Piante di tifa, una monocotiledone della famiglia delle Typhaceae.
I nostri progenitori del Paleolitico erano già in grado di trasformare e consumare prodotti derivati dalla raccolta dei vegetali selvatici
Cosa mangiavano i nostri pro genitori del Paleolitico? Di questo tema tanto attuale, per tutte le implicazioni sulla moderna alimentazione e anche sulle sue più comuni disfunzioni, si è occupata di recente la rivista Pnas (Atti dell' Accademia delle Scienze degli Stati Uniti d’America) dove è uscito un nostro articolo – “Thirty thousand-year-old evidence of plant food processing” - dedicato alla paleonutrizione degli uomini anatomicamente moderni.
La scoperta evidenzia per la prima volta che nella dieta di Homo sapiens i carboidrati complessi, sotto forma di farina, giocavano un ruolo importante. I pestelli e la macina ritrovati nei siti preistorici di Bilancino (Mugello, Toscana), Pavlov VI (Moravia, Repubblica Ceca) e Kostenki 16 (Valle del Don, Russia) dimostrano che i nostri progenitori del Paleolitico superiore erano già in grado di trasformare, elaborare e consumare prodotti derivati dalla raccolta dei vegetali selvatici. Cambia cosi lo scenario delle conoscenze sull'economia e la vita di 30.000 anni fa. Molte sono le implicazioni di questa scoperta. Dalla possibilità di conservare e trasportare un alimento altamente energetico, alla elaborazione di ricette, necessarie per rendere digeribili i carboidrati attraverso vari tipi di cottura, fino alla ricostruzione di una complessa gestione delle risorse del territorio.
Tutto è iniziato con lo scavo dell'insediamento preistorico di Bilancino, oggi sommerso da un invaso artificiale che fornisce l'acqua alla città di Firenze. Un gruppo di archeologi ha condotto un intervento di emergenza che ha messo in luce un abitato del Paleolitico superiore perfettamente conservato, relativo a un singolo episodio di frequentazione umana. Sotto i finissimi limi delle alluvioni del vicino fiume Sieve lo scavo ha riportato alla luce l'antica superficie su cui aveva vissuto un gruppo di cacciatori-raccoglitori, permettendo di descrivere una pagina di cronaca quotidiana di 30.000 anni fa. La datazione di questo accampamento, ottenuta con il carbonio radioattivo mediante spettrometria di massa (un metodo che consente di contare direttamente gli isotopi del carbonio) costituisce un elemento di notevole importanza, dato che pochi sono i ritrovamenti di questo periodo (denominato Gravettiano) in Italia.
In questo accampamento stagionale sono stati riportati alla luce oltre 40.000 manufatti scheggiati, due focolari e una serie di pietre, così come erano stati lasciati al momento dell'abbandono dell'accampamento, probabilmente alla fine della stagione estiva. I manufatti litici sono estremamente caratteristici e ripetitivi per forma e dimensioni, mentre i sedimenti e i pollini ricostruiscono un ambiente ai margini di una palude, dove la tifa, un'erba palustre tuttora diffusa, era dominante. Il primo interrogativo che il gruppo di ricercatori si è posto è stato quello di trovare una spiegazione alla quantità e alla ripetitività di un particolare tipo di manufatti chiamati in gergo «bulini di Noailles», Si tratta di strumenti in selce particolarmente sottili e di piccole dimensioni (2-3 cm) difficilmente collegabili alla caccia, la più tradizionale attività economica che comunemente si attribuisce alle popolazioni del Paleolitico (compresa la macellazione, il trattamento delle pelli, fino alla lavorazione dell'osso o delle coma).
In alto (A) macina e macinello trovati nel sito di Bilancino con tracce di usura (nelle foto piccole). Macina e macinello (B) con segni di usura trovati nel sito di Kostenki 16-Uglyanka, sulla riva destra del fiume Don nei pressi di Voronezh, nella Russia meridionale. In basso ricostruzione del sito paleolitico di Bilancino oggi sommerso dalle acque dell'invaso (disegno di Massimo Tosi).
La ricerca di una spiegazione convincente ci ha portato nelle Valli di Comacchio, dove in una situazione ambientale analoga a quella ricostruita per il lago del Bilancino, la vita fino a poco tempo fa si svolgeva attorno allo sfruttamento delle erbe palustri.
