di GUGLIELMO PIOMBINI
Da dove viene, e dove va a finire il denaro pubblico?
Poiché il “pubblico” è un’astrazione che non può pagare o ricevere nulla,
questo denaro esce sempre dalle tasche private di qualche individuo in
carne ed ossa e, gira e rigira, finisce sempre nelle tasche private di qualcun
altro.
Osservando più da vicino il percorso che compie il denaro
pubblico dal suo prelievo fino alla sua destinazione finale ci accorgiamo che il
gettito dello stato proviene dai versamenti effettuati dai contribuenti privati
(aziende, professionisti, individui), a proprio nome o come sostituti
d’imposta; e termina la sua corsa nei conti correnti di due categorie di
persone: una componente fissa di “consumatori di tasse” (il ceto
politico-burocratico) e una componente variabile (tutti coloro che, pur non
facendo parte dell’apparato statale, ricevono pensioni, sussidi o elargizioni
dallo stato).
In concreto lo stato incassa l’intero gettito dal settore
privato, e lo usa per pagare tutti gli stipendi della pubblica
amministrazione. Anche la gente comune dimostra di essere consapevole di questa
situazione quando rivolge al funzionario scortese o inadempiente la frase: “Guardi che sono io che la mantengo con le
mie tasse!”.
I dipendenti dello stato, infatti, pagano le imposte solo
in maniera figurativa, attraverso un artificio contabile, ma in realtà
neanche un euro entra nelle casse dello stato. È ovvio infatti che se la busta
paga di un funzionario statale riporta 40.000 euro di stipendio lordo e 10.000
euro di trattenute, ciò significa che egli riceve dallo stato 30.000 euro e
paga zero di tasse. Lo stato usa la ridicola pantomima di indicare il
lordo e il netto nella busta paga dei propri dipendenti per gettare fumo negli
occhi della gente, allo scopo di far credere che i lavoratori pubblici e quelli
privati siano trattati in maniera uguale, ma le cose non stanno così.
Lo stato, del resto, non potrebbe mai ottenere delle
entrate tassando il settore pubblico, perché questo non produce utili ma
solo perdite enormi, e quindi non c’è nulla da tassare. Se domani tutte le
aziende italiane chiudessero o emigrassero all’estero, le entrate dello stato
scenderebbero ben presto a zero, e non ci sarebbero più soldi per pagare gli
stipendi degli statali. Se invece fosse vero quello che dicono i
dirigenti sindacali – che gli statali e i pensionati pagano le imposte “fino
all’ultimo centesimo” mentre i lavoratori autonomi sono quasi tutti evasori
– allora il governo avrebbe a sua disposizione un metodo infallibile per
debellare definitivamente l’evasione fiscale e risolvere ogni problema di
bilancio: assumere tutte le partite iva come dipendenti pubblici! In
verità se si comportasse in questo modo lo stato fallirebbe dopo pochissimo
tempo, e questo dimostra che gli statali non pagano tasse ma le consumano.
A coloro che non fossero ancora convinti si può porre
questa domanda: pagano più tasse i commessi e i barbieri di Montecitorio
che guadagnano 150.000 euro lordi all’anno, o gli artigiani e i barbieri sotto
casa che pagano il 70 per cento di tasse sui due-tremila euro che riescono a
fatturare ogni mese? Se rispondono che pagano più tasse i commessi e i barbieri
di Montecitorio, allora giungono alla conclusione assurda che lo stato potrebbe
fare il boom di entrate fiscali assumendo tutti i barbieri e tutti gli
artigiani d’Italia. Se invece rispondono che pagano più tasse i barbieri e gli
artigiani privati, allora ammettono che gli statali pagano le tasse solo sulla
carta, cioè per finta.
Chi ci guadagnerebbe dall’abolizione delle imposte?
Poiché i dipendenti pubblici non pagano tasse, un
paese dove tutti i cittadini lavorano per lo stato potrebbe tranquillamente
abolirle senza nessuna conseguenza di rilievo sul bilancio statale.
Il precedente storico esiste, dato che nel 1974 il
regime comunista della Corea del Nord ha abolito ufficialmente tutte le
imposte. L’operazione aveva un fine propagandistico: annunciare al mondo
che “in Corea del Nord il popolo è così fortunato da non dover pagare le
tasse”. In questo modo, tuttavia, i dirigenti politici nord-coreani hanno
involontariamente dimostrato che la partita di giro nella busta paga dei
dipendenti pubblici è in verità una … presa in giro. La decisione infatti ebbe
solo conseguenze formali, dato che le entrate statali rimasero più o meno
invariate. (Qualcuno potrebbe chiedersi da dove provengono allora le entrate
dello stato nordcoreano. Innanzitutto l’intera produzione statale,
per quanto scadente, è di sua proprietà e può venderla ai propri cittadini o
all’estero; i razzi e gli armamenti di produzione nord-coreana hanno infatti un
certo mercato. In secondo luogo esiste un settore privato illegale, ma
tollerato dalle autorità, che in realtà paga tasse al governo. Il regime ha
dovuto infatti accettare obtorto collo queste aperture al settore privato nel
campo agricolo per rimediare alla terribile carestia alimentare degli anni
Novanta, che aveva provocato tre milioni di morti).
