10 domande sulla Nuova Via della Seta: mappa, ruolo dell'Italia, timori sul debito, sviluppo in Africa e... Tutto quello che c'è da sapere sulla Belt and Road
di Lorenzo Lamperti
Chi ancora pensa che la Nuova Via della Seta sia un nostalgico revival delle antiche avventure eurasiatiche di Marco Polo sarà deluso. La Belt and Road Initiative, di cui si parla da anni nel mondo, è il più colossale piano economico-diplomatico di sempre. Ora anche in Italia, vista la volontà espressa dal governo Lega-M5s di sottoscrivere il memorandum di intesa con la Cina, se ne sta parlando molto. Ecco allora una guida (parziale, non basterebbe un libro a cogliere tutte le sfaccettature e implicazioni) di Affaritaliani.it sugli aspetti principali del progetto che sta (già) cambiando il mondo.
Che cos'è la Nuova Via della Seta?
Innanzitutto non si tratta di una sola "via della seta". Volendo utilizzare il nome del progetto in italiano sarebbe corretto parlare di "Nuove Vie della Seta", al plurale. Le rotte sono infatti cinque, tre terrestri e due marittime, e potrebbero presto diventare sei. La Belt and Road Initiative (Bri), il nome internazionale del progetto, è un piano annunciato nel 2013 dal presidente cinese Xi Jinping per migliorare i collegamenti commerciali con i paesi dell'Eurasia, sviluppando sulla sua strada non solo binari ma veri e propri centri di connessione economici (e diplomatici). Da un primo stanziamento di 40 miliardi di dollari, durante il forum Bri del 2017 è stato annunciato un ulteriore stanziamento di 100 miliardi. Nell'ottobre del 2017 la Bri è stata inclusa nella costituzione cinese. E' considerato il più grande progetto infrastrutturale e di investimenti della storia. Coinvolge al momento 68 paesi e circa il 65% della popolazione mondiale.
Quali sono le rotte della Belt and Road Initiative?
Esistono tre rotte terrestri che creano sei corridoi della Bri. La prima parte dal nord est della Cina e arriva all'Europa continentale e al Baltico passando dall'Asia centrale e dalla Russia. La seconda parte dal nord ovest della Cina e arriva al Golfo Persico e al Mar Mediterraneo passando per l'Asia centrale e occidentale. La terza parte dal sud ovest dalla Cina e arriva all'oceano Indiano passando per l'Indocina. Ci sono poi due rotte marittime. La prima che dal mar Cinese meridionale arriva nel sud del Pacifico. La seconda che invece si dirige verso l'Africa e l'Europa attraverso lo stretto di Malacca. C'è poi il progetto di creare una terza rotta marittima, quella artica, che potrebbe svilupparsi nei prossimi anni grazie allo scioglimento dei ghiacci.
Come è arrivata la Cina alla creazione della Belt and Road?
E' il naturale sviluppo di una politica cinese che si è continuata ad evolvere nel dopo Mao. Nel 1978 Deng Xiaoping lanciò la politica di riforma e di apertura della Cina. I rapporti amichevoli con il mondo occidentale e con gli Stati Uniti erano all'epoca l'unica strada per raggiungere modernizzazione e sviluppo. L'accesso al sistema capitalista ha sì cambiato la Cina ma non ne ha minato la fondamenta. Per dirla in parole povere, dopo la fine della guerra fredda l'Occidente si era illuso che tutti avrebbero sposato il suo modello al cento per cento. La Cina è invece riuscita a diventare una potenza economica mantenendo caratteristiche proprie e non assimilabili al modello uscito "vincitore" (così almeno pensava Fukuyama) dallo scontro tra i due antichi blocchi. Pechino è dunque passata alla fase successiva, vale a dire la proposta di un modello differente. La Belt and Road si pone l'obiettivo di creare un immenso mercato comune Eurasiatico, allo stesso tempo più o meno inconsapevolmente aumentando il peso diplomatico di Pechino lungo la via. Dopo l'integrazione nell'economia globale Xi Jinping è passato alla fase di sviluppo della presenza cinese sulla scena mondiale. Un obiettivo che risponde non tanto a logiche imperialiste quando a necessità interne: risoluzione del nodo della sovraproduzione, diversificazione delle fonti di import di energia, petrolio e gas, accesso a risorse naturali fondamentali per lo sviluppo tecnologico, altro grande obiettivo di Pechino come dimostra il piano Made in China 2025.