Il confronto etnografico è stato determinante: nel Museo Etnografico di Villanova di Bagnacavallo sono conservati degli strumenti in metallo, di forma e dimensioni analoghe a quelle dei bulini di Bilancino, utilizzati per sfrangiare le foglie di tifa per ricavare delle fibre. Le fibre di tifa servivano per produrre corde, contenitori, stuoie ecc. e, assieme ad altre erbe palustri, costituivano un elemento essenziale per l'economia di queste aree fino all'avvento della plastica.
L'ipotesi che anche a Bilancino la vita dell' accampamento ruotasse intorno ad attività di trasformazione delle erbe palustri ha trovato conferma nei residui di origine vegetale individuati sui bulini grazie alle indagini microscopiche delle tracce d'uso e dei residui e all'archeologia sperimentale, una disciplina che studia la riproduzione di tecniche antiche.
Lo scavo, condotto per la Soprintendenza della Toscana da Biancamaria Aranguren, ha anche restituito due strani blocchi di arenaria, che sono stati subito individuati come elementi estranei al sedimento costituito da limi sottilissimi. Di fatto questi ciottoli di arenaria dovevano essere stati introdotti intenzionalmente dall'uomo nell'accampamento preistorico.
Già in fase di scavo le due pietre avevano attirato l'attenzione per la loro forma particolare, tanto che non sono state lavate, conservando intatto il sedimento attorno ai reperti.
Gli studi successivi, grazie alle analisi condotte da Laura Longo sulle tracce d'uso, hanno dimostrato che si tratta di una macina e di un pestello-macinello. I reperti sono stati portati in laboratorio e si è cominciato il lungo lavoro di analisi: la strana forma, l'ipotesi che in quell' accampamento lavorassero la tifa e la scoperta che questa pianta è ben nota in altri continenti (Americhe e Australia) per le sue proprietà alimentari ha spinto le archeologhe ad accettare la sfida di un' ipotesi mai percorsa prima per un' epoca così antica: cercare i residui vegetali che potessero provare un' attività di macinazione. Le analisi archeobotaniche, condotte da Marta Mariotti dell'Università di Firenze, hanno dimostrato la presenza di abbondanti granuli di amido sulla macina e sul macinello, proprio in corrispondenza delle zone consumate dall'uso. La maggior parte di granuli è attribuibile alla tifa.
L'etnografia ci dice che di questa generosa pianta palustre si sfrutta qualsiasi porzione: dal rizoma, ricco di amidi, alle foglie, alla lanugine della tipica infiorescenza marrone. In particolare, il rizoma - raccolto a fine estate - una volta essiccato, si può facilmente macinare, come ha dimostrato la sperimentazione condotta per questo studio.
Le evidenze di questa antica tecnologia, scoperta nel sito del Bilancino, hanno portato a sviluppare un progetto di ricerca che Anna Revedin coordina per l'Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria (Iipp) , con la collaborazione di molti studiosi italiani e stranieri.
Il progetto ha analizzato altri reperti analoghi, provenienti dai siti coevi di Pavlov VI, nella Repubblica Ceca, studiato da Jiri Svoboda, e Kostenki 16-Uglianka nella pianura del Don in Russia, area famosa per aver restituito le veneri preistoriche, capolavori d'arte intagliati nell'avorio delle zanne dei mammuth lanosi. Anche su alcune di queste pietre si notavano tracce di utilizzo, dove veniva esercitata la pressione e operato lo sfregamento dei rizomi e delle radici questa volta di Botrychium, una felce che si trova nei dintorni del fiume Don, come hanno confermato gli studi paleobotanici del gruppo di ricerca coordinato dal russo Andrey Sinitsyn. Al gruppo interdisciplinare si è aggiunto anche un nutrizionista, Emanuele Marconi dell’Università del Molise, le cui analisi confermano l'importante l'apporto dei carboidrati fornito dalla farina di tifa nella dieta prevalentemente carnea di questi nostri antenati.
I tre siti analizzati ricoprono una vasta area geografica dall'Italia centrale, alla Cecoslovacchia e fino alla Russia. Questa tecnologia sembra quindi indipendente dai climi e dagli ambienti diversi nei quali vivevano i primi sapiens europei. Questi sfruttavano una grande varietà di vegetali per la produzione della farina utilizzando differenti porzioni delle varie specie (radici, rizomi, grani e semi).
