Verona. Vicolo cieco Pozza
Dopo Corticella San Paolo, sempre a Verona, andai ad
abitare in Vicolo Cieco Pozza al numero civico 9. E vi rimasi per venticinque
anni.
A destra del piccolo cortile e sotto a una monofora
con colonnine e arco a tutto sesto, si entra in casa. Attraverso un portone in
ferro, che dalla metà altezza in su presenta piccoli rettangoli in vetro
smerigliato, prende luce questo androne di tre metri e mezzo per
sette. Un posto ideale per le bici dei miei figli e dei
loro amici (un giorno ne contai ben otto). Oltre alle bici e alla legna da
ardere, veniva sfruttato anche come deposito per gli amplificatori
musicali. Sulla destra, si sale per due rampe di scale e, dopo una porta che
poteva andar giù con una sola spallata, si entra nell’appartamento vero e
proprio.
Una casa grande caratterizzata da una vasta cucina con
caminetto e da un salone con alti soffitti e travi a vista di oltre settanta
metri quadrati. Lasciai quella abitazione tre anni fa perché le spese per il
riscaldamento, senza per altro che ci fosse mai tanto caldo, erano una
disperazione. Inoltre, per due persone sole era diventata troppo grande.
Una casa di fine Quattrocento fatta di mattoni e di
sassi, che appartiene ai Conti Liorsi e che era ammirata da tutti quelli che mi
venivano a trovare. Nonostante gli ospiti e gli amici ne rimanessero
entusiasti, mia moglie non lo era affatto, per via delle scomodità e per la
immensa fatica per tenerla in ordine. E non solo! Se un giorno c’era
qualcosa che si rompeva da una parte, il giorno dopo qualcosa di più grosso si
guastava da un’altra. Si sa come sono le case vecchie. E siccome avevo firmato
un contratto d’affitto vantaggioso, per i rattoppi dovevo pensarci io. Quel
canchero d’avvocato che mi fece firmare il contratto sapeva il fatto suo.
Fatta eccezione per un paio di finestre che
s'affacciano sul cortile e di una sola sulle aule scolastiche del Duca
D'Aosta, le altre sette vanno a sbattere contro i muri poco distanti
delle case attorno. Di verde e di cielo si vedeva ben poco. In compenso,
una casa utilissima per i miei tre figli, dove avevano spazio per
correre, giocare e far musica con i loro i amici. Dimenticavo: aumentano
il fascino di quella abitazione alcuni affreschi sulla scala d’ingresso e nel
salone; mentre all’esterno una vite americana, oltre a coprire un alto muro di
cinta e l’ingresso, gli dà un felice tocco all’inglese. In autunno poi, le
foglie assumono tutte le tonalità dei rossi e della ruggine lasciando a bocca
aperta l’occasionale osservatore.
Di quella casa ne ricordo ancora l'odore. Eh,
sì! Perché le case come le donne hanno il loro adorabile profumo. Se si
esclude il chiasso che fanno i ragazzi nel cortile della scuola nella
bella stagione e, a finestre aperte, l’urlo delle sirene che sfrecciano in
Via Carducci, in casa non giungevano altri rumori. Fecero eccezione le urla che
mi svegliarono in quella memorabile notte.
Eravamo d’estate e a metà degli anni Ottanta, la
giornata era stata caldissima e di notte non si respirava. Non c’era ancora il
caldo infernale di questi ultimi anni; e non avevo ancora sentito la necessità
d'un impianto d'aria condizionata. Nella speranza di ricevere qualche bava
d'aria, avevo lasciato le finestre aperte. Verso le due fui svegliato da
lamenti. Tesi l’orecchio. Non erano i versi di gatti in amore, ma le
implorazioni d'una donna provenienti dalla casa di fronte. Mi alzai, mi
asciugai il collo dal sudore, e pian pianino andai in salone. Aprii ancor di
più le finestre per sentir meglio. Mentre sopra i tetti una luna piena mi
guardava divertita, mi avvicinai al telefono pronto a chiamare il 118. Ma che
sorpresa! Nonostante mi si chiudessero gli occhi, le parole che mi arrivavano
non erano di dolore, ma avevano un tono talmente godurioso ed eccitante
che mi soffermai ad ascoltarle. Se a qualcuno capiterà di recitarle, mi
raccomando: che il tono sia un misto tra sofferenza e piacere.
Eccole.
-Aiuto! O Dio, aiuto!... Sìì… ancora!... Arrivo! O
Dio! Arrivo!...Ahaa..Ahaa … Sìì… aiuto!... Arrivo!... Sìì! Ancora, ancora! Arrivo!
E poco dopo: - O Dio! ...Sii ...Arrivo! ... Arrivo!
... Dai, dai! ...Arrivo!
E poi di nuovo silenzio. Da parte del cavaliere
neppure un gemito, forse impegnato a spronare profondo e con vigore.
Dopo qualche attimo la donna riprese fiato e di nuovo
agonizzava d'amore:
-Ahaa… Ahaa… Dai, dai! Arrivo!... Sìì… Arrivo!
Tutto in perfetto Italiano.
Alla terza volta, già il mio affare (1) dava segni di
irrequietezza. Ora però, non saprei dirvi cosa mi prese, se la voglia
di ridere o l’eccitazione, sta di fatto che gridai:
- Signora… signora! Tenga duro! che arrivo
anch’io!
(1) Pene
(1) Pene
P.S. Per un buon mese, mia moglie mi tenne il muso, e per
qualche settimana in più, quando uscivo dal vicolo e imboccavo Via Carducci, mi
guardavo attorno temendo d’incrociare quella femmina.
Fonte: srs di
Enzo Monti del 16 luglio 2013
Nessun commento:
Posta un commento