Domenica 16 Giugno 2019 si è spento Giovanni Feo, un maestro, un amico.
Giovanni era nato De Feo nel 1949 a Roma, da madre greca e padre pugliese. Risiedeva da più di 40 anni a Pitigliano dove lo avevano portato la sua passione per gli etruschi e la loro cultura. Da li ha esplorato incessantemente il territorio mostrando una non comune connessione con esso, che gli ha permesso di scoprire e riscoprire luoghi e manufatti ancestrali, spesso trovando spiegazioni d’uso non approvate dall’archeologia accademica. Ha sempre condiviso attivamente la sua conoscenza con seminari, conferenze, escursioni e ci ha lasciato una grande quantità di guide e libri sulle sue scoperte, di cui ricordiamo per tutte Poggio Rota, una sorta di Stonehenge italiana, megaliti tufacei di epoca precedente agli etruschi che presentano troppi allineamenti astronomici e territoriali per essere casuali.
Studioso della tradizione andina, è tra i soci fondatori dell’associazione Tawantin. Incontra, verso la fine degli anni ’90, Don Juan Nuñez del Prado, docente di antropologia dell’università di Cuzco, da cui riceve l’iniziazione al quarto livello della tradizione.
Le connessioni e le similitudini singolari che riscontra tra la civiltà etrusca e quella delle Ande del Perù, daranno luogo a seminari itineranti volti all’evoluzione delle coscienze attraverso la riscoperta delle radici storico culturali delle nostre tradizioni.
Aveva una personalità non comune, una visione e un approccio al di fuori dei consueti paradigmi.
Questo suo essere fuori dall’ordinario gli permetteva di “sentire” il territorio e leggerlo con una acutezza rara, riconoscendo segni di mani antiche quasi mai immediatamente visibili ai più.
Ruvido e imperscrutabile, sempre fedele a se stesso, non era geloso delle sue conoscenze e delle sue scoperte che condivideva con naturalezza e generosità.
Sicuramente ci mancherà la sua visione fuori dal coro e il suo essere talmente antico da essere modernissimo, suo malgrado.
Cristina Neri
Fonte: srs di Cristina Neri, da NextMag del 20 giugno 2019
Bellissimo articolo di Luca Federici uscito sul mensile Nuovo Corriere del Tufo.
La figura del nostro carissimo Giovanni è descritta perfettamente da un occhio, da una penna e da un cuore molto attenti.
L’EREDITÀ DI GIOVANNI FEO
Realtà oscure, un tempo impenetrabili, vengono oggi sempre più sondate, dopo essere state sistematicamente rimosse..
Giovanni Feo non è mai stato tipo da compromessi, portatore di luce e di ombre, di una conoscenza iniziatica attenta alle sensazioni più che ai dogmi.
Giovanni Feo è morto il 16 giugno 2019 dopo una malattia che negli ultimi mesi lo aveva costretto a un ritiro forzato al Pantagnone, un borgo rurale nascosto tra le sue amate colline del Fiora. Giovanni se ne è andato, e a noi rimane il dolore della perdita fisica, materiale, che tuttavia è nulla rispetto all’enorme eredità che ci ha lasciato.
Nella sua lunga ricerca è stato capace di guardare all’antico, all’arcano con occhi nuovi. E’ riuscito a ricostruire le origini della civiltà mediterranea basandosi sui miti, sulle leggende,sulla toponomastica.
Spesso è stato accusato di fanta archeologia, in particolare per la sua ferma presa di posizione sull’ubicazione del Fanum Voltumnae.
Paradossalmente ad aver provato a ridicolizzarlo sono stati proprio quegli accademici che ancora paventano convinzioni ridicole e tuttavia ormai accettate. La questione Orvietana è una favola per bambini, mentre Bolsena è chiaramente l’identificazione più evidente. Collegare Orvieto con Volsinii è stata forse la massima rappresentazione del modo di pensare moderno.
