Avete mai osservato con attenzione l’espressione,
i gesti, la postura di un atleta che esce vittorioso da una gara?
Di un ciclista che taglia per primo, in volata,
la linea bianca del traguardo, bruciando tutti i rivali nello sprint; o di due
giocatrici di beach volley che hanno vinto la partita; o dei componenti di una
squadra di calcio che conquistano l’oro ai Mondiali?
Per chi abbia praticato uno sport nella propria
vita, non c’è bisogno di osservare il viso degli altri, perché sa bene quali
sensazioni si provano, o almeno ci si immagina di provare, in quegli istanti in
cui il tempo sembra fermarsi e il mondo interro pare volersi inchinare davanti
alla forza, alla bravura e alla determinazione del campione vittorioso.
Bello, semplicemente: è qualcosa di esaltante, di
glorioso, di incomparabile; qualcosa che fa battere il cuore all’impazzata per
la gioia del risultato raggiunto.
Ora, il cortese lettore vada a sfogliare una
enciclopedia illustrata della seconda guerra mondiale (o della prima, se
preferisce, o magari di quella del Vietnam) e provi a soffermarsi sulle
fotografie che ritraggono un reggimento di fanteria al ritorno dal fronte, dopo
una guerra vittoriosa, mentre si affaccia dai finestrini della tradotta
militare; o del pilota di un aereo da caccia che è appena rientrato alla base,
magari dopo aver abbattuto un apparecchio nemico; o, ancora, dell’equipaggio di
una nave da guerra che rientra in porto dopo la distruzione della squadra
nemica.
Ebbene: su quei volti, in quei gesti, in quelle
posture del corpo, non sarà difficile ravvisare impressionanti analogie con
quelli degli atleti che hanno appena concluso una prestazione sportiva e
si abbandonano al tripudio della vittoria.
Terribile.
Sono analogie che fanno riflettere, che lasciano
pensosi.
Agli
esseri umani, per un istinto assolutamente naturale, piace vincere.
Chiediamo cortesemente al lettore di rileggersi
con tutta calma, meditandola bene a fondo, la precedente affermazione.
È semplicemente terribile.
Se c’è qualcuno che vince, ci deve essere, per
forza, anche qualcuno che perde. Dunque, la vita umana si regge, dall’individuo
al gruppo fino alla nazione, sulla guerra eterna di tutti contro tutti; e aveva
ragione Hobbes, in tal caso, a definirla «bellum omnium contra omnes».
Perciò, non restano che due vie da percorrere, se
si vuole uscire da una simile, orrida prospettiva che condannerebbe la nostra
esistenza a un perpetuo inferno.
La prima è quella di negare l’assunto iniziale:
che l’uomo sia naturalmente aggressivo. Ma allora bisognerebbe spiegare perché
ricerchi così volentieri la competizione e, soprattutto, perché provi un
piacere così intenso nella vittoria. Talmente intenso, da poterlo paragonare al
piacere sessuale: guardare per credere.
L’ottimismo antropologico sarà pure bene
intenzionato, ma commette l’errore basilare di voler far coincidere la realtà
con i propri desideri. È l’errore dello struzzo: gli aspetti negativi della
realtà, in questo caso della natura umana, non scompaiono per il semplice fatto
che ci si sforza di non vederli o, addirittura, li si nega.
Konrad Lorenz ha creduto di risolvere il problema
negando che l’aggressività sia il male: essa non sarebbe altro che il retaggio
della nostra origine ferina, anzi, sarebbe parte della natura in quanto tale.
Ma, a
parte il fatto che tale dottrina si fonda su un’altra dottrina del tutto
ipotetica, anche se spacciata ormai impunemente per dimostrata (l’evoluzionismo
darwiniano), rimane la constatazione che l’uomo è incapace di controllare la
propria aggressività, indipendentemente dal fatto che egli disponga, per
distruggere il proprio nemico, della clava o della bomba atomica.
L’aggressività non è un male storico, che, nelle
condizioni tecnologiche della modernità, sarebbe più pericoloso di quanto non
lo fosse all’epoca di Achille; bensì un male meta-storico, ossia ontologico:
costitutivo della natura umana.
Se l’uomo moderno, con le sue sofisticate bombe
al fosforo bianco, è in grado di incendiare intere città e bruciare vivi
tutti i loro abitanti; e se è in grado, con le bombe all’idrogeno, di spegnere
la vita sull’intero pianeta, cose che non poteva fare all’epoca di Achille, ciò
non dipende dal fatto che egli sia più “cattivo” dei suoi progenitori che fecero
la guerra di Troia.
