George Moor…. Meglio un brutto scherzo che nessuna battuta
Ahi, ahi, ho sbagliato tutto!
Mah! Se il racconto è diventato triste, forse
avrò commesso qualche errore. Letto e riletto parecchie volte, devo
ammettere che nella trama c’è solo l’ombra preoccupata di una madre per la
figlia. Una vicenda, tutto sommato, dove non c’è un filo di sofferenza. Ma
forse già una piccola preoccupazione è già un affanno, anche se non è un vero e
proprio dolore, un dolore fisico, intendo. Pur sapendo che il morale sale e
scende con l'intolleranza al dolore e n'è strettamente connesso, sono però i
pensieri a procurare i guai più grossi.
Siamo alle solite. Mi perdo in certe considerazioni
che non sanno proprio di niente. Se le risolvessi? Otterrei almeno il
consenso di chi mi ascolta, invece di impastocchiare il discorso e non riuscire
a venirne a capo. L’intero pensiero, forse fragile e quasi folle, può sembrare
a mala pena definito anziché d’essere completo.
Ma queste parole sono mie o le ho lette da qualche
altra parte? Ah, m’ingarbuglio troppo! È meglio lasciar perdere! Invecchiando
non so più quel che mi dico.
Ma che m'importa da dove viene la tristezza? Da una
preoccupazione, un rimprovero, un dolore fisico, un insuccesso, una
delusione? A volte si è tristi e non si sa il perché. So che mi
deprime a tal punto che mi par di morire, anche se a volte ha ancora il gusto
del riso, come dice Prévert. Se mi capita di cader vittima di una
sofferenza fisica mi avvilisco per il semplice motivo che, in quello stato
di malessere, non mi riesce di leggere, di studiare o scrivere
qualcosa. In fin dei conti, è solo il rammarico per il tempo perduto.
Forse la tristezza del mio racconto non sta affatto
nello sviluppo della vicenda, ma piuttosto nella battuta finale. Ma come ho
fatto a non accorgermene? Probabilmente è stata una risposta amara e non
affatto spiritosa, se non addirittura brutale, data in un momento di
rabbia da chi t'aspetti che sia più sensibile alle nostre
preoccupazioni.
Eppure, in un primo momento, mi sembrava che avesse un
certo grado di comicità e che, parlando di uccelli, di quelli che non volano e
che non cantano, ci fosse una certa dose di spirito e d’allegria. È l’allegria
che ci dà vita e ci tiene in vita. Ne so qualcosa. Ho studiato in allegria:
cioè ho studiato poco. Ho vissuto in allegria: ho speso tutto quello che ho
guadagnato. Non ho mancato a una festa o a una cena, e sono sempre stato
l’ultimo ad abbandonare la compagnia. Potevo forse far di più? Forse sì!
Prendere una barca, navigare tra le nuvole, vogare verso l'immensità,
l'infinito. Ma i sogni purtroppo non sono di questo mondo!
Ma ritorniamo al racconto. Posso perfino correggerlo e
dargli uno svolgimento diverso, posso cambiare i protagonisti. Ah, non c’è
niente da fare! In qualunque modo lo giri e rigiri non cambia. Il finale
rattrista. Ritoccandolo, limandolo, rendendolo più nobile o più becero, non
riesco a farne scaturire qualcosa di allegro. Se poi lo cambio
troppo, non è più lo stesso racconto. Metterci mano dando una patina meno
cruda al finale, perde sapore. Cosa fare? Cedere davanti all’ineluttabile? Mi
secca. Negli scritti non ho mai evitato gli ostacoli, anzi, ho sempre cercato
di superarli. Forse in un modo poco ortodosso, ma non mi sono mai arreso. Il
racconto potrebbe essere anche buono, ma è fuori dai miei programmi: il sorriso
che muove è solo amaro.
Che abbia bisogno di tempo per riflettere? Di
sospendere per un attimo e poi riprendere la narrazione in un momento più
propizio quando l’inventiva riparte da zero e s’accende come fiamma, oppure con
ali ai piedi vola più in alto? Capisco che il compito sia difficile e che
la strada sia poco agevole e tortuosa, ma non vorrei darmi per
vinto.
Io scrivo e scrivo; ma voi, cari lettori, mi state
seguendo? Credete forse che vi abbia preso in giro? Non è una burla, neppure un
gioco o un capriccio come spesso viene considerato in arte. Non sono così
vanitoso da poterlo confrontare con un elziviro. E anche se fosse
qualcos'altro, che importanza ha? Sappiate che non l’ho fatto con
intenzione, m’è scappata di mano la penna e sono arrivate tante e tante parole
che non ci sto più dietro. Ho le idee confuse e, a volte, sono più a asciutto
d’un bicchiere vuoto. Ma per cortesia: non lamentatevi! se non sono stato
chiaro e non vi ho svelato completamente l’arcano. Ho fatto più o meno
come gli autori dei libri gialli che, di tanto in tanto, ci danno qualche
spunto per farci continuare a leggere, mentre noi lettori, e mi ci metto
anch'io, speriamo sempre di trovare qualche indizio che ci dia la possibilità
di sbrogliare la matassa. Vogliamo capirci qualcosa pur sapendo che l’autore,
con astuzia e arte, cerca di portarci fuori strada, facendo cadere i sospetti
su personaggi che alla fine saranno innocenti.
Forse mi mancano doti eccellenti per la speculazione,
oppure ho perso l'ispirazione. Non sarò mai all'altezza d'un Fellini in Otto e
Mezzo, e poi, anche se lo fossi, mi mancherebbe l'afflato di quella
pellicola. E c'è dell'altro, non possiedo l'intelligenza, cultura, le singolari
capacità di un Hermann Hesse. Non saprei costruirvi “Il gioco
delle perle di vetro", dove le regole non vengono mai spiegate e
l’incontro tra teoria e pratica, corpo e anima o qual altro sono il tema del
romanzo. Non sono un colto autore, scrivo solo brevi racconti picareschi e poco
impegnativi senza pretendere d’andar oltre.
Beh, non è andata poi male del tutto, invece d’un
racconto ne avete letto un altro; forse non così piacevole e allegro
come doveva essere nelle mie intenzioni. Probabilmente non è un
vera storiella, ma soltanto una semplice chiacchierata, e che forse non
valeva la pena di tirarla tanto per le lunghe. Scusate ancora se, giunti a
questo punto, non ho saputo far meglio. Siate comprensivi: non condannatemi! Vi
ricordo ciò che disse George Moore: “Better a bad joke than no
joke”.
Fonte: srs di
Enzo Monti del 18 agosto 2013
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