REPUBBLICA DI VENEZIA
Ducati e Zecchini d’oro 1280 – 1797
Il ducato di Giovanni Dandolo
Nel 1284, il Maggior Consiglio di Venezia emise un decreto che ordinava le coniazioni di “Ducati d’oro fino del valore di 18 grossi d’argento ciascuno”.
Il grosso d’argento (Matapane) era, fino all’anno del decreto, la moneta veneziana più diffusa e accettata anche oltre i confini dello stato.
Il Ducato ebbe un grandissimo successo e fu imitato da numerose zecche dell’Europa orientale, in Grecia ed in Asia.
Si ritiene che la zecca di Venezia poteva coniare ogni anno da 1.500 a 2.000 chili di Ducati (poi chiamati zecchini), e non di rado riusciva a possedere il 15% di tutto l’oro presente sul globo. Sul diritto di queste monete posiamo osservare San Marco nimbato stante a destra mentre è in atto di consegnare un vessillo con la scritta DVX in verticale al Doge inginocchiato verso sinistra, con corno ed abiti dogali.
La leggenda è: SM VENET(I) (in verticale) a sinistra, ed il nome abbreviato del doge a destra.
AI rovescio troviamo invece la figura del Redentore stante di fronte, benedicente con la mano destra e reggente il Vangelo con la sinistra; è racchiuso in una mandorla perlinata al cui interno si trovano anche alcune stellette (di vario numero a seconda del periodo). La leggenda è: SIT T XPE DAT Q TU REGIS ISTE DUCAT che sta per “Sit tibi Christe datus quem tu regis iste ducatus” che significa: a te o Cristo sia dato questo Ducato che tu reggi.
Il diametro della moneta per tutti i secoli si è mantenuto sui 21 mm, ed il peso passò dai 3,559 g originari ai 3,494 g finali, quindi meno dell’un per cento.
Il titolo dell’oro impiegato si è mantenuto costante nel corso dei secoli: circa 997 millesimi. E’ interessante notare che il nome “Zecchino” dato alla moneta nel XVI secolo sia poi passato ad indicare l’oro puro, a 24 carati.
Osservando la serie dei Ducati d’oro veneziani (dal 1545 saranno chiamati Zecchini), ci si accorge che una certa evoluzione stilistica c’è stata, ma per quanto riguarda i soggetti, i cambiamenti si possono contare sulla punta delle dita, e questi non interessano che gli elementi più piccoli e, a prima vista, insignificanti della moneta.
Ma il ripetere sempre lo stesso simbolo era come un marchio della importanza di Venezia e una fiducia nelle sue monete; ogni volta che una persona qualsiasi si trovasse in mano uno di questi pezzi, era certo che la moneta in suo possesso aveva un’ottimo valore di acquisto e fiduciario ed inoltre, come era successo per le monete romane, (soprattutto i denari), la moneta aurea veneziana aveva circolazione estremamente ampia, anche al di fuori dei confini di stato.
Hanno notevole rilevanza le modifiche che man mano si susseguono nelle vesti del doge, specialmente nel berretto che generalmente, dalla metà del secolo XV, assunse la forma definitiva dalla quale prese il nome di “corno”. altre modificazioni avvennero nella posizione del Cristo, nella forma del nimbo, nel numero e nella posizione delle stelle.
Giovanni Dandolo 1280-1289
Il primo Ducato
Il principato di Giovanni Dandolo é di grande rilevanza, sotto l’aspetto numismatico, per la istituzione del ducato d’oro. Soltanto 32 anni dopo Genova e Firenze, Venezia sentì la necessità di coniare la propria moneta aurea (fino a questo momento le monete d’oro usate nel commercio veneziano provenivano da zecche bizantine e arabe). E’ possibile che la decisione di coniare il ducato d’oro sia stata presa sull’esempio delle città rivali, in particolare Firenze, il cui fiorino d’oro aveva in breve tempo raggiunto grandissima fortuna, ma é da ritenere che le vere ragioni del ritardo possano essere almeno due: la prima, che le autorità della Serenissima non ritenessero opportuno, per non compromettere gli enormi vantaggi derivanti dal ruolo di potenza protettrice di Bisanzio, contrapporre al suo debole iperpero una propria moneta di migliore qualità; l’altra ragione potrebbe identificarsi nella volontà di mantenere al proprio grosso, che godeva grande favore nei mercati del Levante, tutti gli acquisiti e consolidati caratteri di moneta internazionale.
