(di Alessandra Galbiati)
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Avevo scritto questa storia per me, per ricordare nel
tempo l’emozione che ho provato oggi, per essere sicura che il tempo non
diluisse e scolorisse il mio ricordo. Poi ho pensato che questa storia poteva
essere raccontata anche ad altri, che le nostre parole possono essere un
veicolo di trasporto di esperienze. Anche nel caso, come questo, in cui si sa
che il tentativo di comunicare veramente, di entrare in contatto con le
coscienze degli altri è già fallito in partenza, che non c’è modo sicuro di
squarciare quel velo che copre gli occhi dell’abitante umano medio di questo
squallido pianeta. Raccontare diventa un modo per non sentirsi troppo soli,
per cementare la propria convinzione, per continuare a ribadire a se stessi
che non si può far altro che continuare così, indipendentemente dal fatto che
la lotta per la libertà degli animali avrà successo o avrà fine solo con la
fine definitiva (e per fortuna certa) della specie umana.
Gianna aveva 14 mesi quando l’ho conosciuta. Era una scrofa di un piccolo allevamento, di quelli che si trovano in campagna un po’ dappertutto, dove la gente di città va a comperare i salumi perchè sono ancora caserecci, saporiti, fatti artigianalmente. Gianna era stata coperta dal gigantesco verro in un momento sbagliato, non programmato e aveva partorito 11 maialini.
Dal parto e per due terribili, lunghissimi mesi, era stata
segregata in uno stanzino buio e puzzolente, in una di quelle gabbie che
immobilizzano le scrofe per tutto il periodo dell’allattamento (e che la
gente non vuole credere che esistano) e aveva uno sguardo terribile,
tristissimo, uno sguardo che era di nostalgia e di distanza astrale rispetto
a questo mondo. Non che la vita prima fosse stata particolarmente bella per
lei ma almeno viveva con altri maiali e poteva fare qualche passo, anche se
merdoso, in un locale (anche se di merdoso cemento e sempre semibuio).
Il motivo per cui le scrofe devono allattare in queste gabbie di tortura, è che rischiano di schiacciare i loro piccoli quando si muovono dato che il cemento del pavimento, a differenza dei nidi di frasche e rami che si costruirebbero in natura, non permette ai piccoli di sgusciare via nel caso la madre si giri un po’ troppo rapidamente. La Gianna aveva svezzato i suoi piccoli ma non c’era un locale libero nella cascina e la sua tortura si stava prolungando senza che io potessi vederne la soluzione. Ogni giorno che andavo alla fattoria (bellissimo nome per un vero inferno; portarci i bambini è il massimo della perversione educativa) litigavo con il contadino e gli dicevo di costruire un recinto all’aperto per trasferire Gianna e prole. Ma c’erano problemi, non si sa bene quali, che il contadino (X) diceva insormontabili. Un giorno X mi disse che finalmente aveva risolto, che aveva venduto Gianna e figli, che l’indomani veniva il camion. A chi – domandai. A un allevatore che ne aveva 6-700. E come li tiene? Tu ti lamenti di me ma dovresti vedere come li tengono gli altri, capiresti che io ci tengo e li tratto bene. Diventai una furia. Decisi che non sarei più andata lì, pace per i cani alla catena che ormai si erano abituati a fare il giretto tutti i giorni. Era troppo da masochisti continuare a frequentare un simile posto. L’orrore era dappertutto e la mia presenza non avrebbe fatto nessuna differenza.
La mia furia spaventò X che si era abituato gradualmente
alle idee che gli sottoponevo e iniziava ad apprezzare il mio arrivo
quotidiano verso le 17. Ero anche riuscita a parlare a X di veganismo e
l’avevo pure portato a mangiare seitan. Da quando frequentavo l’allevamento
le mucche avevano iniziato a uscire all’aperto, le caprette giravano libere,
i cani avevano catene lunghe e scorrevoli, il veterinario veniva chiamato se
c’era un problema. Il giorno dopo l’accesa discussione mi disse che aveva
disdetto la vendita. Gianna era stata trasferita in un recinto al chiuso
insieme ai suoi cuccioli e ai cuccioli delle due scrofe che avevano partorito
3 mesi prima. Il problema era che 35 maialini volevano ciucciare il suo latte
e dopo tre giorni Gianna stava iniziando a deperire. Non era possibile
lasciarla insieme ai maialini. Tornò, sola, nel buio e puzzolente stanzino.
