Crescita. Questa è la parola d’ordine che campeggia da anni
nel dibattito pubblico. Eppure, più se ne parla e meno si propongono soluzioni
coerenti a riguardo.
Da destra a sinistra si tuona contro l’austerity, ma solo
per poter scialacquare quel po’ di denaro che lo stato italiano riesce a
estorcere ai propri cittadini e indebitare ancor più Stato, famiglie e imprese.
E chi predica il rigore (Monti), predica bene e razzola malissimo, perché si
guarda bene dall’applicarlo al settore pubblico, salvo massacrare di tasse il
privato. E per un paese che ha il suo maggior problema nell’eccesso di presenza
pubblica nell’economia, non mi sembra la soluzione migliore per far ripartire
le cose. Insomma, sia gli spendaccioni, sia i tecnocrati pro-austerity sono
accomunati da un unico proposito: non diminuire il perimetro d’azione dello
Stato e degli enti pubblici.
Come mai? Certo, per un politico è sempre più vantaggioso
spendere a favore alcuni, piuttosto che diminuire le imposte per tutti, perché
a lui interessa il voto del 50% più 1 degli elettori per vincere le elezioni.
Infatti, lo strumento della spesa pubblica consente di spendere a favore di
alcuni i denari di tutti, che sono tanti in assoluto e ancor di più se
ripartiti tra pochi (il 50% più 1), che ne traggono perciò un vantaggio
sufficientemente grande da spingerli a essere riconoscenti al momento del
voto.
Ma a preservare lo Stato così com’è, oltre a queste motivazioni
già da tempo note alla scienza politica, ce ne è un’altra legata al Trattato di
Maastricht e ai famosi parametri basati sui rapporti deficit/pil e debito/pil. Parametri che hanno il difetto di alterarsi
fortemente non appena il Pil, posto al denominatore del rapporto, non cresce o
diminuisce. Infatti, se il Pil cala, i rapporti deficit/pil e debito/Pil
tendono ad aumentare, a meno che le voci presenti al numeratore non arrivino a
zero, cosa possibile (e auspicabile), almeno in linea teorica, solo nel rapporto
deficit/Pil.
E a tutto ciò si aggiunga che in sede di contabilità
nazionale gli stipendi pubblici, che sono parte rilevante di quella spesa
corrente il cui taglio tutti invocano, vengono computati nel calcolo del Pil,
dando per scontato che un reddito percepito costituisca un reddito prodotto,
cosa vera nel privato, i cui costi e ricavi sono sottoposti ogni giorno al
giudizio del mercato, ma non necessariamente per il settore pubblico, la cui
inefficienza è scaricata sul contribuente. In poche parole, grazie a questi
sistemi assurdi di contabilità nazionale, se si taglia la spesa pubblica
diminuisce il pil e così aumenta il rapporto debito/pil, i conti peggiorano,
indebitarsi sui mercati diventa più costoso e aumenta la spesa per interessi e
con essa il debito. Insomma un cane che si morde la coda.
Del resto, cosa aspettarsi da tecnocrati imbevuti di teorie
stataliste che hanno creato un’Europa fatta a immagine e somiglianza
dell’ex-Unione sovietica. E che sta per fare la sua stessa fine. E per gli stessi
motivi.
(La Voce di Romagna, 22/3/2013)
Fonte: visto su Carlo Zucchi blog, del 22 marzo 2013
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