domenica 13 marzo 2011

Bori Carlo: l'ultimo barcaiolo del Po


Carlo Bori e la sua vita sul grande fiume
Quando il sole incomincia ad essere caldo, le rive del Po tra i due ponti della città cominciano a popolarsi di pensionati che, attrezzati di seggiolini, tavolini, carte da gioco e qualche bottiglia di vino, vi trascorrono lungo tempo giocando e raccontandosi il passato: sono i testimoni del tempo. Ricordi edulcorati, ingigantiti, traditi dalla memoria, ovattati dai sentimenti, ma anche veri come quelli della piena del '51. Su tutti si alza una voce velata dall'emozione: «Il livello aveva raggiunto 10,27 metri e non c'era l'argine di oggi, con la barca più grossa trasportavamo circa 15 bovini a volta, li prendevamo dalla cascina Fanfani, sulla sponda lombarda, e li portavamo vicino al cimitero di S. Rocco».
E' "Palei" a raccontare, Carlo Bori classe 1924, il soprannome ereditato dal padre insieme al mestiere di barcaiolo e all'azienda, e continua: «C'erano anche i Pontieri con le chiatte, ogni tanto qualche bestia cadeva in acqua e allora le trascinavano, noi invece avevamo le sponde che proteggevano». Commenti e numeri come fossero di ieri: «il Po era pauroso più del '26 raccontava la gente, quando si era alzato fino agli 8.27 metri, ma allora gli argini quasi non esistevano».
"Palei", piacentino di San Bartolomeo, ultimo traghettatore del Po, ci ricorda il tempo della piazza Bori, un luogo di intensi traffici commerciali: sabbia, ghiaia, legname, pesci e passeggeri. Racconta di papà Paolo che lo aveva iniziato giovanissimo al duro lavoro sul fiume «era il più bello di dieci tra fratelli e sorelle, tanto bello che lo chiamavano il moro di Venezia, nel 1957 è stato premiato con medaglia d'oro dalla Camera di Commercio».
Della mamma Giuseppina Bianchi dice: «Donna forte, quando il papà è andato in guerra ha preso le redini dell'azienda, lavoro e uomini, una ventina, da organizzare, mica c'erano le pari opportunità». Carlo è l'ultimo figlio di otto, dopo 30 anni come barcaiolo (e premiato dai fratelli Schiavi), ne ha lavorati altri 24 nel trasporto ferroviario con la ditta Bertuzzi, infine con la signora Elvira Mazzoni, nello stesso settore. Carlo Bori, l'evoluzione del trasporto a Piacenza, un comparto di cui la città è stata quasi capitale.


L'ultimo barcaiolo del Po
Non è mai tardi per coltivare i sogni: ad 85 anni Carlo Bori sogna di vedere una delle sue ancore esposta ai musei di palazzo Farnese, ne ha ancora tre, reperti di una «flottiglia» che per decenni ha solcato le acque del Po, ora è in secca in un angolo di terra a ridosso della canottieri Nino Bixio. Un tempo era la piazza dove venivano sbarcate tonnellate di sabbia, ghiaia e legname, merci strappate dal fiume con il lavoro di uomini che faticavano di braccia e avevano mani grosse e callose. La storia di Carlo Bori è l'affresco di un secolo segnato da profondi cambiamenti che mai si sono verificati in eguale arco di tempo, attraversato dalle più veloci trasformazioni che mai umanità ne sia stata protagonista, durante il quale la filosofia del lavoro ha trovato nuova identità: alleviare la fatica fisica, aumentare la produzione di beni e migliorare la qualità della vita. Carlo, "Palei", ha visto la luce quando la durata della giornata di lavoro era dall'alba al tramonto, benché nelle fabbriche di mezzo mondo fossero già state conquistate le otto ore.

Quando ha iniziato a lavorare nell'azienda paterna?
«Intorno ai 12 anni, ci ha messi sotto presto il papà, ma a pescare ci andavo già a sei o sette anni, mi alzavo alle quattro per andare col papà, poi tornavo alle otto per andare a scuola e mi addormentavo sui banchi di legno, ricordo ancora i nomi dei maestri: la Simonetta, la Celaschi, e la Musiani e poi il Melotti che è andato a fare la guerra in Abissinia, mi volevano bene e mi lasciavano dormire. Ho fatto le elementari alla Mazzini, fino alla quinta, a quei tempi era anche troppo. La mia famiglia abitava in via San Bartolomeo, di fianco alla fabbrica dei bottoni dell'ingegnere Galletto. Dietro alle case c'era il rio Fodesta dove per Natale "mettevamo in viva" le anguille: le pescavamo in Po poi le lasciavamo nel vivaio fino a quando il prezzo era più alto, le portavamo al mercato coperto, dietro la Borsa».

