Da un po’ di tempo si è ripreso – finalmente – a parlare
di numeri e, in particolare, di residuo fiscale. Secondo la definizione di Ricolfi,
esso è la “Differenza fra le entrate correnti della Pubblica amministrazione
(tasse totali e vendite) e le uscite correnti al netto del servizio del
debito”.
In altre parole è l’indicatore della quantità di denaro
che lo Stato italiano si porta via senza dare nulla in cambio, ovvero
quello che le comunità versano in “solidarietà tricolore”, per il solo piacere
di vedersi rappresentare da Napolitano e poter cantare l’Inno di Mameli.
È un numero che indica l’entità dello “scambio” (nel nostro caso della
rapina) ma che non serve neppure a delineare la qualità dello stesso: si pagano
“per buone” prestazioni che sono ignobili (servizi sociali, sicurezza,
giustizia eccetera) e non spiega quanto di quello che ritorna sul territorio
sia affettivamente a vantaggio delle comunità locali o non vada invece a finire
in voci che di locale hanno solo il luogo di spesa (pubblici dipendenti
meridionali, spese per immigrati eccetera).
In ogni caso si tratta di un interessante “marcatore”
della strana perequazione italica, in grado di rivelare con
sufficiente grado di accettabilità che ci guadagni e chi ci perda
dall’unità e indivisibilità dell’Italia.
Il termine compare per la prima nel linguaggio comune con
uno studio della Fondazione Agnelli nel 1992, riferito ai conti del
1989. Quella prima indicazione è ripresa dai Quaderni Padani n. 2
(Autunno 1995) e poi dal fascicolo I numeri dell’oppressione,
allegato a La Padania, nel novembre 1997. La stessa è ripresa nello
stesso anno dal libro L’invenzione della Padania.
Lo studio della Fondazione Agnelli riceve all’inizio
un po’ di attenzione dalla stampa ma poi finisce relegato nel repertorio
di informazioni di una parte minoritaria del mondo
autonomista che si raggruppa attorno a La Libera Compagnia
Padana, che sembra essere la sola ad avere compreso l’importanza
deflagrante di questo tipo di informazioni.
Sono infatti ancora i Quaderni Padani (n. 41,
maggio-giugno 2002, poi ripresi dai Quaderni 61-62 nel settembre-dicembre
2005) che pubblicano l’elaborazione effettuata da Giancarlo Pagliarini e
da Sara Fumagalli del residuo fiscale dell’anno 1997.
Nel 2005 viene
pubblicato il 5° rapporto “La regionalizzazione del bilancio statale”,
elaborato dalla commissione presieduta da Alberto Brambilla,
allora Sottosegretario del Welfare (da cui il nome “Rapporto Brambilla”),
che fornisce un suo calcolo del residuo fiscale al 2001. È il solo anno
in cui la Repubblica italiana abbia reso noti i dati regionalizzati,
sollecitata da una norma del Regolamento Comunitario d’Europa (223/95) che
impone agli Stati la tenuta di statistiche su base regionale.
Ancora i Quaderni Padani pubblicano (n. 81-82,
gennaio- aprile 2009) l’elaborazione effettuata dalla Unioncamere del Veneto
sui dati del 2006. La stessa è ripresa dal libro Luigini contro Contadini
(2011) e, riformulata, da Luca Ricolfi nel libro Il sacco del Nord
(2010).
Dal 2006 è la stessa Unioncamere del Veneto che si occupa
di redigere i calcoli del residuo fiscale delle singole Regioni per ogni anno
di bilancio. Possiamo così disporre da quella data di una serie di informazioni
che hanno anche il vantaggio di essere state elaborate dallo stesso soggetto e
con criteri di valutazione costanti. Prima di allora infatti, ognuno ha
costruito i propri dati su fonti e con metodi diversi.
Quasi tutti i dati pubblicati danno il residuo pro capite e
complessivo. Essi sono riassunti nella
Tabella 1 (“Residuo fiscale pro
capite”) e nella
Tabella 2 (“Residuo fiscale complessivo per regione”).
Sono riportati con segno positivo i residui fiscali che
indicano dove si sia pagato di più di quanto ricevuto. Sono infatti considerati
passivi i residui di chi riceve più di quanto abbia versato.
La discrepanza fra i vari anni si spiega anche col
fatto che i dati sono il risultato di calcoli ed elaborazioni effettuati su
parametri raccolti con diverse modalità.
Ciò nonostante si ha una continuità di fondo che rivela
alcune costanti fondamentali:
1) ci sono
quattro regioni (Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia-Romagna) che
presentano sempre un residuo attivo;
2) ci sono altre
regioni centro-settentrionali che si trovano in sostanziale equilibrio (fa
parte a sé il Lazio nella cui colonna del dare sono contemplate le tasse
riscosse da enti che hanno sede a Roma ma che producono o drenano ricchezze in
tutto il territorio della repubblica);
3) il trend di
crescita del residuo fiscale è generale ma concentrato nelle regioni pagatrici;
4) tende così a
crescere nel tempo la forbice fra la Padania che riceve meno e il Meridione che
riceve di più.
