Ho avuto una gran mamma. E che nessuno si sogni di dirmi
adesso che la sua è stata più grande della mia. Di Margherita, chiamata Rita,
potrei raccontarne tante da riempire più d'un libro, ma tempo e spazio mi
consigliano di limitarmi solo a un breve compendio.
Piccola di statura, con le gambe storte, con capelli
corvini e ricci di cui ne andava fiera, nonostante avesse un viso
dai lineamenti marcati era riuscita a farsi sposare da mio padre che passava
per un bell’uomo. In casa erano in sette fratelli: cinque femmine e due
maschi. Perdiana, che allegria! Un giorno mi capitò di vederne quattro di
queste cinque, parlavano tutte in una volta, e quel che mi stupì, fu che
si capissero.
Ancora bambina, dopo la terza elementare aveva inforcato la bici e ogni mattina portava il pane nelle cascine vicine al paese. Era soprannominata la Fornarina(1) e, macinando chilometri e chilometri su strade piene di polvere e fango, portava, oltre al pane, un po’ d’aria fresca nella dura vita dei contadini di allora. In tavola, se il tempo non permetteva, i contadini si accontentavano della polenta.
Al ritorno, andava a dar una mano nella trattoria di famiglia. Mio nonno, oltre a essere fornaio, gestiva, aiutato da moglie, figli e dipendenti, una trattoria che a mezzogiorno dava da mangiare a un centinaio di lavoratori delle filande. Un piatto caldo o panini con il salame oltre al bicchier di vino. Un pasto che poi la gente integrava con qualcos'altro che si portava da casa per non spendere.
Nel Ventinove, il grande freddo aveva fatto scoppiare
i vetri dei capannoni mandando in rovina i salumi d’un centinaio di maiali. Li
salvò dalla malora Pietro Negroni, il proprietario dell’omonimo salumificio di
Cremona, che diede, a debito e a tasso d’interesse zero, tutti i salumi
sufficienti a tirare avanti. Un anno veramente catastrofico, oltre alla perdita
dei salami, il vino prese i fiori.
La tabaccheria
La tabaccheria
Nata nel commercio, si sentiva soffocare dalla
vita solitaria della campagna. Tanto fece che convinse mio padre, che
conduceva una fattoria a San Giovanni in Croce, ad aprire una salumeria a
Parma. Ma papà stava a bere e a studiare con gli universitari che volevano che
s'iscrivesse a Medicina. In tali condizioni, chiusero bottega dopo un paio
d'anni. Nel Quaranta arrivarono a Cremona, e comprarono la tabaccheria
sull’angolo di Via Volturno. Fu la nostra fortuna.
Chiacchierona e pettegola, raccontava frottole
spergiurando di odiare le bugie. Disprezzava gli scherzi pur facendone di
quelli tremendi.
Paventando la miseria, amante del denaro e sparagnina, avrebbe venduto anche quello che non aveva. L’abilità nel vendere e nel darla a bere alla gente le erano ampiamente riconosciute. Mi ha lasciato in eredità, oltre al ricordo dei suoi baci e a qualche soldino, l’abilità di distinguere il signore dal pitocco, l’avaro dal prodigo, e, quel che più vale, la chiaroveggenza di saper prevedere chi ti vuol imbrogliare o chi ti pianterà il chiodo, che in commercio non sono doti da poco.
Alla morte di mio padre, nel Sessantuno, si assunse la responsabilità di mantenere me e mio fratello, di un anno e mezzo più giovane, e di indurci a finire gli studi all’università.
Per evitarci i pericoli della strada oppure di
prendere vie sbagliate, ma soprattutto per tenerci sottocchio, invitava spesso
a cena i nostri amici. Per l’assenza d’un padre-padrone, la nostra
casa era diventata la più ospitale di tutta la città. E non solo. Per l’amore
di vederci anche accasati invitava pure alcune ragazze che frequentavano
il negozio di tabaccheria o quello di ottica. Naturalmente, la sua scelta
cadeva sulle ricche, quelle i cui padri avevano campi oppure floride aziende
commerciali. Non si sarebbe mai sognata d’invitare la figlia d’un ortolano o
d’un ciabattino. Povere ragazze! Le malcapitate arrivavano a cena con il
sorriso e con torte megagalattiche. Finito di sbafare il dolce, io e Vito ci
alzavamo da tavola, educatamente prendevamo commiato e andavamo per i fatti
nostri.
Il giorno dopo era tutta una lagna: la sentivamo
mugugnare:
- O Signur, che fighura! Ma Dio, che fighura!...I ma’ piantà lè con quela povera putela, ma cosa pudiva raccontarle?... Gho propria per fioi du mascalson -. Oppure - Cuma se fa a tratar mal na fiola cusì carina. Ma cosa vulì de più?... O Signur, che vergugna (2)!
- O Signur, che fighura! Ma Dio, che fighura!...I ma’ piantà lè con quela povera putela, ma cosa pudiva raccontarle?... Gho propria per fioi du mascalson -. Oppure - Cuma se fa a tratar mal na fiola cusì carina. Ma cosa vulì de più?... O Signur, che vergugna (2)!
