A Cremona, nel Sessantatre, mio fratello aveva
preso la buona abitudine d’andare con i suoi amici, un po’ prima delle venti, a
bersi l’aperitivo sotto la Galleria XXV Aprile presso il caffè Moka.
Nonostante il posto fosse solo un budello con un
bancone sulla sinistra, con una lunga specchiera alla parete e con mensole
che reggevano bottiglie, era diventato un locale alla moda. Sembrava che
non ci fosse niente di meglio in tutta la città.
In fondo a questo banco, a foggia di elle maiuscola,
sul lato minore era disposta la macchina del caffè che non mostrava al
pubblico, come avviene al giorno d’oggi, beccucci e manovelle, ma il
lato opposto, dove faceva bella mostra il designer del costruttore.
A quei tempi, il vino non era un gran che. Per noi
Cremonesi non c’era altro che Malvasia piacentina, un bianco leggermente
frizzante e un po' amabile. Qualcosa di meglio era il Carpenè Malvolti e il
Montelera della Martini, più pregiati di questi veniva solo lo champagne.
Non servivano il bianco fermo oppure il vino rosso come s'usava nelle osterie,
e non era ancora di moda lo spritz all’Aperol, anche se devo confessare che
qualcuno prendeva già dello sprizzato semplice oppure corretto con Campari
o Cynar. Quel locale poi era famoso per il bitter Campari con selz servito in
bicchieri ghiacciati. Scusate se trascuro gli analcolici, ma con loro non ho
mai avuto buoni rapporti.
Mio fratello inforcava la bici e, pedalando lungo
Corso Garibaldi e Corso Campi, andava a trastullarsi in quel locale. Lì,
s’incontrava con i suoi amici: Pancino, Bigio Piacenza, Beppe Pigoli e
un altro paio di allegri festaioli di cui ho perso il ricordo. Evitavo il
locale perché lo trovavo pericoloso: infatti, un giorno che risposi con un
cenno del capo a uno dei frequentatori che anch’io ci stavo, mi vidi recapitare
da mio fratello, ora non ricordo bene, se un quaranta o un cinquantamila lire.
Avevo partecipato, senza volerlo, a una scommessa calcistica fatta da un
celebre avvocato cittadino che aveva una gran fede ma poca testa. La
Cremonese aveva perso quattro o cinque goal a zero e io avevo preso il premio.
Se avesse vinto la nostra squadra, sarei finito in rovina solo per aver
detto che ci stavo, pensando a un annuncio funebre o al contributo per qualche
piccolo omaggio di riconoscenza, e non per diecimila lire a goal.
Che non crediate che le ”happy hours” siano nate
solo adesso? Ci sono sempre state. Una volta festeggiavano solo i più
ricchi: cominciarono gli antichi Romani, poi si passò ai nobili e ai re nei
loro castelli medioevali, e dalle locande del Rinascimento si arrivò ai
caffè dei primi Novecento. Al giorno d'oggi, senza essere artisti
squattrinati, festeggiano anche quelli che non ce la fanno ad
arrivare alla fine del mese. E hanno ragione! Per quel che offre la vita, val
la pena divertirsi. Le ore felici devono appartenere a tutti quanti. Proporrò
di votare un referendum perché diventino "Patrimonio
dell’Umanità".
A parte gli scherzi, una volta non si vedeva gente
bere in strada perché nei locali non c’è posto a sufficienza, e non si
vedevano neppure donne andare e venire dai locali. Le ragazze non entravano da
sole nei bar. Se poi erano carine, non avrebbero avuto scampo: sarebbero
state assalite dai complimenti e costrette a contrarre nuove amicizie. Una sola
andava e veniva impunemente in quel bar: era soprannominata Mani Di Fata.
Sì, sì! avete capito benissimo. Era bravissima nel far le
seghe(1), anzi, non c'era di meglio.
Voi adesso non mi credete se racconto che non le
faceva a un solo ragazzo e in angoli appartati o in macchina, ma nel bar
stesso. Le faceva poi a tutti, anche a due alla volta, e con più il locale era
affollato, meglio venivano, le seghe s’intende.
Magrolina, capelli ricci, gambe diritte, seno piccolo
e sodo, sul metro e sessanta; non era una bellezza, ma non era neanche da
buttar via. I ragazzi si mettevano in fondo dove c’era la macchina del caffè,
la circondavano e, mentre uno si sacrificava a far da palo, lei infilava le sue
manine nei calzoni e dava inizio a massaggi erotici che facevano strabuzzare e
inumidire gli occhi. I ragazzi erano sempre pronti con fazzoletti di cotone e,
nei momenti d’estasi, l’attiravano a sé, dandole a volte qualche bacio in
fronte o prendendola per i riccioli.
Ecco, ora capite perché all’inizio del racconto
ho usato il termine "trastullarsi".
Gli avventori non s’accorgevano di nulla. Solo il
cameriere più anziano intuiva qualcosa, forse pensava che la palpassero un
poco, mai si sarebbe immaginato quel che facevano.
Dalle espressioni dei volti degli amici di mio
fratello si poteva intuire la presenza o l’assenza della ragazza, se poi
mancava da qualche giorno, ne leggevi la disperazione. Purtroppo, i bei giorni
prima o poi hanno una fine. Arrivò il giorno in cui Mani Di Fata annunciò
d’essere incinta. Non aveva saputo reggere alla voglia di allargare le gambe, e
c’era rimasta.
Dopo un mese di lutto, i giovani trovarono una
sostituta, ma non resse. A forza di cercare ne trovarono un’altra, ma mamma
mia! che fatica per addestrarla e per farle passare la paura. E poi, non c’era
confronto con la delicatezza e il tocco di Mani Di Fata. Sembrava che queste
nuove novizie prendessero in mano un bastone e non un oggetto sacro. Lo
facevano sforzandosi e non con la maestria e l’entusiasmo di Mani Di Fata. C'è
poco da scherzare: anche questa è un’arte, o la si ha nel sangue o non la si
ha. Si può imparare tutto ciò che si vuole nella vita, e avere anche
i migliori maestri del mondo, ma per arrivare a certi livelli, oltre
all'impegno ci vuole una gran passione, e, a volte, non basta neppure
quella.
Per anni rimpiansero quelle ore felici.
(1) Masturbazioni maschili.
Fonte: srs di Enzo Monti del 13 luglio 2013
Nessun commento:
Posta un commento