una vita, e per niente. Partimmo da "viva il Duce" e ci siamo tornati un secolo dopo, unici al mondo nella partenza e nell'arrivo.  Che pena.

Ridursi al crowdfunding è inaccettabile. Il giornalista non può essere una ‘one man band’ dove con una mano suoni la chitarra, con l’altra la batteria, col piede sinistro stai in piedi e col destro tieni in bilico il cappello per l’elemosina. In quelle stupide condizioni è impossibile produrre nulla di valido, e infatti un’analisi profonda persino dei maggiori esempi internazionali (Democracy Now!, The Intercept…) mostra lavori instabili e fallati, ma peggio: costretti alla partigianeria per compiacere i donatori, che se no se ne vanno. Di nuovo: questo non sarà mai giornalismo, il giornalismo vero deve poter pubblicare senza preoccuparsi di compiacere chi lo legge.

Quindi basta. Così come sono fautore dell’eutanasia, anche fatta in casa, quando la vita diventa indegna di essere vissuta, allo stesso modo sono fautore dell’eutanasia della professione quando diventa indegna di essere praticata. Quindi mi ritiro.

Nel mio giornalismo ho vinto alcune medaglie d'oro, la biografia che trovate in questo sito le elenca, ho corso da 'campione'. Se ci pensate con oculatezza, i 'campioni' a cui nella vita fu concesso di vincere medaglie di continuo fino a un minuto prima di spirare sono rari come mosche bianche, quindi rimango più che contento di aver svettato almeno qualche volta, non poche, e non è poco.

Poi vi rivelo una cosa: tutto finisce.

PB

Fonte: da PB. Da Paolo Bernard  del  25 maggio 2019 




giovedì 22 agosto 2019

8 SETTEMBRE 1943. FUGA DALLE CASERMETTE (CASERMA DUCA) DI MONTORIO VERONESE

Casermette Montorio


Carissimi,
come saprete da molti anni mi occupo della ricerca dei parenti di caduti in guerra, deceduti in prigionia e sepolti nei Cimiteri Militari Italiani d’Onore in Germania, Austria e Polonia.
Dalla pubblicazione del mio blog (
Dimenticati di Stato) ricevo decine di richieste di ricerca, che cerco sempre di esaudire nel minor tempo possibile.

Qualche giorno fa’ mi e’ arrivata una mail un po’ particolare.
Mi scrive da Codogno (Lodi), il figlio di un ottantaseienne chiedendomi di aiutarlo in una ricerca per conto del padre.
Il Signor Monai Faustino, classe 1924, si trovava alle Casermette di Montorio (ora Caserma Duca) l’8 settembre 1943, giorno in cui fu annunciato l’armistizio e migliaia di militari italiani finirono in ostaggio dei tedeschi. La caserma fu completamente circondata dai soldati della Wermacht e gli occupanti fatti prigionieri per essere deportati in Germania.
Per sua fortuna il signor Monai, e alcuni altri con lui, riuscì a fuggire passando dalle fognature, che, secondo il suo racconto, sbucavano nei pressi di una corte in aperta campagna. Fu accolto, rifocillato e gli vennero dati degli abiti civili, così poté raggiungere la ferrovia, prendere un treno e tornare a casa, evitando la deportazione in Germania.
Ora, dopo 67 anni dagli eventi, questo signore vorrebbe venire a Montorio per rivedere quella cascina e magari le persone che contribuirono a evitargli 20 mesi di internamento, salvandogli probabilmente la vita.
Per questo mi rivolgo a voi, auspicando che possiate pubblicare queste righe e la lettera inviatami dal signor Monai, nella speranza che qualcuno si ricordi di quei ragazzi, permettendo magari di poterli far incontrare.
Sono in contatto con il figlio del signor Monai, che intende venire a Montorio nel mese di aprile o maggio.
Vi terrò informati.
Il Monai parla di un tombino all’interno del cortile delle Casermette che fungeva da fognatura e che scaricava in aperta campagna. Quale poteva essere la corte dove si recarono i tre militari in fuga?