Dopo la caduta dell’Impero latino d’Oriente e la temporanea vittoria dei Genovesi, sostenitori della nuova Signoria dei Paleologi a Bisanzio, la situazione si modificò totalmente. Venne meno per Venezia ogni ragione per difendere ulteriormente l’iperpero che si svalutava sempre più rapidamente per le frequenti riduzioni del suo intrinseco fino a perdere in pochi anni la metà del suo valore. Da questo momento quindi iniziò la grande svolta nella politica monetaria veneziana. Il Maggior Consiglio, con deliberazione del3l ottobre 1284, ordinò l’emissione del ducato (le prime monete saranno però coniate nella primavera del 1285) dando disposizione ai massari che per ogni marca si dovessero ricavare 67 monete d’oro fino simile e migliore del fiorino, che ogni moneta valesse 18 grossi e delegando infine il doge, i suoi consiglieri e i capi della Quarantia alla scelta del tipo e del conio.
Con questo provvedimento si introdusse anche a Venezia, come già avvenuto per Genova e Firenze, un sistema di bimetallismo con rapporto di circa 1 a Il fra oro ed argento. Il ducato, che sotto il dogado di Francesco Donà prenderà il nome di zecchino, manterrà inalterato il suo intrinseco di 24 carati (0.997 di fino) sino alla caduta della Repubblica. Avrà 3 sole riduzioni di peso del tutto insignificanti (meno dell’l %) : la prima nel 1491 da gr 3.559 a gr 3.53 e poi due volte nella prima metà del ‘500 a gr 3.51 ed infine a gr 3.49.
Il ducato conserverà per tutti i 73 dogi che lo hanno coniato una identica figurazione. Nel diritto la figura di San Marco in piedi nell’atto di consegnare il vessillo al doge inginocchiato. La leggenda riporta il nome del doge a destra e SMVENET (o I) a sinistra, lungo l’asta del vessillo la parola DUX. Nel rovescio il Cristo benedicente in piedi in un’aureola ellittica cosparsa di stelle con la leggenda SIT T XPE DAT Q TU REGIS ISTE DUCAT (Sit tibi Christe datus, quem tu regis iste ducatus). Si tratta di un perfetto esametro cosiddetto “leonino” cioé rimato alla cesura pentemimera (a metà del terzo piede) con la parola finale. La traduzione letterale é la seguente: ” Sia a Te o Cristo affidato questo Dogado che Tu governi”.
Nella serie dei ducati e zecchini che da Giovanni Dandolo continuò regolarmente fino all’ultimo doge per ben 513 anni, hanno notevole rilevanza le modifiche che man mano si susseguirono nelle vesti del doge, specialmente nel berretto che gradualmente, dalla metà del secolo XV, assunse la forma definitiva dalla quale prese il nome di “corno”. Altre modificazioni avvennero nella posizione del Cristo, nella forma del nimbo, nel numero e nella disposizione delle stelle. Il ducato, e poi lo zecchino, fu imitato da molte zecche italiane: Chiarenza, Firenze, Foglia Vecchia, Genova, Malta, Mantova, Metelino, Pera, Rodi, Roma, Chio; dalle francesi Dombes e Orange; da molte zecche del Mediterraneo orientale, del Levante e dell’India.
Lodovico Manin 1789-1797
Lodovico Manin
L’ultimo Zecchino
Ducato di Daniele Manin
Sul letto di morte, il doge Paolo Renier considerando i probabili candidati a succedergli, così sentenziava: “Ve lo dirò mi chi i farà. L’erario xe in sconquasso, ocore un ricon, e i farà Lodovico Manin” E così fu anche se egli si adopererà per rifuggire da questa suprema carica, come si legge nelle sue “Memorie del Dogado” «… si crede di dover accennare alcuna cosa riguardante la mia particolare persona. Io avevo sentito dire delle voci nel non breve tempo che passò tra la morte del Doge Renier e la sostituzione, che mi nominava; a questo io avevo una alienazione decisa, e la moglie che nutriva li stessi sentimenti, voleva che mi difendessi. Venuto il momento e vedendomi scelto dal Quarantuno si accrebbero di molto le mie ansie».
« io allora, perduto ogni riguardo, mi presentai a tutti del Quarantuno, facendo tutti gli sforzi con le lagrime agli occhi; ma la cosa era decisa, né vi era più rimedio. Seguì dunque l’elezione, ed io ne ebbi una tale angustia che appena sapevo cosa mi facessi. Scrissi un biglietto bagnato tutto di lagrime al fratello Piero col quale gl’indicavo d’ordinare l’occorren- te sul metodo tenuto dal doge Mocenigo. La mia alienazione per questa onorifica Dignità andò sempre più accrescendo quasi presagendo il di lei funesto termine.».