Che tipo di ditta era quella di suo papà?
«Un'azienda artigiana di barcaioli, l'aveva ereditata dal nonno "Biasei", era stata registrata nel 1904 e negli anni trenta, il periodo più florido, avevamo cinque barche, era la più grande che operava sul Po. Trasportavamo sabbia e ghiaia dall'isolotto Maggi, o da quello dell'Enel, sulla riva piacentina nei pressi della Nino Bixio dove ci aspettavano i carrettieri. Raccoglievamo anche la legna, soprattutto d'inverno e senza pagare dazio, anzi era un lavoro apprezzato perché tenevamo pulito il fiume, mentre d'estate traghettavamo i villeggianti sull'isolotto e poi facevamo un poco di pesca. Usavamo i cordini, la bilancia o la "ligursa", una rete montata su un cerchio di legno. Facevamo di tutto".

Com'erano gli inverni sul Po?
«Rigidi, si formavano candelotti lunghi un metro vicino alle baracche della piazza, ho visto gli alberi del fiume spaccarsi in due, adesso non ci sono più inverni così, si può andare scalzi senza soffrire, ora la neve è solo una "scarugleda". E si continuava a fare ghiaia per "Aquila", il deposito comunale che si trovava di fronte all'attuale Camera del Lavoro in via XXIV Maggio, che poi la distribuiva nelle vie. Fino alla seconda guerra mondiale erano poche le strade di Piacenza asfaltate. Praticamente eravamo sul Po tutto l'anno, anzi d'inverno si lavorava di più: alla foce del Trebbia andavano all'asta i "ballottini", appezzamenti di boschi di salice per farne tronchi da vendere ai viticoltori che li usavano come pali di sostegno nelle vigne. Erano venduti in quantità stabilite dalla consuetudine: singoli cioè la pertica (da non confondere con la misura agraria piacentina Ndr.), a mazzi da cinque, da 10 o da 25, preparavamo anche i "vumal", erano i pali più piccoli usati per i fagioli rampicanti».

E' vero che le barche erano trainate da terra?
«La traversata era sempre a remi, ma quando il Po non aveva ancora l'argine, costruito e rialzato due volte e l'ultima dopo la grande alluvione del 1951, la navigazione veniva aiutata da cavalli o asini che tiravano dalla riva. Sulla barca c'era un palo di 7-8 metri con un anello all'apice nel quale passava la corda legata a poppa e la fune, lunga 30/40 metri era tirata da terra non solo dagli animali ma anche dagli uomini. Si andava scalzi perché le scarpe appesantivano il cammino e si indossava solo camicioni lunghi oltre le ginocchia, sotto si era nudi, senza mutande, perché all'epoca erano "a manica lunga" e impicciavano i movimenti».

A chi apparteneva il terreno della piazza?
«Alle Ferrovie dello Stato, erano proprietarie di molto terreno qui intorno e vi avevano costruito il dopolavoro ferroviario, un edificio in muratura di 30 metri per 15, custodiva anche le barche da corsa «la jole», venivano usate dai dipendenti delle ferrovie. La piazza era tra il ponte ferroviario e la Nino Bixio, all'epoca il ponte aveva una sola linea e aveva le arcate quadrate. L'area era molto grande, la mia famiglia serviva tutta la città, le 5 barche erano immatricolate a Cremona; si chiamavano "magane", erano lunghe tra i 14-20 metri e larghe circa tre, venivano costruite a Pieve Porto Morone, i tabaccai vendevano le cartoline con noi che remavamo sulle nostre barche. Durante la guerra i tedeschi ce le avevano requisite e le avevano portate sulla sponda lombarda, non volevano che fossero usate, ricordo che di fronte alla foce del Trebbia c'erano i carri armati tedeschi seminascosti dalla sabbia, ma si vedevano benissimo la torretta ed il cannone, e poi i bombardamenti, un macello, tutto distrutto».

Com'erano le estati degli anni trenta?
«Belle, l'isolotto era uno spettacolo, una lingua di sabbia bianca, era il nostro mare, la nostra spiaggia, nessuno andava in Trebbia, noi ci trasportavamo i cittadini, dal ponte stradale c'era anche la scala di legno che scendeva direttamente sull'isola, addirittura c'era la carrucola per portare giù le biciclette, quelli di San Rocco se le portavano appresso. Il sabato e la domenica incominciavamo a trasportare passeggeri dalle 10 e alle 18 si riprendeva per il ritorno, fino 10/11 mila persone, un formicaio, c'erano le cabine proprio come al mare, i chioschi per i gelati ma specialmente per le granite. Il Carbonetti portava le cabine, "al Belu" aveva il chiosco delle bevande tenute fresche con i blocchi di ghiaccio fabbricati al macello che venivano grattati, poi una spruzzata, "spinciò", di tamarindo, o altri sciroppi, era una bevanda molto rinfrescante e a buon prezzo. C'erano tantissimi ambulanti: "Sturlo", "Caravagg", il "Soffiantini", Fornasari il "lattei" sempre accompagnato dalla moglie».