Spero di riuscire a trovare delle risposte da poter girare al signor Faustino.
Di seguito la lettera del signor Monai.
Roberto Zamboni



Breve storia della fuga dalle Casermette di Montorio Veronese, l’indomani dell’8 settembre 1943



Faustino Monai


Breve storia della fuga dalle Casermette di Montorio Veronese, l’indomani dell’8 settembre 1943, raccontata da MONAI FAUSTINO al figlio Pietro il 09 Aprile 2010, dopo 67 anni, con la voglia di tornare a visitare quei luoghi che hanno cambiato in positivo la sua vita, a differenza di altri che, purtroppo, furono deportati nei campi di concentramento tedeschi e li vi morirono.

Parliamo di Faustino Monai, nato ad Amaro (UD) l’11/02/1924, attualmente residente a Codogno (LO), padre di quattro figli e nonno di tre nipoti. Questa storia possiamo farla cominciare con la chiamata alle armi nel mese di aprile del 1943. Qui inizia il racconto orale: “Arriva la cartolina precetto e da AMARO, primo paese della Carnia sulla riva sinistra del Tagliamento, devo presentarmi al Nono Reggimento Bersaglieri di Cremona, nella Caserma di Via Palestro.

Raggiungo Cremona in treno e mi presento in caserma. Divento Bersagliere ed inizio l’addestramento militare. La guerra era in corso. Noi stavamo con i Tedeschi. Rimango a Cremona per circa due mesi poi ci trasferirono al campo estivo di Gropparello (PC) prima e di Castell’Arquato (PC) poi. Mi ricordo la partenza da Cremona a mezzanotte e l’arrivo a destinazione l’indomani mattina, dopo il viaggio notturno in bicicletta. Ritornammo a Cremona, sempre in bicicletta, nel mese di luglio del 43.
 Nel mese di agosto la nostra compagnia, cacciatori di carri, fu trasferita a Montorio Veronese, nelle casermette. Ricordo il breve periodo di addestramento dove ci fu insegnato come “aggredire” dal retro un carro armato, che ti passava sopra mentre eri nascosto in una buca, con bombe al plastico da inserire nel vano motore. Ricordo anche che una di queste casermette era occupata da una compagnia corazzata tedesca. Non ricordo se i nostri istruttori fossero anche tedeschi, in quel periodo eravamo alleati, ma è probabile. Durante la breve permanenza a Montorio mi ricordo che la sera uscivo in libera uscita e che c’era un collegamento tranviario o ferroviario con Verona centro. Spesso in caserma suonava l’allarme per l’avvicinarsi degli aerei anglo-americani che bombardavano il nord Italia. Mi ricordo che scappavamo in aperta campagna e ci rifugiavamo nei vicini frutteti di pesche. Erano così frequenti le fughe nei frutteti e le conseguenti scorpacciate di pesche, che i contadini si lamentarono con il comandante e chiesero il risarcimento danni per “pesche mangiate”. Dovemmo pagare con trattenute sulla decade. 
Non ho altri ricordi della permanenza nelle casermette di Montorio, se non quella specifica della sera dell’annuncio dell’armistizio. 
Mi trovavo in libera uscita ed appresi, come tutti, dalla radio che i nostri alleati non erano più i tedeschi ma gli anglo-americani. L’Italia era divisa in due. Ero contento per la notizia, speravo che la guerra finisse, ma non sapevo cosa fare, temevo la diserzione. A diciannove anni dovevo prendere la prima decisione importante della mia vita. E sbagliai, rientrando in caserma anziché scappare a casa. Mi rifeci la mattina seguente, dopo una notte tranquilla. Mi accorsi che tutto era cambiato. La caserma era stata circondata dalla compagnia corazzata tedesca che li alloggiava.
Gli ingressi furono bloccati, come pure le porte carraie. Capii l’errore che avevo fatto la sera prima rientrando in caserma. Insieme ad altri valutammo possibili vie di fuga, tenendo ben presente che i tedeschi avrebbero sparato a vista. Nel cortile interno della casermetta, costruita su tre lati, vi era una grata o un tombino, non ricordo bene, che portava nelle fognature. Io ed altri due, un caporale maggiore mi sembra di Treviso ed un altro, dei quali non ricordo il nome, decidemmo di entrare nel tombino. Non so se altri ci seguirono. Mi sembra di no. 
Era la nostra unica possibilità di fuga. Se andava bene, potevamo sperare di scappare. Se andava male, ci avrebbero ammazzato. Ci andò fortunatamente bene. Ricordo che la fognatura, nel sottosuolo, era di grandi dimensioni, comunque piena di m……L’odore era insopportabile. Gli abiti erano pieni di m….Camminammo piegati sulle gambe per molto tempo. Non so dire per quanto. A me è sembrato un tempo lungo. Questo canale sotterraneo doveva sbucare da qualche parte. Non sapevamo dove.
Fortunatamente sbucò in aperta campagna. Uscimmo all’aperto guardandoci intorno. Non c’era nessuno. Il sole era alto. Non ricordo l’ora. C’incamminammo verso la prima cascina che incontrammo. Sull’aia c’erano delle persone a lavorare che ci vennero incontro. Raccontammo la nostra storia. Ci fecero lavare e ci diedero dei vestiti borghesi. Non ricordo se mangiammo qualcosa con loro, probabilmente si. Ricordo perfettamente una cosa: la voglia di tornare a casa, in Carnia, era enorme. Salutammo, ringraziando per l’aiuto i contadini e ci incamminammo verso la prima stazione ferroviaria. Qui presi la Littorina per Udine. Mi ricordo che molte persone viaggiavano anche sul tetto. I ferrovieri ci aiutarono dandoci tutte le informazioni per tornare a casa. Non avevamo soldi e chiusero un occhio. Degli altri due compagni di avventura ho perso completamente ogni ricordo. Arrivai ad Udine e mi ricordo che scesi dal treno con altri prima di entrare in stazione. Arrivai in stazione a piedi per prendere l’altro treno che mi avrebbe portato in Carnia. Arrivai a casa, sano e salvo, nella notte fra il 9 e il 10 settembre.
Qui finisce il racconto di Faustino. Si rende conto che gli è andata bene. Oggi manifesta la volontà di rivedere, prima di tornare alla casa del padre, quel tombino o quella grata, nel cortile della casermetta di Montorio, dal quale è iniziata la fuga per la libertà. E quella cascina in aperta campagna, vicina al luogo dove sbucavano all’aperto le fognature delle casermette. Magari qualcuno di questa cascina si ricorda, oppure ha raccontato in passato, di quel giorno dopo l’armistizio in cui si presentarono quei tre soldati italiani scappati dalle casermette di Montorio, con abiti pieni di m…., che furono aiutati a tornare a casa.