Paradossalmente ad aver provato a ridicolizzarlo sono stati proprio quegli accademici che ancora paventano convinzioni ridicole e tuttavia ormai accettate. La questione Orvietana è una favola per bambini, mentre Bolsena è chiaramente l’identificazione più evidente. Collegare Orvieto con Volsinii è stata forse la massima rappresentazione del modo di pensare moderno.
Nessuna attenzione alla toponomastica, ai miti, alle connotazioni geografiche. Basti pensare all’isola Bisentina, un’area sacra estesa, fatta di eremi, edifici sacri e votivi, in particolare la“malta papale”, un pozzo profondo scavato sotto il monte Tabor (che in ebraico significa ombelico).
Ed è questo che rappresentava, l’ombelico del mondo, il centro dal quale si irradiavano le dodici lucumonie degli etruschi, il punto dove la divinità del cielo toccava quella delle acque.
Bolsena è Volsinii, lo dice il nome, lo dicono i chilometri di imponenti mura etrusche che circondavano la cittadina lacustre, i numerosi templi, ma soprattutto lo sostengono i numerosi corsi d’acqua, le foreste lussureggianti che la circondano e l’attività tellurica presente in tutto il lago e soprattutto sotto il tempio di Turan.
Senza contare che agli eruditi sfugge un particolare, ovvero la possibile e probabile concezione che la divinità sia stata identificata e rappresentata proprio dal lago stesso. Ma certe cose i baroni dell’archeologia non riusciranno mai ad accettarle.
La scoperta del vasto tempio su Monte Landro ha offerto il tassello mancante, quello di un’area sacrale di dimensioni estese, perfettamente allineata con il lago e la volta celeste. Qualcuno ha provato anche a definirlo il vero Fanum Voltumnae, ma probabilmente ha rappresentato solo uno dei templi che sorgevano intorno all’area sacrale del lago.
Gli archeologi come al solito hanno provato a minimizzare, datando il tempio al III secolo, ma Giovanni Feo si è opposto tanto da riuscire a far accettare la tesi che sia stato in realtà risalente al V secolo.
Gli archeologi come al solito hanno provato a minimizzare, datando il tempio al III secolo, ma Giovanni Feo si è opposto tanto da riuscire a far accettare la tesi che sia stato in realtà risalente al V secolo.
Un popolo che non conosce a pieno le proprie origini difficilmente riuscirà a liberarsi completamente dai dogmi e dal controllo dall’alto. In particolare l’italiano, un popolo magmatico, tellurico, geniale e al contempo manipolabile meriterebbe di avere un quadro più definito delle proprie origini, invece nei libri di storia scolastici troviamo un misero capitolo sugli etruschi e ancor meno sulle popolazioni italiche dell’età del bronzo.
Non si fa menzione ai Pelasgi e ai mitici popoli del mare, alla civiltà della Dea Madre e alla cultura matriarcale, al diluvio universale, ad Atlantide, agli Shardana e ai Giganti. Anche per questo l’Italia è stata sottomessa da numerose potenze straniere e resta ancora schiava dei dogmi della più grande religione monoteista della modernità.
Giovanni Feo non ha fatto altro che rileggere i miti non come storie da cantori di corte, piuttosto come importanti informazioni a nostra disposizione, come realtà. Del resto Heinrich Schliemann, che era tutto meno che un archeologo è stato di fatto il padre dell’archeologia moderna. IL suo grande merito fu di scoprire la mitica città di Troia rileggendo semplicemente l’Iliade di Omero.
Molti nel mondo dell’archeologia considerano ancora i miti come semplici invenzioni letterarie, ed è qui il loro limite, che poi rappresenta il limite del nostro mondo attuale: capitalistico, pratico, del tutto e subito, dove non basarsi su prove certe significa cadere immediatamente nella fantascienza.