Insomma l'isolotto era il luogo di villeggiatura dei piacentini?
«Si, era anche la colonia elioterapica, divertimento e cure, si facevano le sabbiature contro i reumatismi, la sabbia era fantastica, brillava al sole, ora ha cambiato colore, è sporca con i rifiuti che arrivano dai canali lombardi, Lambro, Olona e Seveso. A quei tempi la canottieri Vittorino da Feltre era un piccolo chalet tra i due ponti, dopo il trasferimento nell'attuale sede lo chalet era diventato la colonia padana: al mattino i bambini si trovavano alla casa dei Martiri di piazza Cittadella, poi accompagnati dai maestri, uno si chiamava Campanini, raggiungevano l'ex chalet dove si fermavano per la colazione e dopo li traghettavamo sull'isolotto Maggi, rientravano per il pranzo, e di nuovo il pomeriggio. Il custode dello chalet era Giuseppe Schenardi con sua moglie Alberta Bori, una mia cugina».

Allora si andava in vacanza come oggi?
«A dire la verità c'era "una bohème", una fame inimmaginabile. Molta gente con il "tollone" andava a prendere la minestra alla caserma del Genio Pontieri, credo che i vecchi piacentini non abbiano dimenticato quei tempi, e per fortuna che c'erano le caserme. Il nostro pranzo era in barca, si mangiava un grappolo d'uva, o una mela, con mezza "micca" di pane e bevevamo l'acqua del Po, era limpidissima, la raccoglievamo con la "sissula" (la grossa cucchiaia di legno che si usava per buttare l'acqua fuori dalla barca Ndr.). Il trasporto era pesante, un metro cubo di sabbia è tredici quintali circa, moltiplicato per i metri delle barche, un bel peso! Per fare un metro cubo di sabbia ci volevano dodici barelle, e si lavorava solo di braccia.
C'era una vita intensa sul fiume, oggi vedo raramente navigare, ci sono tanti motoscafi ma li usano poco, costa tanto la miscela. C'erano molte specie di pesce: pesci gatto, cavedani, anguille, volatica, savetta, anche seppie, dal mare risalivano lo storione e qualche cefalo, prima della costruzione della diga dell'isola Serafini, il fiume era ricchissimo, adesso solo balbi, carpe, siluri".

Quando vi siete attrezzati con i motori?
«Abbiamo navigato a remi fino alla seconda guerra mondiale, e qualche hanno dopo, nel 1948, abbiamo cambiato sistema: caricavamo direttamente i camion sulle barche e li trasportavamo sull'isolotto a fare ghiaia, o sabbia, ma con le ruspe, non più a mano. Da bambino avevo visto le barche a vapore del Genio militare, venivano utilizzate solo quando andavano a fare il campo a Venezia. Il primo motoscafo invece dev'essere stato quello del dottor Colli, socio alla Nino, mi pare all'inizio degli anni trenta, ricordo che il dottore mi prendeva a bordo e mi portava a fare i giri lungo il Po, uno spasso, quello si che era uno svago, scivolava velocemente sul pelo dell'acqua e mi sembrava di volare. In quegli anni c'erano tantissime battelline, tra la Nino e la Vittorino almeno una cinquantina».

Ed ora?
«Adesso ho ancora tre barche, una a terra e due in Po, le uso per fare qualche passeggiata o per andare a pesca, curo i miei cani, Royal e Bill, due bretoni da caccia, ma io non sparo, me li hanno regalati. Della piazza mi è rimasto un angolino di terra tra la strada e la Canottieri, ma non pago l'affitto perché quando ho cessato l'attività sono andato dalle Ferrovie, a Bologna, per dichiarare la rinuncia al terreno in favore della Nino Bixio che, praticamente in usufrutto, mi ha concesso questo appezzamento. Anche mio figlio Paolo ha la passione del Po ed ha incominciato a seguirmi da bambino sulle barche, ma lui lavora per la società canottieri, molto meno faticoso».


 Fonte: srs di Maria Vittoria Gazzola,  da Liberta del  06/02/2006

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