Fontewww.montorioveronese .it  del 12 aprile 2010



LA VIA DI  FUGGA , L’AQUEDOTTO ROMANO


Con tutta probabilità la fognature usata per   la fugga era l’acquedotto romano, il quale   dopo  aver viaggiato in   parallelo al lato est  delle mura, nella parte  sud   interseca  per alcune decine di metri  la caserma, ed era adoperato come  fogna per la   struttura militare.   Ancora adesso nel tratto sud, al di fuori della caserma, per alcune centinaia di metri viene ancora usato  dal comune di Verona come fognatura pubblica.


venerdì 16 agosto 2019

DUCATI E ZECCHINI D’ORO DELLA REPUBBLICA DI VENEZIA



REPUBBLICA DI VENEZIA

Ducati e Zecchini d’oro 1280 – 1797


Il ducato di Giovanni Dandolo



Nel 1284, il Maggior Consiglio di Venezia emise un decreto che ordinava le coniazioni di “Ducati d’oro fino del valore di 18 grossi d’argento ciascuno”.

Il grosso d’argento (Matapane) era, fino all’anno del decreto, la moneta veneziana più diffusa e accettata anche oltre i confini dello stato.

Il Ducato ebbe un grandissimo successo e fu imitato da numerose zecche dell’Europa orientale, in Grecia ed in Asia.
Si ritiene che la zecca di Venezia poteva coniare ogni anno da 1.500 a 2.000 chili di Ducati (poi chiamati zecchini), e non di rado riusciva a possedere il 15% di tutto l’oro presente sul globo. Sul diritto di queste monete posiamo osservare San Marco nimbato stante a destra mentre è in atto di consegnare un vessillo con la scritta DVX in verticale al Doge inginocchiato verso sinistra, con corno ed abiti dogali.

La leggenda è: SM VENET(I) (in verticale) a sinistra, ed il nome abbreviato del doge a destra.