La farina ottenuta probabilmente era un po' diversa da quelle che si ricavano oggigiorno dai cereali: era ricca di fibre e carboidrati complessi, ma priva di glutine; difficilmente i nostri antenati soffrivano di allergie alimentari.
I rinvenimenti sui reperti di Bilancino, Pavlov e Kostenki di tracce d'uso per la macinazione e di granuli di amido datano a 30.000 anni fa, e quindi rappresentano la più antica testimonianza diretta non solo dell’ uso alimentare delle piante ma soprattutto di una vera e propria ricetta per la preparazione di un cibo di origine vegetale.
L'altro aspetto è che la digestione dei carboidrati complessi - oggi come nel Gravettiano - richiedeva la cottura delle farine ricavate dai vegetali selvatici. E per fare questo le farine dovevano essere mescolate all' acqua ottenendo una specie di galletta: il pane non era molto lontano; forse non proprio un cibo per gourmand ma adatto per appetiti robusti. Gli archeologi hanno voluto sperimentare direttamente la preparazione di un cibo fatto con farina di tifa, raccogliendo i rizomi, seccando li, macinandoli e infine preparando e cuocendo delle gallette di tifa su di un focolare ricostruito come quello scoperto negli scavi di Bilancino, con un risultato di gusto gradevole.
Un dato è certo: questo studio dimostra l'importanza dei carboidrati per una dieta equilibrata anche tra i popoli cacciatori-raccoglitori, si tratta quindi della prova di quanto finora solo ipotizzato. L'uomo del Paleolitico superiore non limitava la sua alimentazione ai soli prodotti della caccia, ma necessariamente introduceva nutrienti di alto valore calorico derivanti dalla trasformazione di vegetali selvatici. A differenza dei Neandertaliani per i quali l'analisi chimica delle ossa ha dimostrato un'alimentazione prevalentemente carnea. Potrebbe essere proprio la dieta più variata una delle ragioni del successo dei sapiens sui neandertaliani?
Le implicazioni di questa scoperta sono sotto molti aspetti rivoluzionarie: per la prima volta l'uomo aveva a disposizione un prodotto elaborato, facilmente conservabile e trasportabile, ad alto contenuto energetico perché ricco di carboidrati complessi, che permetteva di avere maggiore autonomia soprattutto in momenti critici dal punto di vista climatico e ambientale. Inoltre l'abilità tecnica necessaria per la produzione di farina e quindi per preparare un cibo, tipo gallette o una farinata, non risulta più legata allo sfruttamento intensivo dei cereali, iniziato in Medio Oriente con la conseguente nascita dell'agricoltura nel Neolitico, ma era una conoscenza e una pratica già acquisita in Europa da lungo tempo.
Questa ricerca, che coniuga e integra metodologie e approcci molto diversi tra loro, focalizza l'attenzione sul significato che una tale antichità del metabolismo dei carboidrati complessi nell' Uomo anatomicamente moderno può avere.
Infatti è ora chiaro che il processo di adattamento fisiologico, che ha poi permesso di utilizzare in modo sistematico a partire dal Neolitico una dieta mano a mano sempre più glucidica, è iniziato molto tempo prima di quanto ci dicessero le fonti archeologiche finora conosciute. E chissà che il proseguo di questi studi non possa dire una parola anche sui disturbi del metabolismo alimentare oggi riscontrabili in una percentuale significativa della popolazione dei paesi industrializzati. Un altro esempio di come la ricerca di base sia importante perché prodromo a futuri sviluppi e implicazioni anche di applicazione pratica e di miglioramento delle condizioni di vita di oggi.
BIBLIOGRAFIA
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Revedin A., Aranguren B., Becattini R., Longo L., Marconi E., Mariotti Lippi M., Skakun N., SinitsynA., Spiridonova E., Svoboda J., Thirty thousand-year-old evidence ofplant food processing,Pnas, voI. 107, no. 44;18815-18819 (2010).
45. DARWIN. GENNAIO/FEBBRAIO
Fonte: srs di
ANNA REVEDIN, Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria
BIANCARNARIA ARANGUREN, Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana
LAURA LONGO, Università di Siena
Pubblicato da DARWIN, N° 41, gennaio-febbraio 2011