Quali sono i paesi coinvolti finora nella Belt and Road?
La lista è lunghissima. Il primo naturale sbocco dell'iniziativa è il Sud Est asiatico, dove la Cina ha realizzato e sta realizzando grandi progetti infrastrutturali in Cambogia, Myanmar, Malesia, Indonesia e Singapore. In Thailandia vorrebbe costruire un canale lungo l'istmo di Kra, il lembo di terra che unisce l'Asia continentale alla Malesia. Questo canale potrebbe cancellare il grande problema cinese dello stretto di Malacca, passaggio obbligato della rotta marittima verso Africa ed Europa. Il Pakistan è forse il paese dove la presenza della Bri è più visibile. Il paese è considerato dalla Cina la porta d'ingresso per l'oceano Indiano ed è qui che sta realizzando il cruciale porto di Gwadar. Importanti anche gli investimenti in Iran. Nelle scorse settimane sono stati chiusi anche importanti accordi con l'Arabia Saudita, con la Cina che al momento dimostra di saper dialogare con entrambi i rivali del Medio Oriente. L'altra direttiva naturale della Belt and Road è l'Asia centrale. Le repubbliche ex sovietiche sono state integrate nel progetto anche (o soprattutto) grazie all'intesa di cooperazione raggiunta con la Russia. Un ruolo particolare è ricoperto dal Kazakistan, considerato da Pechino come cruciale collegamento tra Asia ed Europa. La collaborazione con Astana è molto profonda e si concretizza anche in paesi terzi, come nella Repubblica Democratica del Congo.
Quali sono i fattori più positivi della Bri e invece quelli potenzialmente negativi?
Rispetto all'antica Via della Seta, la Belt and Road riserva un ruolo cruciale anche all'Africa. In Gibuti è stata realizzata la prima base militare cinese permanente all'estero. Nel continente africano gli investimenti cinesi stanno innegabilmente aiutato occupazione e sviluppo. La crescita in Etiopia ha portato tra le altre cose anche alla storica pace con l'Eritrea. La cosiddetta Cinafricanon è limitata alla parte orientale del continente. Pechino è presente con investimenti importanti anche in paesi dell'Africa occidentale come Senegal e Angola. Nei piani ci sarebbe addirittura una linea ferroviaria ad alta velocitàche collegherebbe la costa orientale con quella occidentale, partendo da Gibuti e arrivando in Nigeria o in Camerun. L'Africa è importante per la Cina anche per l'accesso alle risorse naturali e minerarie. L'esempio principale è il cobalto, fondamentale per lo sviluppo tecnologico tra l'altro delle auto elettriche (settore nel quale Pechino vuole diventare leader). Il 54 per cento delle risorse globali di cobalto si trova in Congo. Nel 2018 la Cina ha importato cobalto dal paese africano per un miliardo e 200 mila euro. Tanto per capirci, al secondo posto c'è l'India con 3,2 milioni di euro. La presenza della Cina in Africa ha comunque innestato un processo virtuoso nel quale anche altri paesi, come Arabia Saudita e India, hanno cominciato a investire cifre importanti nel continente, aprendo nuove prospettive economiche e sociali. Per quanto riguarda i potenziali lati negativi della Belt and Road, molti analisti parlano della cosiddetta "trappola del debito". In sostanza, i paesi che ricevono gli investimenti di Pechino si indebitano di cifre che poi non riescono a ripagare. L'esempio più ovvio è quello dello Sri Lanka, isola dell'oceano Indiano che ha dovuto cedere in concessione per 99 anni il suo porto di Hambantota. Un altro nodo è legato ai settori strategici e della sicurezza dei dati. Anche da qui nascono le pressioni degli Usa affinché Huawei sia esclusa dai progetti di sviluppo delle reti 5G.