AI rovescio troviamo invece la figura del Redentore stante di fronte, benedicente con la mano destra e reggente il Vangelo con la sinistra; è racchiuso in una mandorla perlinata al cui interno si trovano anche alcune stellette (di vario numero a seconda del periodo). La leggenda è: SIT T XPE DAT Q TU REGIS ISTE DUCAT che sta per “Sit tibi Christe datus quem tu regis iste ducatus” che significa: a te o Cristo sia dato questo Ducato che tu reggi.
Il diametro della moneta per tutti i secoli si è mantenuto sui 21 mm, ed il peso passò dai 3,559 g originari ai 3,494 g finali, quindi meno dell’un per cento.

Il titolo dell’oro impiegato si è mantenuto costante nel corso dei secoli: circa 997 millesimi. E’ interessante notare che il nome “Zecchino” dato alla moneta nel XVI secolo sia poi passato ad indicare l’oro puro, a 24 carati.

Osservando la serie dei Ducati d’oro veneziani (dal 1545 saranno chiamati Zecchini), ci si accorge che una certa evoluzione stilistica c’è stata, ma per quanto riguarda i soggetti, i cambiamenti si possono contare sulla punta delle dita, e questi non interessano che gli elementi più piccoli e, a prima vista, insignificanti della moneta.

Ma il ripetere sempre lo stesso simbolo era come un marchio della importanza di Venezia e una fiducia nelle sue monete; ogni volta che una persona qualsiasi si trovasse in mano uno di questi pezzi, era certo che la moneta in suo possesso aveva un’ottimo valore di acquisto e fiduciario ed inoltre, come era successo per le monete romane, (soprattutto i denari), la moneta aurea veneziana aveva circolazione estremamente ampia, anche al di fuori dei confini di stato.

Hanno notevole rilevanza le modifiche che man mano si susseguono nelle vesti del doge, specialmente nel berretto che generalmente, dalla metà del secolo XV, assunse la forma definitiva dalla quale prese il nome di “corno”. altre modificazioni avvennero nella posizione del Cristo, nella forma del nimbo, nel numero e nella posizione delle stelle.



Giovanni Dandolo 1280-1289 






Il primo Ducato



Il principato di Giovanni Dandolo é di grande rilevanza, sotto l’aspetto numismatico, per la istituzione del ducato d’oro. Soltanto 32 anni dopo Genova e Firenze, Venezia sentì la necessità di coniare la propria moneta aurea (fino a questo momento le monete d’oro usate nel commercio veneziano provenivano da zecche bizantine e arabe). E’ possibile che la decisione di coniare il ducato d’oro sia stata presa sull’esempio delle città rivali, in particolare Firenze, il cui fiorino d’oro aveva in breve tempo raggiunto grandissima fortuna, ma é da ritenere che le vere ragioni del ritardo possano essere almeno due: la prima, che le autorità della Serenissima non ritenessero opportuno, per non compromettere gli enormi vantaggi derivanti dal ruolo di potenza protettrice di Bisanzio, contrapporre al suo debole iperpero una propria moneta di migliore qualità; l’altra ragione potrebbe identificarsi nella volontà di mantenere al proprio grosso, che godeva grande favore nei mercati del Levante, tutti gli acquisiti e consolidati caratteri di moneta internazionale. 

Dopo la caduta dell’Impero latino d’Oriente e la temporanea vittoria dei Genovesi, sostenitori della nuova Signoria dei Paleologi a Bisanzio, la situazione si modificò totalmente. Venne meno per Venezia ogni ragione per difendere ulteriormente l’iperpero che si svalutava sempre più rapidamente per le frequenti riduzioni del suo intrinseco fino a perdere in pochi anni la metà del suo valore. Da questo momento quindi iniziò la grande svolta nella politica monetaria veneziana. Il Maggior Consiglio, con deliberazione del3l ottobre 1284, ordinò l’emissione del ducato (le prime monete saranno però coniate nella primavera del 1285) dando disposizione ai massari che per ogni marca si dovessero ricavare 67 monete d’oro fino simile e migliore del fiorino, che ogni moneta valesse 18 grossi e delegando infine il doge, i suoi consiglieri e i capi della Quarantia alla scelta del tipo e del conio.

Con questo provvedimento si introdusse anche a Venezia, come già avvenuto per Genova e Firenze, un sistema di bimetallismo con rapporto di circa 1 a Il fra oro ed argento. Il ducato, che sotto il dogado di Francesco Donà prenderà il nome di zecchino, manterrà inalterato il suo intrinseco di 24 carati (0.997 di fino) sino alla caduta della Repubblica. Avrà 3 sole riduzioni di peso del tutto insignificanti (meno dell’l %) : la prima nel 1491 da gr 3.559 a gr 3.53 e poi due volte nella prima metà del ‘500 a gr 3.51 ed infine a gr 3.49.

