Di Niva Mirakyan
Dopo ‘ndrangheta e camorra, ora a preoccupare le forze dell’ordine e la magistratura italiana è anche la mafia nigeriana, particolarmente attiva sul traffico di droga e sullo sfruttamento della prostituzione.
Si tratta della più potente organizzazione criminale africana presente in ottanta Paesi del mondo, anche a seguito dei flussi delle migrazioni. Essa è considerata una mafia, spesso più violente e più imprevedibile di quella palermitana. In Italia la mafia nigeriana, a volte nominata la “cosa nera”, controlla fette di territorio da
Torino a Palermo e recluta i nuovi affiliati tra i migranti ribelli nei centri di accoglienza.
L’arrivo della criminalità straniera in un Paese ancora traumatizzato dalle sue guerre di
mafia sta diventato per l’Italia un problema molto serio ma spesso e volentieri sottovalutato.
Italia è davvero in mano della mafia nigeriana? Com’è diversa dalle organizzazioni criminali tradizionali? Esiste un collegamento tra l’immigrazione irregolare e la “piovra nera”? Per parlare di questo nuovo fenomeno Sputnik Italia si è rivolto all’ Avvocato Marco Valerio Verni, zio di Pamela Mastropietro, giovane 18enne romana uccisa e fatta a pezzi a Macerata nel 2018. Lo scorso 29 marzo il suo assassino nigeriano Innocent Oseghale
è stato condannato all’ergastolo con isolamento diurno per 18 mesi.
– Avvocato Verni, quali sono le vere origini di questo fenomeno? Esiste un parere abbastanza diffuso che la sua nascita è dovuta all'accoglienza “sfrenata” degli ultimi anni. Mafia nigeriana è arrivata in Italia con i barconi?
– Beh, che le
organizzazioni criminali nigeriane si siano sviluppate e rafforzate in Italia, come nel resto d’Europa, anche attraverso lo sfruttamento dei flussi migratori è più che un parere: è una certezza. L’ultima
relazione della Direzione Investigativa Antimafia relativa all’attività svolta nel semestre luglio-dicembre 2018, ad esempio, è molto chiara nel ribadire, in più passaggi del corposo
focus dedicato proprio a questo fenomeno, lo stretto connubio tra immigrazione irregolare ed organizzazioni criminali di matrice straniera presenti in Italia, mafia nigeriana, appunto,
in primis. Poi certo, i barconi non sono l’unico strumento, ben potendo essere utilizzati, ad esempio, anche gli aerei.
– Perché se ne parla così poco? A Suo avviso, è un tema sottovalutato?
– Al di là delle ovvie necessità investigative, che impongono anche una certa cautela mediatica, non si può negare che, di
mafia nigeriana, si sia iniziato a parlare in maniera più importante solo dopo i tragici fatti di Macerata dello scorso 30 gennaio 2018, quando - lo vorrei ricordare - una ragazzina di 18 anni è stata violentata, uccisa con due coltellate e depezzata chirurgicamente, disarticolata, scuoiata, scarnificata, esanguata, asportata di tutti i suoi organi interni, lavata con la candeggina, messa in due trolley ed abbandonata sul ciglio della strada.
Prima, solo qualche articolo, di quando in quando. Ma il problema, oltre che di comunicazione, è anche giudiziario: se, sul campo, le nostre forze di Polizia sono state sempre attive nel combattere, per come potevano, il fenomeno, è la mentalità di alcuni magistrati che, per lungo tempo, ha contribuito - certamente in maniera involontaria - a che questo fenomeno trovasse scarso riconoscimento anche nelle aule di giustizia con imputazioni ad hoc e relative condanne. Un po’ quello che accadde con le mafie nostrane: si ricorderà, infatti, come già Falcone, Borsellino, Chinnici, Caponnetto e gli altri magistrati del pool che, nel 1986, portarono al primo grande maxi - processo contro Cosa Nostra, ebbero a rimproverare ai colleghi che li avevano preceduti proprio il fatto di non aver saputo (o voluto) leggere i vari episodi criminosi che avevano insanguinato la Sicilia nel loro quadro d’insieme, lasciando che, così facendo, la mafia potesse continuare a crescere indisturbata ed a ramificarsi nella società, a tutti i livelli.