Cosa succederebbe se un futuro governo italiano, magari
guidato da Matteo Salvini, decidesse di prendere a modello la Corea del Nord,
e azzerasse le aliquote di tutte le imposte? A causa della natura mista,
pubblico-privata, della nostra economia le conseguenze sarebbero molto diverse
rispetto alla Corea. Alcune categorie di persone ne riceverebbero un vantaggio
palpabile. Tutti i lavoratori autonomi e dipendenti del settore privato infatti
raddoppierebbero o triplicherebbero immediatamente i propri redditi. Ma che
accadrebbe ai dipendenti statali? Anche i loro stipendi lieviterebbero verso
l’alto? I primi a dubitarne, in realtà, sono gli stessi membri del ceto
politico-burocratico, i quali sanno benissimo che una forte riduzione delle
imposte metterebbe a rischio i loro stipendi, i loro vitalizi e le loro
pensioni.
Infatti non occorrono sondaggi approfonditi per scoprire
che gli uomini politici e i burocrati statali rappresentano le categorie più
contrarie alla riduzione delle aliquote fiscali, mentre i lavoratori
privati, soprattutto quelli autonomi, sono in larghissima misura favorevoli.
Viene dunque da chiedersi: si può definire “contribuente” un soggetto che teme
di subire una forte perdita economica da una riduzione delle tasse? Ovviamente
no, e tutto questo rivela che il dibattito sul fisco è viziato da forti dosi di
malafede: molte persone che dicono di “pagare le tasse fino all’ultimo euro” in
cuor loro sanno benissimo che, nella realtà, neanche un centesimo passa dal
loro portafoglio alle casse dello stato, mentre molte migliaia di euro prendono
la strada opposta.
I veri evasori totali
In definitiva, la crescita del numero e dei redditi dei
lavoratori privati fanno aumentare le entrate dello Stato; al contrario, la
crescita del numero e degli stipendi dei lavoratori pubblici fanno aumentare le
uscite dello Stato. L’aumento delle “imposte” a carico degli statali può al
massimo determinare una riduzione della spesa pubblica, ma in nessun caso può
accrescere il gettito dello stato. Si tratta di una pura questione
matematica, sulla quale non c’è nulla da discutere.
Il fatto che i dipendenti pubblici non contribuiscono
alle entrate del bilancio statale non significa necessariamente che
svolgono attività inutili. Se escludiamo i casi più eclatanti di parassitismo
(politicanti, commessi parlamentari, passacarte, forestali, ecc.) in molti casi
i dipendenti pubblici svolgono delle attività in qualche modo utili: si pensi
agli insegnanti, ai medici del servizio sanitario nazionale, ai vigili del
fuoco, agli impiegati delle poste e così via. Il problema è che è
impossibile quantificare la loro effettiva utilità, dato che le loro
retribuzioni non provengono da uno scambio volontario con il cliente o con
l’utente, ma da un’imposizione coattiva. È comunque innegabile che in molti
casi le loro remunerazioni (senza considerare gli altri benefici, come la
stabilità del posto di lavoro) siano completamente fuori dagli standard di
mercato: nessuna impresa privata potrebbe riservare un trattamento così
generoso ai propri dipendenti, senza chiedere in cambio un notevole aumento
della produttività.
Non basta dunque avere un “posto di lavoro” per poter
dire “io pago le tasse”; occorre svolgere un lavoro produttivo. Per questo
è paradossale che i fanatici della lotta all’evasione, dell’obbligo di
scontrino, della delazione fiscale e della criminalizzazione dei lavoratori
autonomi siano in gran maggioranza persone che vivono di risorse pubbliche:
uomini politici, dirigenti ministeriali, burocrati, magistrati, titolari di
pensioni sganciate dai contributi versati e dipendenti statali in genere.
A costoro, ben più che alle partite iva, si addice la
qualifica di “evasori totali”, dato che tutte le imposte a loro carico
(dirette, indirette e contributi) in ultima analisi vengono pagate con i
versamenti fatti dai lavoratori del settore privato. Anzi, sarebbe meglio
parlare di evasori al quadrato, dato che non solo non pagano tasse, ma si
mettono in tasca pure le tasse pagate da altri!
Fonte: da
miglioverde del 2014
Link: http://www.miglioverde.eu/i-dipendenti-pubblici-non-pagano-tasse-dice-matematica/