Il ducato conserverà per tutti i 73 dogi che lo hanno coniato una identica figurazione. Nel diritto la figura di San Marco in piedi nell’atto di consegnare il vessillo al doge inginocchiato. La leggenda riporta il nome del doge a destra e SMVENET (o I) a sinistra, lungo l’asta del vessillo la parola DUX. Nel rovescio il Cristo benedicente in piedi in un’aureola ellittica cosparsa di stelle con la leggenda SIT T XPE DAT Q TU REGIS ISTE DUCAT (Sit tibi Christe datus, quem tu regis iste ducatus). Si tratta di un perfetto esametro cosiddetto “leonino” cioé rimato alla cesura pentemimera (a metà del terzo piede) con la parola finale. La traduzione letterale é la seguente: ” Sia a Te o Cristo affidato questo Dogado che Tu governi”.

Nella serie dei ducati e zecchini che da Giovanni Dandolo continuò regolarmente fino all’ultimo doge per ben 513 anni, hanno notevole rilevanza le modifiche che man mano si susseguirono nelle vesti del doge, specialmente nel berretto che gradualmente, dalla metà del secolo XV, assunse la forma definitiva dalla quale prese il nome di “corno”. Altre modificazioni avvennero nella posizione del Cristo, nella forma del nimbo, nel numero e nella disposizione delle stelle. Il ducato, e poi lo zecchino, fu imitato da molte zecche italiane: Chiarenza, Firenze, Foglia Vecchia, Genova, Malta, Mantova, Metelino, Pera, Rodi, Roma, Chio; dalle francesi Dombes e Orange; da molte zecche del Mediterraneo orientale, del Levante e dell’India.


Lodovico Manin 1789-1797 



Lodovico Manin 



L’ultimo Zecchino




Ducato di Daniele Manin


Sul letto di morte, il doge Paolo Renier considerando i probabili candidati a succedergli, così sentenziava: “Ve lo dirò mi chi i farà. L’erario xe in sconquasso, ocore un ricon, e i farà Lodovico Manin” E così fu anche se egli si adopererà per rifuggire da questa suprema carica, come si legge nelle sue “Memorie del Dogado” «… si crede di dover accennare alcuna cosa riguardante la mia particolare persona. Io avevo sentito dire delle voci nel non breve tempo che passò tra la morte del Doge Renier e la sostituzione, che mi nominava; a questo io avevo una alienazione decisa, e la moglie che nutriva li stessi sentimenti, voleva che mi difendessi. Venuto il momento e vedendomi scelto dal Quarantuno si accrebbero di molto le mie ansie».

« io allora, perduto ogni riguardo, mi presentai a tutti del Quarantuno, facendo tutti gli sforzi con le lagrime agli occhi; ma la cosa era decisa, né vi era più rimedio. Seguì dunque l’elezione, ed io ne ebbi una tale angustia che appena sapevo cosa mi facessi. Scrissi un biglietto bagnato tutto di lagrime al fratello Piero col quale gl’indicavo d’ordinare l’occorren- te sul metodo tenuto dal doge Mocenigo. La mia alienazione per questa onorifica Dignità andò sempre più accrescendo quasi presagendo il di lei funesto termine.».

Il Lunedì 9 marzo 1789, Lodovico Manin fu comunque eletto con 28 voti su 41, e Venezia, ormai prossima alla fine, spese per la elezione oltre 369 mila ducati, più di quanto si fosse mai speso in passato. I festeggiamenti per solennizzare la esaltazione al trono doga-le, che erano a carico del doge stesso, raggiunsero la notevole cifra di 458 mila ducati, di cui oltre 5 mila in monete d’oro e d’argento di nuovo conio lanciate dal pozzetto durante il giro trionfale in piazza S. Marco.

Anche Lodovico Manin, come era consuetudine dal 1521 per i dogi, fece coniare delle oselle, le medaglie commemorative di fatti importanti del proprio dogado. Nel giugno 1796 fu coniata l’ottava osella del doge Manin, l’ultima della Repubblica con il motto: MATRI AMANTI AMANTES FILII. Motto emblematico della difficile situazione politica in cui versa- va la Repubblica, una debole invocazione al recupero delle forze ed all’unità dei suoi cittadini per opporsi alla fine ormai prossima ed ineluttabile.