Anche qui, solo da qualche tempo, si è iniziato a leggere il fenomeno in questione nel suo insieme, analizzando la delittuosità nigeriana non più per casi singoli ma in un quadro più complesso e complessivo, tenendo pure conto della conoscenza delle sue origini e delle sue proiezioni internazionali. E, finalmente, sono arrivati i primi importantissimi risultati.
– È ben noto che le organizzazioni criminali tradizionali hanno capacità di pervadere nei vari settori della società italiana. Come fanno i soldi gli esponenti della “piovra nera”?
– Principalmente, essi traggono importanti fonti di finanziamento
dalla tratta di esseri umani e dalle attività ad essa conseguenti e collegate: ossia, dal traffico internazionale di sostanze stupefacenti (che poi, in Italia, si traduce anche nello spaccio al minuto) e dallo sfruttamento della
prostituzione, pure minorile.
Si consideri, tra l’altro, che molte donne nigeriane - che, a ben vedere, sono le prime vittime di questi crimini - sono costrette, anche tramite le loro famiglie di origine, a contrarre dei debiti (parliamo di circa 30-50 mila euro) solo per poter venire in Italia, con la promessa di un lavoro che, presto, si rivela per quello che effettivamente è: ossia, l’attività di meretricio, appunto, attraverso la quale esse devono poi restituire le somme di cui sopra, cui, però, si aggiungono, durante la loro permanenza nel nostro Paese, le spese correnti (luce, acqua, gas, casa dove dormire, etc.) e, addirittura, una sorta di tassa da pagare alle loro protettrici (ognuna di esse viene chiamata madame o maman) per lo stesso spazio (che teoricamente dovrebbe essere pubblico) che esse occupano per svolgere l’attività di prostituzione. Un meccanismo che, sostanzialmente, non permette più loro di tornare libere: una sorta, insomma, di “schiavitù da debito” (debt bondage), condannata, peraltro, dalle stesse Nazioni Unite.
Ed a cui, spesse volte, sono costrette a sottostare, per il pericolo di morte o, comunque, di gravi danni che, diversamente, incomberebbe su di loro o sui loro familiari in Nigeria.
Senza considerare i riti ju-ju cui esse sono sottoposte e che le tengono assoggettate psicologicamente in una maniera molto profonda, sfruttando tanto, queste organizzazioni, anche gli aspetti magici e fideistici.
Ma poi vi sono anche altre attività illecite, tra cui il gioco d’azzardo, la clonazione di carte di credito, l’accattonaggio.
– Generalmente, il
denaro sporco derivante da queste attività viene poi reinvestito per assicurarsi altra manovalanza (tra cui, le stesse donne da avviare alla prostituzione di cui sopra), per aprire attività economiche di copertura (negozi etnici in particolare), per acquistare altro stupefacente o per inviare delle quote (fees) alla casa madre, in Nigeria (tramite i comuni money-transfer o il sistema “hawala”), destinate anche per favorire il sostentamento dei familiari degli affiliati colà residenti.
– Quanto è potente la mafia nigeriana in Italia? Copre tutto il territorio e ci sono le zone più colpite?
– La mafia nigeriana è, ormai, una delle più potenti e pericolose in Italia. È diffusa su tutto il territorio, isole comprese, e vede il suo epicentro a Castel Volturno, in provincia di Caserta, che è un importante snodo di smistamento di persone e sostanze stupefacenti.
Non è un caso – ribadisco - che nella relazione della Direzione Investigativa Antimafia sopra ricordato, si sia deciso di dedicare ad essa o, meglio, per essere tecnicamente corretti, alle organizzazioni criminali nigeriane, un ampio focus.
– Quali sono i gruppi più attivi? È come è organizzata la loro struttura gerarchica?
– I gruppi decisamente più attivi, in Italia, sono la “Supreme Eye Confraternity”, i “Black Axe”, i “Maphite” ed i “Vikings”.
Di base, questi cults operano secondo vere e proprie strutture militari, con dei capi e, via a scendere, come in una vera e propria struttura gerarchica piramidale, gli affiliati, suddivisi per ranghi cui corrispondono precise responsabilità di comando e di operatività.