Povera mamma! Eppure, dopo qualche giorno le passava
il muso e ritornava sulle sue, come se niente fosse. Oh, non è che ci facesse
tanta pena. Se le capitava l'occasione, ce le ritornava, e anche con gli
interessi. Ah, non mi credete? E allora sentite questa.
Nel Sessantaquattro, avevo ricevuto l’incarico annuale
d’insegnare Matematica e Fisica all’istituto Ala Ponzone di Cremona; per
festeggiare l’incarico, assieme a un collega organizzammo una cena con due nuove
insegnanti neolaureate dello stesso istituto. Per non vederlo piangere, ci
dividemmo il compito: io avrei rivolto le mie attenzioni a quella meno bella
valutandola la più facile. Usammo la sua auto: più comoda e più ampia
della mia Cinquecento.
Arrivò puntualmente alle diciannove davanti al negozio di ottica sull’angolo di Via Bertesi. Era stata una bellissima giornata di metà ottobre. Il tepore calava con il sole e già le vetrine risplendevano delle prime luci. Tutto portava a credere che sarebbe stata una serata magnifica, perfino i passanti per Corso Garibaldi sembravano più allegri.
Il mio amico fermò il suo Maggiolino proprio davanti all’ingresso del negozio e diede un delicato colpo di claxon. Come uscii, mia madre mi passò davanti e rivolse la sua attenzione alle ragazze sedute sui sedili posteriori facendomi la più bella presentazione che io abbia ricevuto.
Scura in viso e a voce alta:
- Chèst chi l’è semper andà a troie (3).
Secondo voi: c’è forse di meglio come inizio di serata?
Cari lettori, scusate la digressione, ma quando
parlo di mia madre mi faccio prendere la mano e non la smetto più,
mentre il vero scopo del racconto è quello di narrarvi quando mamma di
notte gridò all’uomo visto in strada: - T’ho vist (4)!
Abitavamo a Cremona al n° 62 di Via Volturno,
nell’appartamento al primo piano, quello che s’affaccia sull’angolo di Via
Volturno con Via Garibotti. A quei tempi, le trasmissioni televisive
terminavano a mezzanotte; e se mamma non aveva sonno, o s’incantava davanti ai
pesciolini dell’acquario o si metteva davanti alla finestra del bagno ad
aspettare il nostro rientro. Con le tapparelle abbassate passava ore e ore
guardando giù in strada, e chissà quali pensieri le passavano per la testa.
Pensava forse al futuro oppure ritornava ai tempi passati, chi lo sa. Raramente
la trovavamo nel suo letto.
Durante queste attese, s'accorse che ogni tanto alle
due usciva dal cancello della nostra casa un uomo alto che portava un cappello
a tesa larga e che non aveva l’aspetto d’un condomino. Si arrestava davanti
alla porta e si guardava attorno con l'aria sospetta prima d'incamminarsi.
Prestò più attenzione e verificò che le uscite avvenivano di solito al
mercoledì e al venerdì.
Con chi se la faceva quel benedetto uomo? Mica andava da
una sorella o da una semplice amica. E chi era la donna del condominio che
sgarrava?
Eh, la curiosità è come il prurito! Se non ti gratti
non ti passa.
Una notte, mentre l’uomo misterioso le passava
sotto alla finestra, lei gridò: - T’ho vist!
Lo sconosciuto s’arrestò, si voltò, alzò il capo e la
falda del cappello mettendo in luce il viso. Mia madre lo riconobbe. Mamma
trattenne il fiato e si ritirò di quel poco in modo da non esser scorta. Come
l’uomo riprese il suo cammino, non seppe resistere, e di nuovo gli gridò:
- T’ho vist!
(1) Piccola fornaia.
(2) Ma Dio che figura! Mi hanno lasciato lì con quella povera ragazza, ma cosa poteva raccontarle?
Ho proprio per figli due mascalzoni. Ma come si fa a trattare una ragazza così carina. Ma cosa volete di più? O Signore, che vergogna!
(3) Questo qui è sempre andato a puttane.
(4) Ti ho visto!
(2) Ma Dio che figura! Mi hanno lasciato lì con quella povera ragazza, ma cosa poteva raccontarle?
Ho proprio per figli due mascalzoni. Ma come si fa a trattare una ragazza così carina. Ma cosa volete di più? O Signore, che vergogna!
(3) Questo qui è sempre andato a puttane.
(4) Ti ho visto!
P.S. Per un fattore estetico il
racconto sarebbe terminato qui, ma i lettori sono come i beoni : vogliono
sempre l’ultimo goccio. Ma sì! per questa volta, accontentiamoli!
Si seppe che quel signore non smise affatto
di fare le sue visite, cambiò percorso: entrava e usciva da uno dei due
cancelli dei garage. Al contrario, la signora compiacente non fu mai
individuata, c’era il sospetto ma non la certezza. Che nel condominio ce ne
fossero più d’una?
Fonte: srs di Enzo Monti del 21 giugno 2013
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