E ce n’era davvero bisogno di forza per opporsi, dalla paralizzante posizione di neutralità armata in cui Venezia si era arroccata, all’invasione del territorio veneto che in quell’anno veniva occupato dalle truppe francesi da Bergamo, Brescia fino a Verona e da quelle austriache dal Friuli e Cadore fino a Vicenza.

Napoleone puntava ai territori della Repubblica ed il 9 aprile 1797 inviava una lettera di minacce di intervento al Doge Manin, a cui il Senato risponde arrendevolmente.

Il 18 aprile 1797, a Leoben, Napoleone concorda con l’Austria l’acquisizione del Belgio, Lombardia e Mantova in cambio del territorio della Repubblica Veneta, tranne Venezia, che sarebbe rimasto un moncone isolato privo di vita.

Nella illusione di salvare la Repubblica con una impossibile neutralità, attraverso timide ed inutili mediazioni, il Senato, il Consiglio dei Dieci, gli Inquisitori di Stato, La Quarantia, in sostanza chi deteneva il potere effettivo del governo dello stato, dopo l’avvertimento bonapartiano, spariscono in vergognoso silenzio, lasciando nella persona del doge, assistito dai suoi consiglieri, la Consulta, e nel Maggior Consiglio, organo sovrano assopito da molti anni, l’ingrato compito di sancire in lento suicidio la fine del regime aristocratico e della nazione.

Il 30 aprile 1797 il doge Manin riunisce nel suo appartamento una prima commissione e decide la convocazione del Maggior Consiglio per il 1 maggio dove prenderà così la parola: «Le angustie estreme nelle quali versa l’animo nostro, oltre che la grave età e la debolezza della nostra salute, fa che noi siemo sicuri d ‘aver forza de far breve allocuzione ai nostri amatissimi concittadini; (…) dopo depredadi tutti li territorj, smunto el dinaro da tutte le casse pubbliche, in adesso i Francesi s’ha impossessà de tutto el Stato; i ha fatto rivoluzionar tute le più ricche provincie, cosicché i xe al margine delle Lagune. (…) così in questa notte stessa avemo unita una straordinaria Conferenza, e frutto di lunghissimi studj e meditation la Parte che in adesso sentirà. Questa xe stata estorta dalla imperiosa necessità delle circostanze, mentre tanto el Prove- ditor alle Lagune e Lidi, quanto el Luogotenente Straordinario confessan che non semo in grado di poter far resistenza a tanta forza. (…) Questa Parte, che come avemo detto xe estorta dalla durezza delle circostanze, la tende a salvar questa Città, le nostre persone, le nostre famiglie, i nostri altari, la nostra popolacion che xe minacciadi de morte e saccheggi. (…) La Parte xe proposta col Nostro nome, perché le leggi ha dà facoltà a Nu soli de poter far proposizion, senza li metodi stabilidi molto prudentemente per tutti li altri casi (…) le esortemo, abbandonando qualunque vista privata, ad unirse con voto concorde, mentre questo è il solo mezzo de salvar medesimi e la cara Patria».

La parte conferiva al doge il compito di negoziare, attraverso il Luogotenente della difesa lagunare, una sospensione delle ostilità con il comandante delle truppe di terra ferma francesi. Inoltre autorizzava Francesco Donà e Leonardo Giustinian a trattare con il generale Bonaparte sulle modificazioni da apportare nella forma del Governo veneziano. La parte fu votata con 598 sì, 7 no, e 14 incerti.

Con altri ricatti e pesantissime minacce francesi, nella grande confusione del governo veneziano senza più Senato, e senza neppure il Tribunale degli Inquisitori fatti arrestare dal Maggior Consiglio su minaccia napoleonica, si arriva al 12 maggio 1797.

Comunque, l’8 maggio il doge Lodovico Manin, nella speranza che qualcuno potesse far meglio di lui offre alla Consulta le sue dimissioni, ma lo pregarono di restare. Il 9 maggio 1797 risponde ai francesi che volevano imporgli la Presidenza della futura Municipalità Provvisoria di Venezia: «… che essi erano padroni della sua vita, ma che della sua Religione e del suo Onore ne era padrone solo Iddio.».