I gruppi nazionali (ossia, quelli presenti in Italia, in Spagna, in Francia, in Germania e via dicendo) hanno naturalmente un filo diretto con quelli presenti in Nigeria, cui devolvono periodicamente importanti somme di denaro, tramite diversi sistemi di pagamento, ma ne mantengono una sostanziale indipendenza operativa.
Si entra a far parte di essi o per scelta o, spesso, anche perché costretti, dopo aver, naturalmente, superato un durissimo rituale di affiliazione che ricomprende, con qualche differente sfumatura a seconda del cult a cui si aderisce, calci, pugni, sevizie e torture fisiche e psicologiche di vario genere.
Ognuno di essi ha delle regole molto rigide, fondate sul vincolo associativo, sull’omertà da essa derivante, sul timore infuso nelle vittime. Chi tradisce o, magari, non ottempera ad un pagamento, subisce gravi conseguenze, fino alla morte.
Il recente sequestro della
“Green Bible” (Bibbia Verde) - un vero e proprio manuale operativo dei Maphite - ad esempio, avvenuto a Roma, ha permesso di svelare importanti informazioni sul
modus operandi et cogendi che, per grandi parti, possono essere estese anche agli altri
cults, sebbene ciascuno - è bene ribadirlo - abbia poi delle sue peculiarità.
SECONDA PARTE DELL'INTERVISTA.
Dopo ‘ndrangheta e camorra, ora a preoccupare le forze dell’ordine e la magistratura italiana è anche la mafia nigeriana, particolarmente attiva sul traffico di droga e sullo sfruttamento della prostituzione.
Per parlare di questo nuovo fenomeno Sputnik Italia si è rivolto all’ Avvocato Marco Valerio Verni, zio di Pamela Mastropietro, giovane 18enne romana uccisa e fatta a pezzi a Macerata nel 2018.
– Secondo i giornali, la mafia nigeriana ha preso piede nel sud dell’Italia a fianco della mafia siciliana. Ci sono prove di “alleanza” tra queste organizzazioni criminali?
– Si, e le cito due esempi tra tutti: la già ricordata area di Castel Volturno, che può essere sicuramente considerata, da almeno trent’anni, proprio l’espressione della coesistenza tra gruppi camorristici (clan dei Casalesi) e criminalità nigeriana, e Palermo, che pure ha rivelato una coesistenza tra matrici mafiose autoctone e nigeriane, ammantata da un velo di “tolleranza”.
Non è da escludere, peraltro, che vi possano essere, in taluni casi, dei veri e propri subappalti di attività illecite da parte delle organizzazioni nostrane nei confronti di quelle nigeriane, legate soprattutto a quelle più prettamente “da strada”, quali spaccio di sostanze stupefacenti e sfruttamento della prostituzione, appunto.
Così come, non è da dimenticare che la criminalità nigeriana, non di rado, si sia avvalsa di quella comune italiana, impiegata come manovalanza con il compito di tagliare e spacciare al minuto la droga importata dall’estero, oppure come corrieri nell’ambito dei territori cittadini.
– Esiste un collegamento diretto tra immigrazione irregolare e mafia nigeriana? Potrebbe citare qualche esempio concreto?
– Come ricordavo prima, proprio la Direzione Investigativa Antimafia, nel report summenzionato, ha sottolineato, in più passaggi, ed in maniera chiara, netta, ed inequivocabile, lo stretto connubio tra immigrazione irregolare e presenza, sul nostro territorio, di organizzazioni criminali straniere, mafia nigeriana in primis.
Ora, ribadisco ancora una volta: non tutti i nigeriani sono malavitosi, ma vi sono dei dati che devono far riflettere. In primis - come pure richiamato nella più volte citata relazione- quello secondo cui, tra le principali nazionalità non comunitarie, proprio quella nigeriana riporta il più basso tasso di occupazione (il 45,1% a fronte del 59,1% dei non comunitari) ed il più alto tasso di disoccupazione, (il 34,2%, a fronte di una media del 14,9% dei non comunitari); in secundis, quello riguardante le rimesse di denaro dall’Italia verso la Nigeria avvenute nel 2018, nelle quali oltre alla quota, certamente preponderante, di natura lecita, che attesta l’operosità della comunità nigeriana, si celano sicuramente anche i proventi di attività illegali (lo scorso anno, per venire ai dati concreti, le rimesse, pari a 74,79 milioni di euro, sono risultate il doppio di quelle del 2016).