L’entità delle distruzioni è un fatto puramente
meccanico e quantitativo. Ciò su cui si dovrebbe riflettere è l’istinto
aggressivo, che, nell’uomo, è sempre lo stesso.
Ecco perché tutte le tradizioni religiose
parlano, in forme e lingue diverse, di un unico, disastroso evento originario:
di una Caduta, cioè, in seguito alla quale gli uomini hanno perduto la
condizione di pace e felicità che possedevano «ab initio» e sono precipitati in
una condizione di miseria, di fatica e di morte.
La seconda strada che si può percorrere, per
tentare di uscire dalla palude della violenza, è quella di prendere atto della
insopprimibile carica di aggressività presente nella natura umana e di
impegnarsi a trasformarla, rielaborarla, sublimarla.
L’artista, colui che crea opere di pura bellezza
traendole dalle pieghe più profonde e misteriose della sua stessa anima, là
dove essa confina con una forza superiore ed eterna, compie una tale
trasformazione alchemica; e, in verità, la stessa cosa fa lo sportivo che
s’impegna con tutte le proprie forze per vincere una gara, sebbene - questo è
ovvio - su un diverso piano di consapevolezza spirituale.
Anche il raffinato giocatore di scacchi - un
gioco che gronda violenza, a dispetto delle aristocratiche apparenze, proprio
per le implicazioni psicologiche aggressive nei confronti dell’avversario - sta
compiendo un tentativo di trasformare la propria carica distruttiva in qualcosa
di costruttivo o, quanto meno, di non esplicitamente violento.
Ma avete mai osservato il viso, la bocca, la luce
dello sguardo di un anziano giocatore di briscola, nel momento in cui butta giù
sul tavolo dell’osteria, con un gran colpo della mano stretta a pugno, l’asso
pigliatutto? Il meccanismo è quello, ancora quello.
Lo spettatore di un film horror o di un western
che trasudano violenza e sangue, alla loro maniera - cioè su un piano ancora
più basso - fanno, o tentano di fare, una operazione analoga: solo che, mano a
mano che si scende nella scala della consapevolezza, la sublimazione si riduce
sempre più, fino a scomparire quasi interamente: e tutto ciò che rimane è
l’originario istinto aggressivo che è, in fondo, una pulsione di morte.
Ecco, l’abbiamo detto: l’aggressività verso l’altro è un mascheramento inconscio della
pulsione di morte.
E se la battaglia è difficile, durissima,
disperata, meglio ancora; almeno le cose sono chiare: si cerca di uccidere, più
o meno simbolicamente, l’avversario, per non dover confessare che si vorrebbe
uccidere, in fondo, se stessi. Ma è la propria morte, quella di cui si va alla
ricerca: e se non oggi, domani.
Ciò è particolarmente evidente, in guerra, quando
si presti attenzione alla psicologia di coloro che vanno incontro a una
battaglia perduta in partenza.
Prendiamo, ad esempio, i volontari che, a migliaia,
corsero ad arruolarsi nella Repubblica Sociale Italiana (sissignori: a
migliaia: a dispetto di quel che va dicendo, da decenni, la Vulgata
democratico-resistenziale). Si osservino i volti di quei ragazzi, ragazzi di
diciotto, vent’anni: ragazzi che, all’epoca della marcia su Roma, non erano
neppure nati. Altro che fascisti incalliti! Erano idealisti della più pura
specie; ma tormentati da una oscura pulsione di morte.
Volevano morire per riscattare l’onore della
Patria dopo l’obbrobrioso armistizio dell’8 settembre 1943 (obbrobrioso in
tutti i sensi, non solo politico e militare): volevano, in fondo, immolarsi
sulla loro stessa pira funebre, come il filosofo Peregrino, di cui parla
Luciano di Samosata o come i monaci buddisti che si davano fuoco all’epoca
della guerra del Vietnam.
Comunque, volevano morire, non vincere.
Sapevano di non poter vincere: contro i giganteschi carri armati delle ben
nutrite e bene equipaggiate divisioni americane e britanniche, che cosa
avrebbero potuto fare con le loro misere armi individuali, con l’uniforme a
brandelli e l’intestino squassato dalle coliche della pessima alimentazione?