Il 12 maggio 1797 si riunisce per l’ultima volta il Maggior Consiglio con soli 537 patrizi su 1218, il doge espone le ragioni che consigliano di accogliere le imposizioni napoleoniche sul cambiamento della Costituzione, e con 512 sì, 20 no e 5 astenuti, il Maggior Consiglio, prima ancora di conoscere il risultato dei negoziati dei suoi Rappresentanti presso il generale Napoleone Bonaparte, approva la fine della Repubblica di Venezia.

Nonostante i tumulti ed il reale pericolo per la sua vita, soltanto la sera del 15 maggio il doge Lodovico Manin, accompagnato dai nipoti, figli del fratello Giovanni, abbandona il Palazzo Ducale per recarsi a Ca’ Pesaro, mentre le truppe francesi a colpi di cannone an- nunciano il loro ingresso in laguna.

Il 16 maggio a Milano, i Francesi sottoscrivevano un accordo con i delegati del vecchio regine, Francesco Donà, Leonardo Giustinian e Luigi Mocenigo con il quale si impegna- vano a lasciare la città lagunare una volta instaurato il nuovo governo.
Il 4 giugno in piazza San Marco veniva piantato l’albero della libertà e bruciato il Libro d’oro del patriziato veneziano assieme alle insegne dogali che Lodovico Manin fu costretto a consegnare a partire dal corno, il berretto dorato simbolo del suo rango principesco per secoli indossato dai suoi predecessori.

In realtà le intenzioni dei vincitori erano diverse da quelle lasciate intendere ai Veneziani, infatti gli accordi preliminari di Leoben del 18 aprile 1797 fra Napoleone e gli Austriaci si trasformarono nel famoso Trattato di Campoformido del 17 ottobre 1797, firmato proprio in questa villa del doge Manin a Passariano, dove si era insediato Napoleone.
Con questo trattato il territorio della Repubblica Veneta a sinistra dell’Adige, compresa Venezia, l’Istria e la Dalmazia passavano sotto la dominazione austriaca.

Venezia, saccheggiata, privata dei cavalli di San Marco, spogliata di moltissime opere d’arte, il 18 gennaio 1798 veniva lasciata dal generale francese Serrurier per essere consegnata agli austriaci, che le tolsero definitivamente della libertà di cui, unica, aveva goduto per più di undici secoli.

Lodovico Manin fu ingiustamente ritenuto il principale responsabile di questa fine, in realtà essa non fu che la conseguenza di un lungo declino avviato già da molto tempo e che la forza dell’esercito francese spezzò irrimediabilmente.
Gli va riconosciuto, invece, il merito di aver assunto fino in fondo le responsabilità dell’alta carica dogale, con dignità ed equilibrio, quel tanto – se non altro – che consentì di risparmiare la città lagunare ed i suoi cittadini dalle cannonate francesi. Va perciò condiviso il giudizio del Da Mosto, quando scrive che: «Fu indubbiamente un onest’uomo, che non accettò di trescare con gli invasori e rifiutò, benché minacciato, di diventare capo della Municipalità Provvisoria».

Ritiratosi a vita privata morì il 24 ottobre 1802, a 76 anni, e venne sepolto nella chiesa di santa Maria di Nazareth degli Scalzi a Venezia, come aveva disposto nel suo testamento.
Con la sua abdicazione e la caduta della Serenissima finisce la monetazione veneziana, sostituita da nuovi coni imposti dalle Autorità dominanti che per quasi tutto il 1800 si avvicenderanno nella città lagunare.

I Multipli ovvero la moneta da ostentazione

Dello zecchino si ebbero dei multipli da 2 sino a 105 zecchini (del peso di 367,41gr.), quelli più grossi, normalmente dai 10 zecchini in su, sono chiamati comunemente monete da ostentazione, battuti per capriccio, in realtà avevano corso legale in quanto per gli scambi e i commerci in generale i pagamenti avvenivano a peso d’oro e non a numero, anche se l’esecuzione di tali multipli si volle talvolta nell’intento di fare degli omaggi a sovrani, principi, ambasciatori, cittadini veneziani benemeriti ed in occasioni particolari come battesimi, cresime, nozze, monacazioni, doni natalizi e altre cerimonie particolar- mente sfarzose.