Inoltre, è altresì acclarato che la criminalità nigeriana si sia sviluppata, al di fuori della madrepatria, sfruttando i flussi migratori, attraverso i quali abbia dato vita ad una intensa attività di traffico di esseri umani (che, vorrei ricordarlo, è un crimine), di sfruttamento della prostituzione e di spaccio di sostanze stupefacenti (ma non solo), secondo precise e capillari reti criminali transnazionali.
– Vorrei parlare con Lei del tristemente noto caso di Pamela Mastropietro che è direttamente legato all’attività criminale della mafia nigeriana in Italia e nel quale Lei è “coinvolto” non solo come l’Avvocato della famiglia ma anche come zio della vittima. Quali sono gli ultimi sviluppi?
– Guardi, anche qui, come già detto in diverse altre circostanze, ci sono tanti indizi, nel fascicolo riguardante le indagini sull’omicidio di Pamela, ma non solo, che lasciano pensare che chi la abbia uccisa ne possa far parte. E non solo lui.
Vi sono, in particolare, delle dichiarazioni, confermate in dibattimento, di un collaboratore di giustizia, ritenuto attendibile da parte della Procura di Macerata (e da diverse altre), secondo cui lo stesso Oseghale (colui che, lo scorso 29 maggio, è stato condannato all’ergastolo con isolamento diurno per 18 mesi, per l’omicidio aggravato di Pamela Mastropietro) avrebbe riferito di far parte di questa organizzazione, presente anche a Macerata e nelle Marche, considerate, queste ultime, un importante crocevia tra il Veneto (Padova, in particolare) e la più volte ricordata Castel Volturno.
Inoltre, il nigeriano in questione, sembra avere dei segni, sul corpo, che dimostrerebbero la sua affiliazione a tale sodalizio criminale. Anche Lucky Desmond, un altro nigeriano inizialmente co-indagato con Oseghale, per il quale pende il giudizio sull’eventuale archiviazione, afferma di essere stato un “rogged”: ebbene, traendo spunto da altri atti di indagine, riguardante i processi celebrati a Palermo, proprio contro la mafia nigeriana, emerge che questo termine viene usato proprio nei rituali di affiliazione alla stessa, e che si viene dichiarati tali (“rogged”, appunto), dopo aver superato tutti gli step delle dolorose pratiche (calci, pugni, sevizie di ogni tipo, misture di sangue e di sudore che si è costretti a bere, e via dicendo).
O, ancora, delle intercettazioni ambientali in carcere, captate proprio tra Lucky Desmond ed un altro ancora iniziale co-indagato, Lucky Awelima, in cui i due hanno detto le cose peggiori: ossia che Oseghale (che già aveva ridotto in quel modo altre donne e che era uno dei “capi”) avrebbe potuto tagliare a pezzi Pamela e metterla nel congelatore, mangiarla poco per volta, farci il brodo. O, magari, gettarla nel mare, ad Ancona, dove il suo corpo, così, non si sarebbe mai potuto ritrovare. O altro ancora.
Affermazioni, quelle di cui sopra, che, con atteggiamento altrettanto omertoso, sono state, nonostante la loro oggettività, negate in dibattimento dai diretti interessati: altro elemento che, forse, dovrebbe, o avrebbe dovuto far riflettere meglio chi di dovere.
Proprio sul cellulare di Awelima, inoltre, sono state trovate delle fotografie raffiguranti persone torturate, la maggior parte delle quali, con molta probabilità, scattate direttamente da quell’apparecchio.
Ancora, vorrei altresì ricordare che, già all’indomani dei tragici fatti, lo stesso Procuratore di Macerata, Giovanni Giorgio, ebbe a denunciare pubblicamente il fatto che l’interprete nigeriana inizialmente incaricata di tradurre gli atti, spaventata, aveva abbandonato l’incarico, rendendosi addirittura irreperibile.