Guardando le tabelle si osserva un residuo complessivo
delle regioni padane (comprese quelle a statuto speciale) che va dai 10
miliardi del 1989 ai 104-119 di media fino al 2009. Sulla base delle
proiezioni pubblicate dalla stessa Unioncamere del Veneto, si può
ragionevolmente ipotizzare che il residuo padano complessivo degli
ultimissimi anni superi i 125 miliardi.
Su queste informazioni viene elaborato un grafico per
l’andamento ventennale del residuo lombardo e padano. L’andamento non è
costante soprattutto a causa dei diversi criteri di calcolo impiegati: non è
però escluso che la diminuzione fra il 2002 e il 2006 possa avere a che fare
con la pressione leghista sulle scelte economiche del governo. Ma potrebbe
anche trattarsi di una casuale coincidenza e perciò la considerazione sarebbe
più un wishful thinking che una constatazione della realtà.
Grafico 1
Se si sommano i residui fiscali dei venti anni compresi
fra il 1989 e il 2009 si arriva a una cifra complessiva che non è inferiore
al 1.100 miliardi di Euro per le otto regioni padane, pur calcolando il valore
passivo che si ritrova costantemente in Valle d’Aosta, quasi sistematicamente
in Trentino-Sud Tirolo e saltuariamente in Liguria e Friuli.
Nel suo complesso la Padania è stata “ripulita” in due
decenni di più della metà del debito pubblico. Roba superiore alla
spogliazione delle colonie americane da parte della Spagna. Va anche
ricordato che, con un trasferimento analogo per entità e durata, la Germania ha
risollevato le condizioni economiche della sua parte orientale: va però anche
rilevato che l’esborso pro capite dei tedeschi occidentali è stato quasi tre
volte inferiore a quello dei padani.
Nei venti anni considerati, ogni cittadino padano ha
pagato la gioia di vedere sventolare il tricolore circa 40.000 Euro, una
famiglia di quattro persone si è fatta fuori un appartamentino. Più pesante è
la situazione degli abitanti della Lombardia che hanno pagato lo stesso
piacere circa 830 miliardi e cioè 84mila Euro a testa in vent’anni, un
appartamento di lusso per una famiglia di quattro persone.
Va ricordato che si tratta di dati statistici che non
tengono conto di altri elementi molto più difficilmente quantificabili. Si
dovrebbe, ad esempio, attribuire parte del residuo laziale a tutte le altre
regioni e in particolare – in misura di almeno due terzi – alla Padania. È
incalcolabile quanto della spesa statale in Padania vada a vantaggio di non
padani (impiegati pubblici meridionali in trasferta, azione di organizzazioni
criminali, spese per gli immigrati, spese per strutture militari o civili
posizionate sul territorio padano ma a servizio dello Stato nel suo insieme
eccetera). Con tutto questo il dato del residuo fiscale potrebbe crescere
ulteriormente in misura anche ragguardevole. Resta poi il dato morale che rende
difficile fare accettare come spesa statale a vantaggio del territorio quella
che riguarda le strutture oppressive, poliziesche e giudiziarie che servono a
comprimere le libertà locali.
(1 – continua)
Fonte: visto su L’indipendenza del 25 marzo 2013
LA PADANIA DA SOLA PAGHEREBBE IL DEBITO PUBBLICO IN MENO DI
15 ANNI
di GILBERTO ONETO
(2 -parte)
Negli ultimi tempi si è molto parlato del 75% di tasse
che, secondo la Lega, dovrebbero rimanere in Lombardia. Si è
cominciato a dare i numeri su quello che già oggi resterebbe, si sono
introdotti parametri d’ogni genere, si è insomma sollevata una sconquassante
cortina fumogena su dati che dovrebbero invece essere precisi e chiaramente
comprensibili. Il Pdl ha detto che in Lombardia si arriva già al 72-73%; la
Confindustria ha sentenziato che sono “sogni per adesso non realizzabili”, Camusso e Ambrosoli sono stati
concordi nel bollare l’iniziativa come demagogica. I meridionali in
generale si sono indignati piagnucolando sul becero tentativo di violare un
patto di solidarietà che ha la strana particolarità di essere a senso unico.
Per fare un po’ di chiarezza occorre guardare i dati
degli ultimi dieci anni. Nel 2002 la Lombardia tratteneva l’80,69% delle
proprie risorse, nel 2007 il 66,61% e nel biennio 2007-2009 una media del
59,85%. Nel 2013 si può stimare il 55%, un dato in continua diminuzione per
l’aumento della pressione fiscale e il calo degli investimenti. Chi ha
ipotizzato una differenza di 16 miliardi si è basato sui dati del 2007.