Questi curiosi e rari multipli dello zecchino iniziano dal Doge Antonio Priuli (1618-1623) e continuano con qualche lacuna sino a Lodovico Manin, (l’ultimo doge). I più antichi sono da 2, 5,10, 25, 30, 40 e 50 senza tener conto di qualche pezzo di valore intermedio. Gli ultimi tre Dogi fecero coniare alcuni pezzi di modulo straordinariamente grande e del peso di 50 e 100 zecchini, il British Museum di Londra conserva un esemplare di addirittura 105 zecchini. Il modulo dei multipli varia a seconda dell’epoca e non superò il diametro di 52 mm. con l’eccezione di un multiplo da 100 zecchini da 76 mm. e il 105 di Manin del diametro di 79 mm.

ELENCO DEI 73 DOGI CHE HANNO CONIATO MONETA AUREA

  1. Giovanni Dandolo (1280-1289)
  2. Pietro Gradenigo (1289-1311)
  3. Marino Zorzi (1311-1312)
  4. Giovanni Soranzo (1312-1328)
  5. Francesco Dandolo (1329-1339)
  6. Bartolomeo Gradenigo (1339-1342)
  7. Andrea Dandolo (1343-1354)
  8. Marino Faliero (1354-1355)
  9. Giovanni Gradenigo (1355-1356)
  10. Giovanni Dolfin (1356-1361)
  11. Lorenzo Celsi (1361-1365)
  12. Marco Corner (1305-1368)
  13. Andrea Contarini (1368-1382)
  14. Michele Morosini (1382)
  15. Antonio Veniero (1382-1400)
  16. Michele Steno (1400-1413)
  17. Tommaso Mocenigo (1414-1423)
  18. Francesco Foscari (1423-1457)
  19. Pasquale Malipiero (1457-1462)
  20. Cristoforo Moro (1462-1471)
  21. Nicolò Tron (1471-1473)
  22. Nicolò Marcello (1473-1474)
  23. Pietro Mocenigo (1474-1476)
  24. Andrea Vendramin (1476-1478)
  25. Giovanni Mocenigo (1478-1485)
  26. Marco Barbarigo (1485-1486)
  27. Agostino Barbarigo (1486-1501)
  28. Leonardo Loredan (1501-1521)
  29. Francesco Grimani (1521-1523)
  30. Andrea Gritti (1523-1538)
  31. Pietro Lando (1539-1545)
  32. Francesco Donato (1545-1553)
  33. Marcantonio Trevisan (1553-1554)
  34. Francesco Veniero (1554-1556)
  35. Lorenzo Priuli (1556-1559)
  36. Girolamo Priuli (1559-1567)
  37. Pietro Loredan (1567-1570)
  38. Alvise Mocenigo (1570-1577)
  39. Sebastiano Venier (1577-1578)
  40. Nicolò Da Ponte (1578-1585)
  41. Pasquale Cicogna (1585-1595)
  42. Marino Grimani (1595-1605)
  43. Leonardo Donà (1606-1612)
  44. Marc’Antonio Memmo (1612-1615)
  45. Giovanni Bembo (1615-1618)
  46. Nicolò Donà (1618)
  47. Antonio Priuli (1618-1623)
  48. Francesco Contarini (1623-1624)
  49. Giovanni Corner (1625-1629)
  50. Nicolò Contarini (1630-1631)
  51. Francesco Erizzo (1631-1646)
  52. Francesco Molin (1646-1655
  53. Carlo Contarini (1655-1656)
  54. Francesco Corner (1656)
  55. Bertuccio Valier (1656-1658)
  56. Giovanni Pesaro (1658-1659)
  57. Domenico Contarini (1659-1675)
  58. Nicolò Sagredo (1675-1676)
  59. Alvise Contarini (1676-1684)
  60. Marcantonio Giustiniani (1684-1688)
  61. Francesco Morosini (1688-1694)
  62. Silvestro Valier (1694-1700)
  63. Alvise Mocenigo (1700-1709)
  64. Giovanni Corner (1709-1722)
  65. Alvise Mocenigo (1722-1732)
  66. Carlo Ruzzini (1732-1735)
  67. Alvise Pisani (1735-1741)
  68. Pietro Grimani (1741-1752)
  69. Francesco Loredan (1752-1762)
  70. Marco Foscarini (1762-1763)
  71. Alvise Mocenigo (1763-1778)
  72. Paolo Renier (1770-1789)
  73. Lodovico Manin (1789-1797)


Intervento di Aldo Navoni

Venezia, 13 marzo 2013