A quanto pare, il magistrato in questione ebbe anche difficoltà, successivamente, a trovarne altri, disposti a prestare la loro collaborazione, perché tutti impauriti dalle minacce che avrebbero potuto subire personalmente o, addirittura, con riferimento ai loro familiari in Nigeria. Circostanza, questa, che, a quanto sembra, sarebbe accaduta anche a Palermo, nei processi colà svoltisi di recente.
Ritengo che certi atti si sarebbero dovuti inviare, già da tempo, alla Direzione Distrettuale Antimafia competente. Comprendere se i tre soggetti a vario titolo coinvolti (Innocent Oseghale, Lucky Desmond e Lucky Awelima) facciano parte, come probabile, di una organizzazione di tipo mafioso, potrebbe fornire tante delucidazioni anche sull’omicidio di Pamela.
Peraltro, la stessa magistratura nigeriana, con cui vi è una stretta collaborazione da parte della nostra, potrebbe aver interesse nel comprendere ed approfondire certi dati, dal momento che, nello Stato africano in questione, la creazione o la partecipazione ai secret cults costituisce, dal 2001, un vero e proprio “reato costituzionale”, a seguito dell’emanazione, in quell’anno, del “Secret cult and Security Society Prohibition Bill”. E se Desmond, allora, come dice lui stesso, fosse davvero diventato un “rogged” in Nigeria?
Ci sarebbe tanto altro da dire, ma non so quanto spazio e quanto tempo ci vorrebbero.
– Secondo la Dia, la “mafia nera” sta diventando sempre più pericolosa e sempre più potente in Italia. Potrebbe proporre qualche rimedio per contrastare questo nuovo microcosmo criminale?
– Parto da un punto: la grande esperienza che i nostri investigatori hanno maturato e consolidato nel tempo per comprendere ed affrontare la ‘ndrangheta e le altre mafie storiche autoctone, che costituisce ormai un know-how investigativo di eccellenza e particolarmente competitivo a livello internazionale, che ben può essere traslato ed utilizzato - come pure si sta facendo - per affrontare quest’altra realtà che, per tantissimi versi, è simile alle prime. Poi certo: è innegabile che ci siano delle difficoltà specifiche, tra cui quella legata, spesse volte, alla traduzione di dialetti incomprensibili, con un inevitabile rallentamento delle indagini, o quella di inserire agenti sotto copertura, per ovvie differenze di colore della pelle.
Ma, per altri versi, ci sono anche importanti strumenti legislativi che, al di là di quelli da affinare e da ritagliare su misura, laddove necessario, per questa specifica realtà, già hanno dimostrato la loro efficacia: mi riferisco, in particolare, a quello dei collaboratori. In alcuni processi, come ad esempio quello di Palermo, grande importanza hanno avuto proprio le rivelazioni di alcune donne, vittime di tratta e di prostituzione che, con coraggio, hanno deciso di denunciare i loro aguzzini, permettendo che la nostra magistratura potesse, tramite anche le attività tecniche di Polizia, disvelare e condannare pericolosi sodalizi criminali di tipo mafioso.
Anzi, mi sia consentito approfittare di questa opportunità, per lanciare un messaggio a tutte le vittime di questa organizzazione (e non solo): fidatevi delle nostre Forze di Polizia e denunciate. Esiste, in particolare, lo strumento di cui all’art. 18 del Decreto Legislativo n. 286/1998 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) che consente alle donne vittime di tratta di poter ottenere un permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Perché, come già ho detto, le prime vittime, spesso, sono le donne nigeriane. Oltre, poi, ai ragazzi - i nostri figli, nipoti, etc.- che finiscono prede degli spacciatori.
Insieme, è una battaglia che si può e si deve vincere, per quanto ciò possa sembrare complicato. Ma occorre scansare le ipocrisie. Perché, diversamente, si rischierebbe di diventare complici degli stessi mafiosi nigeriani!
Fonte: srs di Niva Miraky, da Sputinik del 25-26 settembre 2019