Chi non ci crede, vada a rileggersi il libro di
Adriano Bolzoni «La guerra dei neri»
(Roma, Ciarrapico Editore, 1981), che, anche da un punto di vista letterario,
vale dieci volte più delle tanto celebrate storie della Resistenza dei vari
Battaglia, Bocca e Salvadori. Intendiamoci: il riconoscimento dell’onestà
morale vale nei due sensi; vale anche per quei ragazzi del Regno del Sud che, nello
sbandamento generale, scelsero di prendere le armi per combattere contro gli ex
alleati tedeschi; e, naturalmente, per tutti quei giovani partigiani in buona
fede che salirono sulle montagne del Nord per veder rinascere un’Italia
migliore.
Torniamo, adesso, alla nostra riflessione
iniziale.
Non si compete per il piacere di competere, ma
per vincere; e competere per vincere significa competere per umiliare
l’avversario e, contemporaneamente, gratificare il proprio Ego. Dietro tutto
questo, però, è presente, al tempo stesso, un oscuro istinto di morte.
Dal momento che l’aggressività fa parte della
natura umana, l’unico modo per evitare che essa si trasformi in una terribile
arma di distruzione e, in ultima analisi, di autodistruzione, è quello di
elaborarla attraverso forme e ritualità che permettano di estrarne il
pungiglione mortale, la violenza cieca e incontrollata.
Ciascun essere umano, mano a mano che acquista
consapevolezza della necessità di un cammino spirituale verso la liberazione,
dovrebbe costruirsi la propria personale strada per uscire dal circolo vizioso
della propria pulsione di morte.
Il desiderio della vittoria non è altro, in
fondo, che un oscuro desiderio di annullamento; e il desiderio di annullamento
può indirizzarsi nei due sensi, verso il reintegro di sé con se stessi (pace
interiore) e verso l’apertura all’armonia cosmica (pace esteriore);
oppure verso la distruzione di sé e dell’altro, in forme più o meno esplicite
di violenza.
Ecco, dunque, che non è tanto il “cosa”, ma il “come”
a segnare la differenza fra una aggressività primitiva e distruttiva ed una
aggressività rielaborata e sublimata.
Per esempio, vi sono due generi di piacere
sessuale: quello basato sulla violenza, anche solo psicologica, e sulla
sopraffazione dell’altro; e quello basato sulla profonda e armoniosa fusione di
due anime attraverso due corpi.
Il primo riproduce il meccanismo dell’impulso di
morte, il secondo porta verso la liberazione e la pace dell’anima.
Similmente, vi sono due modi di gareggiare in una
competizione sportiva: l’uno sano e costruttivo, volto al superamento dei
propri limiti e alla conquista di una maggiore stima di sé; e l’altro malato e
distruttivo, che vede nell’avversario un nemico da battere, da gettare nella
polvere, e, nella vittoria, una gratificazione di tipo puramente ed
esclusivamente narcisista.
Noi dobbiamo prendere coscienza di queste
componenti presenti nella nostra natura e orientare i nostri impulsi
esistenziali, le nostre energie psichiche e la nostra volontà vitale in direzione
del superamento del livello primitivo, brutale e distruttivo dell’aggressività,
per trasformare quest’ultima in energia positiva, benefica e autorigenerante.
Tutto questo è possibile se ci si vuole bene, se
si ritiene di avere un valore e se si ha fiducia nella propria capacità di
migliorare, di evolvere e di oltrepassare continuamente i propri limiti e le
proprie imperfezioni.
Vi è un modo di rendersi conto se ci si trova
sulla buona strada, ed è questo: osservare in quale modo si vive la sconfitta.
Colui che vive la sconfitta non come una
umiliazione e uno smacco insopportabile, ma come uno stimolo per perseverare e
impegnarsi maggiormente nel futuro, vuol dire che ha raggiunto un sano
equilibrio interiore ed è maturo per sviluppare sempre di più la parte migliore
di sé: la più generosa, la più aperta e la più disponibile ad imparare.
Chi non sa accettare la sconfitta, pur avendo la
coscienza di essersi impegnato al massimo, non è nemmeno degno della vittoria.
Perché solo chi sa trovare occasioni di crescita nella sconfitta è un uomo
grande; chi non le sa trovare è un uomo piccolo, anche se può aver vinto molte
medaglie.
Fonte: srs di Francesco Lamendola, da Arianna
Editrice.it del 16/aprile/2010
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