Il Lunedì 9 marzo 1789, Lodovico Manin fu comunque eletto con 28 voti su 41, e Venezia, ormai prossima alla fine, spese per la elezione oltre 369 mila ducati, più di quanto si fosse mai speso in passato. I festeggiamenti per solennizzare la esaltazione al trono doga-le, che erano a carico del doge stesso, raggiunsero la notevole cifra di 458 mila ducati, di cui oltre 5 mila in monete d’oro e d’argento di nuovo conio lanciate dal pozzetto durante il giro trionfale in piazza S. Marco.
Anche Lodovico Manin, come era consuetudine dal 1521 per i dogi, fece coniare delle oselle, le medaglie commemorative di fatti importanti del proprio dogado. Nel giugno 1796 fu coniata l’ottava osella del doge Manin, l’ultima della Repubblica con il motto: MATRI AMANTI AMANTES FILII. Motto emblematico della difficile situazione politica in cui versa- va la Repubblica, una debole invocazione al recupero delle forze ed all’unità dei suoi cittadini per opporsi alla fine ormai prossima ed ineluttabile.
E ce n’era davvero bisogno di forza per opporsi, dalla paralizzante posizione di neutralità armata in cui Venezia si era arroccata, all’invasione del territorio veneto che in quell’anno veniva occupato dalle truppe francesi da Bergamo, Brescia fino a Verona e da quelle austriache dal Friuli e Cadore fino a Vicenza.
Napoleone puntava ai territori della Repubblica ed il 9 aprile 1797 inviava una lettera di minacce di intervento al Doge Manin, a cui il Senato risponde arrendevolmente.
Il 18 aprile 1797, a Leoben, Napoleone concorda con l’Austria l’acquisizione del Belgio, Lombardia e Mantova in cambio del territorio della Repubblica Veneta, tranne Venezia, che sarebbe rimasto un moncone isolato privo di vita.
Nella illusione di salvare la Repubblica con una impossibile neutralità, attraverso timide ed inutili mediazioni, il Senato, il Consiglio dei Dieci, gli Inquisitori di Stato, La Quarantia, in sostanza chi deteneva il potere effettivo del governo dello stato, dopo l’avvertimento bonapartiano, spariscono in vergognoso silenzio, lasciando nella persona del doge, assistito dai suoi consiglieri, la Consulta, e nel Maggior Consiglio, organo sovrano assopito da molti anni, l’ingrato compito di sancire in lento suicidio la fine del regime aristocratico e della nazione.
Il 30 aprile 1797 il doge Manin riunisce nel suo appartamento una prima commissione e decide la convocazione del Maggior Consiglio per il 1 maggio dove prenderà così la parola: «Le angustie estreme nelle quali versa l’animo nostro, oltre che la grave età e la debolezza della nostra salute, fa che noi siemo sicuri d ‘aver forza de far breve allocuzione ai nostri amatissimi concittadini; (…) dopo depredadi tutti li territorj, smunto el dinaro da tutte le casse pubbliche, in adesso i Francesi s’ha impossessà de tutto el Stato; i ha fatto rivoluzionar tute le più ricche provincie, cosicché i xe al margine delle Lagune. (…) così in questa notte stessa avemo unita una straordinaria Conferenza, e frutto di lunghissimi studj e meditation la Parte che in adesso sentirà. Questa xe stata estorta dalla imperiosa necessità delle circostanze, mentre tanto el Prove- ditor alle Lagune e Lidi, quanto el Luogotenente Straordinario confessan che non semo in grado di poter far resistenza a tanta forza. (…) Questa Parte, che come avemo detto xe estorta dalla durezza delle circostanze, la tende a salvar questa Città, le nostre persone, le nostre famiglie, i nostri altari, la nostra popolacion che xe minacciadi de morte e saccheggi. (…) La Parte xe proposta col Nostro nome, perché le leggi ha dà facoltà a Nu soli de poter far proposizion, senza li metodi stabilidi molto prudentemente per tutti li altri casi (…) le esortemo, abbandonando qualunque vista privata, ad unirse con voto concorde, mentre questo è il solo mezzo de salvar medesimi e la cara Patria».
La parte conferiva al doge il compito di negoziare, attraverso il Luogotenente della difesa lagunare, una sospensione delle ostilità con il comandante delle truppe di terra ferma francesi. Inoltre autorizzava Francesco Donà e Leonardo Giustinian a trattare con il generale Bonaparte sulle modificazioni da apportare nella forma del Governo veneziano. La parte fu votata con 598 sì, 7 no, e 14 incerti.