Quali sono le sfide per la Cina lungo il tragitto della Belt and Road?
La sfida più importante è quella di riuscire a incrementare il proprio soft power. Impresa non sempre facile. Uno degli ostacoli principali, per quanto riguarda l'Asia, è la presenza sempre più rilevante dell'India. Nuova Dehli vede con sospetto i progetti cinesi e, forte di una buona crescita economica e demografica, sta diventando sempre più una barriera all'espansione del Dragone. L'India sta diventando sempre più assertiva nell'area e alcuni suoi paesi "satellite" come Nepal, Bangladesh e Maldive stanno non a caso rivedendo i progetti di cooperazione con la Cina. Anche nell'area del Sud Est c'è qualche malumore. In Malesia, il presidente Mahathir (eletto a sorpresa nel 2018) ha dichiarato che vuole rinegoziare diversi progetti ventilando anche la possibilità di negare visti di residenza a Forest City, smart city innovativa costruita grazie ai soldi di Pechino, salvo fare poi un parziale passo indietro. Anche l'Indonesia mostra qualche segno di insofferenza. Il timore che si sta diffondendo è quello di dipendere troppo dalla Cina. Anche per questo stanno nascendo altri progetti infrastrutturali nell'area. La Thailandia ha creato un fondo regionale con i vicini Cambogia, Laos, Vietnam e Myanmar. E c'è poi il progetto Quad, modello alternativo di investimenti nell'Indo pacifico proposto dall'asse Stati Uniti-India-Giappone-Australia. Regge comunque la collaborazione tra Cina e Giappone in paesi terzi.
Perché gli Stati Uniti sono ostili al progetto?
Gli Stati Uniti avevano pensato di portare anche la Cina nella loro orbita. Era un'illusione. Con Barack Obama in parte, ma soprattutto con Donald Trump, Washington ha individuato in Pechino il proprio principale rivale e nella Belt and Road una minaccia da disinnescare. La guerra commerciale è solo un paravento di un qualcosa di molto più complesso. Anche un eventuale e parziale accordo sui dazi tra Trump e Xi Jinping non metterà fine a un processo nel quale gli apparati statunitensi sono entrati in modalità "nuova guerra fredda". Sì, perché per Washington la Belt and Road non è un semplice progetto infrastrutturale e commerciale ma un progetto geopolitico per sovvertire l'ordine costituito, vale a dire quello dove gli Stati Uniti sono sul tetto gerarchico globale. Gli Usa fanno leva sulle antiche relazioni diplomatiche con il mondo occidentale per impedire l'espansione del modello cinese e per loro firmare il memorandum di adesione ufficiale alla Nuova Via della Seta equivale quasi a una scelta di campo.
Qual è la posizione dell'Europa?
L'Europa è la destinazione naturale delle rotte terrestri della Belt and Road. Nel 2013, anno di inizio del progetto, il commercio Eurasiatico arrivava a 1,8 trilioni di dollari, il doppio del commercio Transpacifico e il triplo di quello Transatlantico. Tra i paesi che hanno già aderito all'iniziativa di Pechino figurano Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania, Estonia, Lettonia, Lituania, Slovenia, Bulgaria, Grecia, Ungheria e Portogallo. Le direttive della Nuova Via della Seta arrivano già nell'Europa continentale tramite i porti del Pireo e di Rotterdam e una interminabile linea ferroviaria che unisce Chongqing a Duisburg, in Germania. L'Europa orientale ha anche creato il gruppo 16+1 che comprende i paesi dell'Est e dei Balcani, insieme ovviamente alla Cina. L'Europa, non in grado di entrare nel grande gioco geopolitico Usa-Cina, ha bisogno degli investimenti cinesi ma allo stesso tempo non può recidere il legame geopolitico con gli Stati Uniti. La sfida è quella di riuscire a influenzare il progetto cinese, modellandolo e adattandolo ai principi di trasparenza e concorrenza e agli standard sociali europei, garantendo allo stesso tempo la sicurezza dei propri settori strategici. Un'impresa molto complessa ma che l'Europa sarà costretta a tentare.
