Vita francescana. Chiostro Chiesa di San Bernardino, Verona
Per la prima volta nella storia della Chiesa, un Papa ha scelto come nome pontificale quello di Francesco, in onore del santo di Assisi che scelse di spogliarsi dei suoi beni per condurre un’esistenza votata alla povertà.
Per la prima volta nella storia della Chiesa, un Papa ha scelto come nome pontificale quello di Francesco, in onore del santo di Assisi che scelse di spogliarsi dei suoi beni per condurre un’esistenza votata alla povertà.
Ma la figura di San Francesco, la sua concezione di vita e
lo sviluppo della riflessione teologica francescana sono qualcosa di diverso e
assai più complesso di quel che ci viene presentato da una pubblicistica spesso
preconcetta e superficiale. Francesco
era figlio di mercanti e il pensiero francescano si sviluppò in territori di
fiorenti commerci, come la Toscana medievale, grazie agli apporti di Bernardino
da Siena e Antonino da Firenze, e la Linguadoca, regione del sud della Francia
che aveva in Montpellier una città-mercato importantissima e nella cittadina di
Narbonne il luogo di nascita di Jean
Pierre d’Olivi (1248-1298), il più profondo pensatore economico
francescano, la cui analisi giunge a conclusioni opposte a quelle di un
pauperismo banale e conformista.
La povertà è il punto
di partenza della riflessione teologica francescana sul problema del prezzo
delle merci stabilito in base a regole che lo rendano moralmente accettabile.
Partendo dalla nozione di “mancanza”, intesa come
privazione, Olivi valuta i beni economici, soffermandosi sulla differenza tra
oggetti necessari e oggetti superflui, definendo perciò la povertà volontaria
come una tecnica d’uso delle cose basata sulla conoscenza della loro specifica
utilità. Basti pensare alla differenza tra le “cose necessarie subito” e le “cose
necessarie adesso”: le prime, che possono essere necessarie anche in
futuro, sono costituite da quegli oggetti di primaria importanza come il cibo,
il vestiario o l’occorrente per la semina, mentre ciò che desideriamo adesso
non sempre è per noi prioritario. Insomma, la riflessione sulla ricchezza parte
da un’analisi dei modi di valutazione del necessario e del superfluo e il
criterio dell’indigenza induce a concentrare lo sguardo sui bisogni soggettivi,
piuttosto che sul modo di produzione dei beni atti a soddisfarli.
Il valore economico delle cose varia perciò a seconda di
quanto esse siano ritenute necessarie o superflue, il che spinge Olivi a
indicare appunto nella “mancanza” il
principio in base al quale si assegna alle cose un prezzo, con l’autoprivazione
che diventa perciò una scuola che insegna a misurare il bisogno e la necessità.
Riguardo al denaro, Olivi ne scorge l’utilità qualora non
venga tesaurizzato e trattato come un oggetto utile di per sé, ma come il
prezzo di qualcosa di utile, che finisce per allargare lo spettro delle
relazioni sociali da rapporti fondati su conoscenze personali e sullo scambio
di favori reciproci a rapporti di scambio fra persone tra loro estranee.
Perciò, è la volontà di fare uso delle cose (e del denaro) per soddisfare
necessità o desideri a rendere etici e socialmente sensati la ricchezza e lo
scambio. E non sarà un caso, allora, se Olivi individuerà nei mercanti persone
degne di trovare posto nell’universo etico francescano, scoprendo un po’ per
volta la possibilità che hanno i ricchi di essere simili ai poveri di Cristo.
Nel “disordine”
del mercato, dovere del mercante era quello di “attribuire” valori corretti e
probabili alle cose nel momento in cui venivano scambiate. Infatti, solo chi,
come i mercanti, possedeva conoscenze pratiche relative a circostanze di luogo
e tempo nei vari mercati, inclusi quelli più lontani, era in grado di stabilire
un prezzo che, seppur in maniera imperfetta, mettesse d’accordo acquirenti e
venditori. Non così valeva (e vale) per i governi, che pur potendo fissare
d’imperio i prezzi, non saranno mai in grado di farlo adeguatamente, perché
privi di quelle conoscenze pratiche dei mercati, necessarie per prendere
decisioni equilibrate. Per i francescani medievali, nel mercante c’è qualcosa
di altamente virtuoso se non di eroicamente civico che ne fa un interlocutore
privilegiato dei poveri in Cristo.
Il suo impegno indefesso, la sua abitudine a rischiare e la
sua attitudine a valutare ne fanno il promotore della circolazione delle
ricchezze utili alla società cristiana nel suo insieme. Il denaro connesso
all’attività mercantile appare ai francescani assai diverso rispetto a quello
dell’usuraio, che lo accumula al solo scopo di consumare e rivendere al fine di
guadagnare di più oppure per bloccarlo cristallizzandolo in tesori
improduttivi, lussi inutili e viveri superflui. Usuraio è chi accumula denaro bloccandone il movimento, è il creatore e
il percettore di rendite parassitarie, mentre il mercante, con la sua attività
che pure è orientata al profitto, arreca beneficio all’intera comunità.
Insomma, chi vede nel francescanesimo un marxismo
ante-litteram non capisce che mentre Francesco e i suoi seguaci hanno sempre
predicato la povertà vivendola sulla propria persona senza condannare l’altrui
ricchezza, i marxisti hanno fatto l’esatto contrario demonizzando l’altrui
ricchezza senza mai rinunciare ai propri agi. Se un po’ di francescanesimo non potrà che far
bene a un mondo che deve riacquistare equilibrio e sobrietà, la sua vulgata
marxista rischia di estendere all’umanità intera le conseguenze nefaste che la
Teologia della Liberazione ha riversato sull’America Latina. Un inferno che Papa Francesco ben conosce.
Fonte: visto
su, Carlo Zucchi Blog, del 16
marzo 2013
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