Anni fa, avevo scritto un racconto su Luciano
Pelizzari, un pittore che a quei tempi viveva in un paio di locali che
s’affacciano su Piazza Delle Erbe qui a Verona. Mario Miollo, altro amico
pittore che bazzicavo ancor prima di Luciano, mi fece una imbarazzante scenata
di gelosia. Per mettere le cose a posto, dovetti scrivere anche su Mario
qualche riga che poi pubblicai nel mio primo libro “ Il maestro della leggenda
di Sant’Anastasia”. Ma questo non fu l’unico caso.
Un giorno, venne da me un signore distinto con
cui avevo fatto qualche chiacchiera, venduto forse qualche occhiale, e nulla
più. S'appoggiò al banco di vendita e davanti a una coppia di clienti :
- Ah, son proprio contento!... Caro Monti, giorni fa
ero ad Ascot alla corsa dei cavalli quando il Duca di Kent, che è
mio amico da vecchia data, pieno d’orgoglio mi ha mostrato uno scritto che
aveva ricevuto qui a Verona qualche mese prima. Glielo avevano dato come
omaggio avendo consegnato alla nostra città, da parte dell’Unesco, il
riconoscimento di “Patrimonio dell’Umanità”. Non dirmi che non ne conosci
l’autore? ... Di me, che ti conosco da una vita, non hai mai scritto niente;
arriva uno che non hai mai visto e gli dedichi una poesia. Son proprio contento
... Eh, sì! son proprio contento! - e amareggiato uscì.
Non feci tempo a spiegargli che era una
composizione in rima tra il panegirico e una lettera di ringraziamento. Che ero
stato costretto a scriverla per accontentare il mio amico Guido, gestore del
Caffè Dante, dove si era tenuto un pranzo ufficiale, e che i Duchi di Kent li
avevo visti solo al ristorante.
E adesso, cari amici, non voglio sentir altre storie!
Siete in tanti, forse in troppi a volermi bene, e di questo vi ringrazio;
ma per riconoscenza, non posso consumare la mia vita a scrivere qualche
rigo su ciascuno di voi. Però non è questa la questione, purtroppo c’è anche il
fatto che, per distrazione, potrei dimenticarne qualcuno, e non vorrei quindi
che qualche povero diavolo si offendesse e passasse al nemico.
Detto questo, vi parlerò ora del mio amico
Sperangelo.
L’amicizia, come l’amore, nascono spontaneamente
e la loro genesi ci è ignota, anche se qualcuno trova che l’essere affini
o completamente diversi sono motivi d’unione. Ora, anche nelle diversità c’è
sempre un qualcosa che lega, e che sfugge anche al più attento ed esperto
ricercatore. Nel nostro caso, ciò che ci accumunava era forse l’avversione alla
stupidità. Non ricordo in che occasione lo conobbi, so solo che simpatizzammo
al primo incontro, e via via ci affiatammo. Conquistava con il sorriso, mentre
il sottoscritto possedeva l’aggancio facile con le fanciulle. Senza soffrir di
satiriasi, era un falchetto con le sue prede. Mentre io, nonostante la batosta
infertami da Enrica, da povero ingenuo cercavo ancora l’amore con la lettera
maiuscola. Tra i difetti e le qualità che ci legavano c’erano la gran volontà
di non studiare, quella di chiedere sempre aiuto al borsellino della propria
madre, e la capacità, che non è da tutti, di saper condividere anche i silenzi.
Molto più bello di me, mentre io lo ero solo per
la mia mamma, e più giovane di quattro anni era iscritto all’Università di
Torino in Medicina. Ormai è passato tanto di quel tempo che posso
tranquillamente scriverlo che prendeva sì il treno per Torino, ma che si
fermava da me a Pavia; e questo lo fece per un paio d’anni, come per un paio
d’anni passammo le vacanze estive battendo la Riviera Romagnola. Quasi ogni
sera poi, se eravamo a Cremona, si partiva in automobile e si perlustrava la provincia
passando da una cascina all’altra dove ci attendevano dolci fanciulle felici di
ospitarci. Ora però vi chiederete: come mai la nostra corrispondenza finì? Fu trafitto da un amore più grande: s'innamorò
d'una gran bella donna.
Mentre in vacanza ci andavamo con la mia
Cinquecento, per tutti gli altri spostamenti si usciva con la sua R8. I suoi
erano in apprensione a mandarlo in giro: aveva il piede troppo incollato
sull’acceleratore. Sperangelo aveva tappezzato l’auto di strisce, ne aveva fatto
ritoccare il motore, l’aveva munita di marmitte e di fanali supplementari, di
trombe, insomma: l’aveva rivestita dell’aria cattiva delle macchine truccate
come se dovesse partecipare a qualche rally. Tutta robaccia che andava di moda
dopo la metà degli anni Sessanta.
Si partiva dal bar alle ventuno e trenta tra la
rabbia e l’invidia degli amici che volevano sapere dove s’andava a quell’ora. E
noi volavamo cantando a squarciagola dalle nostre amiche, accolti, nella
maggior parte dei casi, da pane e salame innaffiato da buon vino. Per fortuna,
i padri delle ragazze non c’erano mai, e se ci fossero anche stati, si
sarebbero ritirati in qualche altra stanza a guardare la televisione per non
mostrare i loro musi ingrugniti. Le madri invece, oltre a riceverci con sorrisi
che arrivavano alle orecchie, ci aprivano le madie e le cantine con la
proverbiale generosità della gente di campagna. Ci adoravano più delle loro
figlie; e chissà che ponti d’oro ci avrebbero fatto, se uno di noi se le fosse
portate via. E noi, da bravi ruffiani, queste brave mammine ce le indoravamo e
le coprivamo di calorosi complimenti.
Tra queste amiche così ospitali, oltre a Franca e
alle sorelle Scalvini e Guarneri, annoveravamo Giuseppina che frequentava
Biologia a Pavia. Sul metro e sessantacinque, ben fatta, ma soprattutto
soda e tornita a tal punto che, quando l’abbracciavo, mi sentivo pungere
il costato. Un vero peccato che avesse l'aria campagnola.
I suoi possedevano una cascina nei pressi della Costa
a circa 8 km dalla città. Una sera, verso le ventidue, capitammo senza
preavviso nella sua corte e, attraversate le aie, frenammo davanti alla porta
di casa. Ma caspita! il portale era in gramaglie. Si smise di cantare e ci
guardammo negli occhi senza fiatare. Non solo con i nemici, ma anche con gli
amici basta un solo sguardo per intenderci. Non si poteva far marcia indietro:
il rombo della macchina aveva svegliato anche le mucche nelle stalle, e poi lei
s’era già affacciata sulla porta. Sperangelo smontò per primo dall’auto, le andò
in contro e, dopo averla abbracciata, senza sapere chi fosse morto, in
tono sommesso e commosso:
- Abbiamo sentito la triste notizia e ci siamo
precipitati.
Sì, sì! Mi aveva battuto sul tempo. E i nostri cari
amici dicevano che eravamo un po’ indietro per il fatto che la tenevamo un po’
troppo lunga all’università.
Come finì? È facile da immaginare: dopo qualche
preghiera davanti alla bara della nonna, terminammo la serata in cucina come
tutte le altre volte.
Fonte: srs di
Enzo Monti del 29 agosto 2018
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