Quale può essere il ruolo dell'Italia?
L'Italia sarebbe il primo Paese del G7 ad aderire ufficialmente alla Belt and Road. Questo potrebbe avvenire durante la visita in Italia del presidente Xi Jinping, prevista tra il 21 e il 23 marzo, oppure al secondo forum sulla Bri che si terrà a Pechino a fine aprile e al quale parteciperà anche il premier Giuseppe Conte, come già aveva fatto il suo predecessore Paolo Gentiloni nel 2017. Secondo Conte, l'accordo sarebbe "un'opportunità per il Paese e per la Ue, l'occasione per introdurre i nostri criteri e standard di sostenibilità finanziaria, economica, ambientale". Insomma, l'Italia potrebbe svolgere quel ruolo di cooperazione e allo stesso tempo di modellamento del progetto cinese, rendendolo più digeribile sul contesto occidentale. Nel miglior caso possibile l'Italia potrebbe aprire la strada a un ruolo anche manageriale dell'Ue e del mondo occidentale nell'ambito della Bri. Un fattore che potrebbe far comodo anche agli Stati Uniti nel lungo termine, ma la cui realizzazione non appare semplice. Gli ambiti di cooperazione previsti tra Italia e Cina riguardano settori come infrastrutture, energia, telecomunicazioni, aviazione civile, e-commerce. Sarebbero coinvolti, tra gli altri, il gigante elettrico di Pechino, la State Grid Corporation, Terna e Leonardo. Un ruolo importante sarebbe ricoperto dal porto di Trieste, con qualche possibilità anche per il porto di Genova. Allo studio anche joint venture tra società cinesi e italiane in paesi terzi come Egitto, Kazakistan e Azerbaijian. Tutti paesi nei quali l'energia riveste un ruolo fondamentale.
Quali sono gli scenari futuri?
Bruno Maçaes, nel suo recente libro "Belt and Road - A Chinese World Order", prefigura quattro scenari. Primo scenario: il mondo occidentale riesce a modellare il progetto cinese secondo il suo sistema, con la Cina che accetta i suoi principi di trasparenza ed engagement e si arriva a un'integrazione pacifica senza conflitti. Secondo scenario: convergenza sulla differenza. La Cina prende il posto degli Stati Uniti come centro politico ed economico globale ma permane la coabitazione con il modello alternativo occidentale. Terzo scenario: scontro tra due visioni diverse del mondo. La Cina non converge e il modello occidentale viene destrutturato e ricostruito secondo quello di Pechino. Quarto scenario: Stati Uniti e Cina non convergono e per trovare una forma di bilanciamento dividono il mondo per sfere di influenza nell'ambito di una nuova guerra fredda. Come andrà? Lo vedremo. Una cosa è certa: qui non si sta parlando solo di accordi economici.
Fonte: srs di LorenzoLamperti, da Affari Italiani del 10 marzo 2019
UNA NUOVA “VIA DELLA SETA” PER IL FUTURO DELL’ITALIA
La firma dell'accordo con la Cina, darebbe al nostro Paese la possibilità di muoversi da attore autorevole sullo scacchiere multipolare, consegnando agli archivi l'appiattimento sulle posizioni dell'unipolarismo statunitense che ne hanno caratterizzato la politica estera dal dopoguerra in poi
Di Ernesto Ferrante
L’Italia non può e non deve perdere la straordinaria opportunità della nuova Via della Seta.