Con altri ricatti e pesantissime minacce francesi, nella grande confusione del governo veneziano senza più Senato, e senza neppure il Tribunale degli Inquisitori fatti arrestare dal Maggior Consiglio su minaccia napoleonica, si arriva al 12 maggio 1797.
Comunque, l’8 maggio il doge Lodovico Manin, nella speranza che qualcuno potesse far meglio di lui offre alla Consulta le sue dimissioni, ma lo pregarono di restare. Il 9 maggio 1797 risponde ai francesi che volevano imporgli la Presidenza della futura Municipalità Provvisoria di Venezia: «… che essi erano padroni della sua vita, ma che della sua Religione e del suo Onore ne era padrone solo Iddio.».
Il 12 maggio 1797 si riunisce per l’ultima volta il Maggior Consiglio con soli 537 patrizi su 1218, il doge espone le ragioni che consigliano di accogliere le imposizioni napoleoniche sul cambiamento della Costituzione, e con 512 sì, 20 no e 5 astenuti, il Maggior Consiglio, prima ancora di conoscere il risultato dei negoziati dei suoi Rappresentanti presso il generale Napoleone Bonaparte, approva la fine della Repubblica di Venezia.
Nonostante i tumulti ed il reale pericolo per la sua vita, soltanto la sera del 15 maggio il doge Lodovico Manin, accompagnato dai nipoti, figli del fratello Giovanni, abbandona il Palazzo Ducale per recarsi a Ca’ Pesaro, mentre le truppe francesi a colpi di cannone an- nunciano il loro ingresso in laguna.
Il 16 maggio a Milano, i Francesi sottoscrivevano un accordo con i delegati del vecchio regine, Francesco Donà, Leonardo Giustinian e Luigi Mocenigo con il quale si impegna- vano a lasciare la città lagunare una volta instaurato il nuovo governo.
Il 4 giugno in piazza San Marco veniva piantato l’albero della libertà e bruciato il Libro d’oro del patriziato veneziano assieme alle insegne dogali che Lodovico Manin fu costretto a consegnare a partire dal corno, il berretto dorato simbolo del suo rango principesco per secoli indossato dai suoi predecessori.
In realtà le intenzioni dei vincitori erano diverse da quelle lasciate intendere ai Veneziani, infatti gli accordi preliminari di Leoben del 18 aprile 1797 fra Napoleone e gli Austriaci si trasformarono nel famoso Trattato di Campoformido del 17 ottobre 1797, firmato proprio in questa villa del doge Manin a Passariano, dove si era insediato Napoleone.
Con questo trattato il territorio della Repubblica Veneta a sinistra dell’Adige, compresa Venezia, l’Istria e la Dalmazia passavano sotto la dominazione austriaca.
Venezia, saccheggiata, privata dei cavalli di San Marco, spogliata di moltissime opere d’arte, il 18 gennaio 1798 veniva lasciata dal generale francese Serrurier per essere consegnata agli austriaci, che le tolsero definitivamente della libertà di cui, unica, aveva goduto per più di undici secoli.
Lodovico Manin fu ingiustamente ritenuto il principale responsabile di questa fine, in realtà essa non fu che la conseguenza di un lungo declino avviato già da molto tempo e che la forza dell’esercito francese spezzò irrimediabilmente.
Gli va riconosciuto, invece, il merito di aver assunto fino in fondo le responsabilità dell’alta carica dogale, con dignità ed equilibrio, quel tanto – se non altro – che consentì di risparmiare la città lagunare ed i suoi cittadini dalle cannonate francesi. Va perciò condiviso il giudizio del Da Mosto, quando scrive che: «Fu indubbiamente un onest’uomo, che non accettò di trescare con gli invasori e rifiutò, benché minacciato, di diventare capo della Municipalità Provvisoria».
Ritiratosi a vita privata morì il 24 ottobre 1802, a 76 anni, e venne sepolto nella chiesa di santa Maria di Nazareth degli Scalzi a Venezia, come aveva disposto nel suo testamento.
Con la sua abdicazione e la caduta della Serenissima finisce la monetazione veneziana, sostituita da nuovi coni imposti dalle Autorità dominanti che per quasi tutto il 1800 si avvicenderanno nella città lagunare.