Segue lo stesso trend il calcolo per l’intera Padania:
86,11% nel 2002, 75,94% nel 2007 e 72,32% nel biennio successivo. Oggi è
sicuramente attorno al 68%. Questo significa che la cura maroniana farebbe
molto bene alla Lombardia ma sarebbe benefica anche per l’intera comunità
padana.
Infatti se il ritorno fosse del 75%, nel 2007 in
Lombardia sarebbero rientrati 16 miliardi in più e 4 in meno in Padania,
nel periodo 2007-09 sarebbero tornati 26 miliardi in più in Lombardia e 9 in
più in Padania, regioni a statuto speciale comprese. Oggi saremmo
presumibilmente rispettivamente attorno ai 30 e 15 miliardi. I cittadini
lombardi, a parità di prestazioni, potrebbero avere uno sgravio fiscale attorno
al 40%.Il grafico 2 indica la percentuale di ricchezza ritenuta sul
territorio lombardo e padano rapportata con la richiesta del 75%.
Una considerazione va fatta su come queste cifre siano
reperite e usate da parte di chi dovrebbe averne fatto uno dei punti
qualificanti di tutta la sua battaglia politica. In tutti questi anni la Lega
si è totalmente disinteressata di questo argomento cruciale, non ha utilizzato
il potere di reperimento di informazioni che le veniva dalla sua posizione
governativa, non ha attivato un Centro Studi in grado di occuparsene, non ha
favorito (anzi) chi lo ha fatto per conto suo. Non ha insomma intrapreso
nessuna di quelle azioni elementari e doverose per delineare in termini chiari
il suo progetto in campo economico, nello scabroso ruolo delle verifiche della
rapina che subisce la gente che dice di voler rappresentare. Gli indecorosi
balletti sui numeri che si sono visti in campagna elettorale, il patetico
ricorso democristiano a un avverbio (“almeno” il 75%) per coprire
l’impreparazione sui numeri, il ricorso – davvero miserabile - a un
trafiletto pubblicato dal Corriere della Sera in cui si parlava di un
vantaggio di 16 miliardi: tutto da la misura dell’impreparazione della classe
dirigente leghista, del protervo impegno ventennale a uccidere ogni impegno
culturale e anche di una certa, urticante, dose di mala fede.
Sembra opportuno, per chiudere, dare un’occhiata anche ad
alcuni raffronti internazionali. Nel 2009 il residuo fiscale della
Lombardia corrispondeva al 11,5% del Pil regionale, in Veneto era il 10,3%, in
Emilia-Romagna il 10,1%. In Europa si hanno per lo stesso anno i seguenti dati
significativi: la Catalogna (che per questo minaccia la secessione) arriva
all’8,1%, la regione di Stoccolma al 7,6%, l’Inghilterra sud-orientale al 6,7%,
il Baden-Wurtenberg al 4,4%, l’Ile-de-France al 4,4% e la Baviera al 3,5%, un
quarto della Lombardia. Nel suo complesso la Padania ha la percentuale più alta
d’Europa, è perciò la regione più tartassata in assoluto.
Un quadro analogo si ricava dal confronto del debito
pubblico regionalizzato, in percentuale sul Pil: a fronte di un valore
dell’87,7% dell’Area euro nel 2011, si hanno i seguenti valori: 120,7%
dell’Italia, 82,1% della Padania, 74,8% del Veneto, 73,3% dell’Emilia-Romagna e
il 71,9% della Lombardia.
Da tutto quanto fino a qui esaminato si trae una semplice
considerazione: la Lombardia e la Padania nel suo complesso sono
sistematicamente rapinate delle loro ricchezze dallo Stato italiano. Senza
questo “patriottico” prelievo la Padania sarebbe un paese prospero, uno dei più
ricchi del mondo, potrebbe assicurare ai suoi cittadini servizi di eccellenza
invece che sopravvivere in una condizione terzomondista come avviene oggi. Da
sola la Padania potrebbe ripianare la sua parte di debito pubblico in pochi
anni e pagare l’intero debito italiano in due o tre lustri. Potrebbe così
comperarsi la sua libertà. Ma occorre farlo al più presto, prima che la crisi
economica (qui provocata principalmente dal parassitismo italiano e dalla
rapina statale) distrugga completamente il potenziale economico e le risorse
morali delle comunità padane. Per molto meno si erano ribellate le colonie
americane. Se non ora, quando?
Fonte: srs di Gilberto Unito, da L’indipendenza del 26 marzo 2013
Link: http://www.lindipendenza.com/la-padania-da-sola-pagherebbe-il-debito-pubblico-in-meno-di-15-anni/
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