La firma dell’accordo con la Cina, darebbe al nostro Paese la possibilità di muoversi da attore autorevole sullo scacchiere multipolare, consegnando agli archivi l’appiattimento sulle posizioni dell’unipolarismo statunitense che ne hanno caratterizzato la politica estera dal dopoguerra in poi, al netto dei circoscritti e limitati sussulti di Mattei, Moro e Craxi.
Il memorandum con la potenza asiatica non prevede obblighi, ma principi condivisi per l’organizzazione di forme specifiche di cooperazione economica. L’esatto contrario di quel pericolo di “colonizzazione” che gli atlantisti di sangue, di ideologia o confessione paventano.
E’ sfacciato, inaccettabile ed immorale che a vestire i panni degli amici premurosi siano i cantori delle gesta di Washington, Bruxelles, Parigi e Londra, fonti di sventure e disastri economici e geopolitici per l’Italia. Se gli “alleati” sono quelli delle 113 basi militari sul nostro suolo, del Britannia, del pareggio di bilancio nella Costituzione e della sciagura libica, meglio starne alla larga.
Nell’esecutivo gialloverde non mancano gli sbarratori delle porte del treno della Via della Seta, anche se fortunatamente i sottosegretari allo Sviluppo Economico Geraci e ai Trasporti Rixi (entrambi leghisti) e diversi esponenti di peso del M5S (il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano in primis), riescono a far sentire la propria voce con argomentazioni serie, suffragate da dati.
Il negoziato è in dirittura d’arrivo e potrebbe essere firmato durante la visita di Stato del presidente cinese Xi Jinping a Roma (prevista per il 22 e 23 marzo) o a fine aprile, tra il 25 e il 27, quando a Pechino si svolgerà il secondo Forum sulla “Belt and Road Initiative”.
Il nostro sarebbe il primo Paese del G7 a beneficiare dei vantaggi strategici ed economici di quella cintura economica lungo l’antica Via della Seta che aprirà un mercato di tre miliardi di consumatori. “Yi Dai Yi Lu”, in mandarino.
“Una Cintura Una Strada” nella nostra lingua. Una “cintura” di strade, ferrovie per il trasporto delle merci, gasdotti e oleodotti, linee di telecomunicazioni che partendo dalla Cina attraverseranno l’Asia centrale, la Russia, il Medio Oriente per arrivare in Europa. Una “strada” marittima che comincia dai grandi porti di Shanghai e Canton, fa rotta lungo il Mar Cinese meridionale e l’Oceano Indiano, fa tappa in Kenya, risale il Mar Rosso, arriva nel Mediterraneo con uno scalo al Pireo e termina a Venezia.
Sessantasette Paesi hanno già sottoscritto la Belt and Road Initiative. Sono già 13 i Paesi dell’Ue che hanno siglato un memorandum di intesa con la Cina. Si tratta di Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Grecia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Portogallo, Slovacchia e Slovenia. La Cina è il principale partner commerciale di 126 nazioni; gli Stati Uniti di 56.
A chi pende ancora dalle labbra di tromboni da salotti buoni come il politologo Luttwak, secondo il quale “la scelta di stare con la Cina dimostrerebbe che l’Italia si rivela essere ancora una volta provinciale e fuori dai giochi”, è appena il caso di snocciolare qualche numeretto sonante: i progetti cinesi prevedono investimenti per 900 miliardi di dollari nei prossimi 5-10 anni; 502 miliardi in 62 Paesi entro il 2021, secondo i calcoli degli analisti di Credit Suisse.
Il premier Conte, che pare aver colto l’importanza della nuova Via della Seta, faccia il Marco Polo e dia all’Italia la possibilità di esplorare un mondo sconosciuto che si chiama sovranità piena, con la libera scelta delle migliori opzioni strategiche sul piano economico e politico. Nell’esclusivo interesse del popolo italiano.
Fonte: srs di Ernesto Ferrante, da Opinione Pubblica del 13 marzo 2019-03-17