Il mito, specialmente nel mondo Ellenico veniva usato per rimarcare il sovrapporsi del pantheon divinatorio maschile su quello antico matriarcale che risiedeva in tutta Europa. Perseo che uccide la Gorgone Medusa non è solo un invenzione letteraria, bensì una celebrazione della vittoria del nuovo mondo su quello vecchio, che meritava di essere ricordata in eterno.
In Italia le streghe, le sibille, e taumaturghe per secoli sono state torturate, mutilate e messe al rogo solo perché perseveravano nel perpetrare il culto della Dea. E in questo risiede il doppio inganno del cristianesimo, aver chiesto scusa (con qualche secolo di ritardo) per un fanatismo religioso che in realtà non c’è mai stato. La caccia alle streghe ha rappresentato una operazione di annientamento sistematico del culto matriarcale, rimasto fino ad allora sempre forte in Italia, nonostante mille anni di Roma e altri 500 di cristianesimo.
Sta proprio qui l’eredità di Giovanni Feo, aver mostrato la strada verso la consapevolezza che sia esistita una solo grande Dea che legava i popoli del Mediterraneo (e forse di tutto il mondo).
Ma chiaramente sono troppi gli accademici e gli eruditi a non accettare che la Dea abbia potuto assumere nomi diversi nei vari ceppi dei popoli del mare: Afrodite, Venere, Iside, Athena, Tanit, Uni e Turan, Thetis, Neith, Anantha.
Giovanni Feo dopo anni di ricerca sul campo ha scoperto quella che è stata definita la Sthonenge italiana, e l’ha fatto consultando le carte dell’IGM, l’istituto geografico militare. Rimase incuriosito dal nome riportato sulla carta, Poggio Rota, sembrava rimandare alla ruota della vita, alle 12 lucumonie, all’agrimensura, ovvero la scienza segreta etrusca di dividere i territori, di mettere cippi ai margini delle aree sacre.
Ma la scoperta sensazionale di Poggio Rota è che non è etrusca, bensì molto più antica, è la prova più evidente della forte presenza degli antichi popoli del mare che risalendo i fiumi Fiora, Marta e Albegna hanno costruito e scavato le loro testimonianze sacrali.
Esistevano altri circoli megalitici tra le colline del Fiora, in particolare quello che risiedeva da millenni sull’area sacrale di Crostoletto del Lamone, ruspato dai proprietari per paura di un esproprio, ma questa è un’altra storia.
L’ultima resistenza del popolo Etrusco all’invasione romana è avvenuta proprio nei loro boschi sacri, nello strenuo tentativo di difendere i loro segreti più preziosi, consegnati dagli Aruspici all’oblio eterno: i libri acherontici, l’etrusca disciplina, la geomanzia o geografia Sacra.
Non avremo mai testi materiali dai quali determinare la sacralità del mondo antico italico, ma in questo Giovanni Feo ha aperto la strada, attivare le sensazioni, ascoltare i silenzi dei siti megalitici, collegare gli indizi, cercare la verità nella nuda pietra, osservare con occhi iniziatici le coppelle nel tufo, trovare i moti lunari nelle vasche votive, osservare l’alba del solstizio dai puntatori tra i massi ciclopici, avvertire costantemente la sensazione che siamo tutti figli di una grande madre e che c’è qualcosa che unisce tutti gli elementi presenti sul pianeta.
Non scorderò mai gli incontri con Giovanni, le giornate d’estate a Sorgenti della Nova, le incursioni al Voltone sotto monte Becco e al lago di Mezzano, la passione con la quale riusciva a tramandare le sue conoscenze, l’acume e la determinazione nel sostenere tesi audaci, la massima disponibilità nell’accompagnare chiunque, anche dei perfetti sconosciuti, sui sentieri dell’Etruria rupestre, magica, mistica.
L’augurio più grande che posso fargli è che il suo spirito si trasformi in energia e che possa tornare presto su questa terra.
Fonte: srs di Luca Federici, da il Nuovo Corriere del Tufo del 7 agosto 2019.
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