I Multipli ovvero la moneta da ostentazione
Dello zecchino si ebbero dei multipli da 2 sino a 105 zecchini (del peso di 367,41gr.), quelli più grossi, normalmente dai 10 zecchini in su, sono chiamati comunemente monete da ostentazione, battuti per capriccio, in realtà avevano corso legale in quanto per gli scambi e i commerci in generale i pagamenti avvenivano a peso d’oro e non a numero, anche se l’esecuzione di tali multipli si volle talvolta nell’intento di fare degli omaggi a sovrani, principi, ambasciatori, cittadini veneziani benemeriti ed in occasioni particolari come battesimi, cresime, nozze, monacazioni, doni natalizi e altre cerimonie particolar- mente sfarzose.
Questi curiosi e rari multipli dello zecchino iniziano dal Doge Antonio Priuli (1618-1623) e continuano con qualche lacuna sino a Lodovico Manin, (l’ultimo doge). I più antichi sono da 2, 5,10, 25, 30, 40 e 50 senza tener conto di qualche pezzo di valore intermedio. Gli ultimi tre Dogi fecero coniare alcuni pezzi di modulo straordinariamente grande e del peso di 50 e 100 zecchini, il British Museum di Londra conserva un esemplare di addirittura 105 zecchini. Il modulo dei multipli varia a seconda dell’epoca e non superò il diametro di 52 mm. con l’eccezione di un multiplo da 100 zecchini da 76 mm. e il 105 di Manin del diametro di 79 mm.
ELENCO DEI 73 DOGI CHE HANNO CONIATO MONETA AUREA
- Giovanni Dandolo (1280-1289)
- Pietro Gradenigo (1289-1311)
- Marino Zorzi (1311-1312)
- Giovanni Soranzo (1312-1328)
- Francesco Dandolo (1329-1339)
- Bartolomeo Gradenigo (1339-1342)
- Andrea Dandolo (1343-1354)
- Marino Faliero (1354-1355)
- Giovanni Gradenigo (1355-1356)
- Giovanni Dolfin (1356-1361)
- Lorenzo Celsi (1361-1365)
- Marco Corner (1305-1368)
- Andrea Contarini (1368-1382)
- Michele Morosini (1382)
- Antonio Veniero (1382-1400)
- Michele Steno (1400-1413)
- Tommaso Mocenigo (1414-1423)
- Francesco Foscari (1423-1457)
- Pasquale Malipiero (1457-1462)
- Cristoforo Moro (1462-1471)
- Nicolò Tron (1471-1473)
- Nicolò Marcello (1473-1474)
- Pietro Mocenigo (1474-1476)
- Andrea Vendramin (1476-1478)
- Giovanni Mocenigo (1478-1485)
- Marco Barbarigo (1485-1486)
- Agostino Barbarigo (1486-1501)
- Leonardo Loredan (1501-1521)
- Francesco Grimani (1521-1523)
- Andrea Gritti (1523-1538)
- Pietro Lando (1539-1545)
- Francesco Donato (1545-1553)
- Marcantonio Trevisan (1553-1554)
- Francesco Veniero (1554-1556)
- Lorenzo Priuli (1556-1559)
- Girolamo Priuli (1559-1567)
- Pietro Loredan (1567-1570)
- Alvise Mocenigo (1570-1577)
- Sebastiano Venier (1577-1578)
- Nicolò Da Ponte (1578-1585)
- Pasquale Cicogna (1585-1595)
- Marino Grimani (1595-1605)
- Leonardo Donà (1606-1612)
- Marc’Antonio Memmo (1612-1615)
- Giovanni Bembo (1615-1618)
- Nicolò Donà (1618)
- Antonio Priuli (1618-1623)
- Francesco Contarini (1623-1624)
- Giovanni Corner (1625-1629)
- Nicolò Contarini (1630-1631)
- Francesco Erizzo (1631-1646)
- Francesco Molin (1646-1655
- Carlo Contarini (1655-1656)
- Francesco Corner (1656)
- Bertuccio Valier (1656-1658)
- Giovanni Pesaro (1658-1659)
- Domenico Contarini (1659-1675)
- Nicolò Sagredo (1675-1676)
- Alvise Contarini (1676-1684)
- Marcantonio Giustiniani (1684-1688)
- Francesco Morosini (1688-1694)
- Silvestro Valier (1694-1700)
- Alvise Mocenigo (1700-1709)
- Giovanni Corner (1709-1722)
- Alvise Mocenigo (1722-1732)
- Carlo Ruzzini (1732-1735)
- Alvise Pisani (1735-1741)
- Pietro Grimani (1741-1752)
- Francesco Loredan (1752-1762)
- Marco Foscarini (1762-1763)
- Alvise Mocenigo (1763-1778)
- Paolo Renier (1770-1789)
- Lodovico Manin (1789-1797)
Intervento di Aldo Navoni
Venezia, 13 marzo 2013