Vedendomi sconvolta X mi disse che mi regalava Gianna e che le avrebbe
costruito un recinto tutto suo in cui avrei potuto tenerla per tutto il tempo
che volevo. Tempo 10 giorni e la casa e il “giardino” di Gianna sarebbero
stati pronti. X è un uomo di parola. Comprò mattoni e cemento, listelli di
legno e tutto l’occorrente. Lavorò sodo nonostante il caldo insopportabile.
Io ogni giorno andavo da Gianna e la facevo uscire per un’oretta dalla sua
prigione schifosissima. La portavo a “pascolare” sul retro della cascina, le
facevo la doccia, la spazzolavo, l’accarezzavo e cercavo di fare amicizia.
Ogni volta che aprivo la porta dello stanzino (da cui la sentivo grugnire
impetuosamente quando mi avvicinavo) pensavo che avrebbe dovuto assalirci,
sgozzarci tutti, ammazzare chi aveva osato trattarla in quel modo pazzesco.
Invece lei usciva, si guardava intorno per abituarsi al chiarore del sole,
poi dava due grugniti e si metteva a correre, pazza di gioia, saltando come
un cane quando vede che prepari il guinzaglio. All’inizio non mi filava per
niente (e perchè avrebbe dovuto?). Poi iniziò a correre verso la canna
dell’acqua quando voleva bere o fare la doccia. Dopo qualche giorno iniziava
a seguirmi e a farsi accarezzare. Se grugnivo, mi rispondeva. Era dolce e
mansueta, solo, e giustamente, un po’ diffidente.
Un pomeriggio, a causa del calore soffocante e della
scarsa pulizia del suo stanzino, la trovai sdraiata boccheggiante e ansimante
quando aprii la porta. Quasi non riusciva ad alzarsi, la puzza di ammoniaca
era tremenda e lei ci era stata obbligata per ore e ore. Le chiesi scusa a
nome del genere umano, le feci subito una doccia fresca, pulii il fieno
sporco e le chiesi di portare pazienza ancora due giorni, la sua casa era
quasi finita...
Il giorno dopo era là, sdraiata sulla terra fresca del suo
cortiletto, un po’ arrossata dal troppo sole che aveva preso, spaparanzata ad
annusare l’aria profumata di settembre. Appena la chiamai mi corse incontro e
fu vera festa. Le portai delle mele e le diedi pannocchie dolci e chiare. Le
dissi che non l’avrei fatta ingrassare perchè altrimenti non saremmo mai
potute andare a fare passeggiate in campagna. Il suo sguardo era ormai
limpido, dritto nei miei occhi. Grugnì, grugnii, intesa perfetta.
Occorreva cogliere l’attimo.
Uno dei suoi maialini era un po’ più piccolo degli altri,
come fosse un po’ ritardato. Quando arrivava il secchio del latte era
l’ultimo dei 35 ad avvicinarsi, forse era stato travolto dall’irruenza degli
altri e preferiva stare in disparte. Dissi a X che quel maialino era troppo
piccolo e che avremmo dovuto darlo a Gianna e ovviamente sottrarlo per sempre
alla sorte che gli era stata organizzata. X, non si sa come e perchè,
accettò. Io credo che si stesse appassionando al caso e forse per la prima
volta in vita sua iniziava a vedere gli animali da un punto di vista nuovo.
Non so.
Michelino é stato allora preso dalla stanza dei maialini e
messo, da solo, nello stanzino dove fino al giorno prima c’era Gianna. Non so
perchè X non si fidava a metterlo subito con la Gianna, diceva che era meglio
aspettare un pochino. Gli mettemmo un collarino e lo portammo a fare un
giretto, giusto perchè iniziasse ad abituarsi a noi.
Pomeriggio ho preso Michelino e siamo andati davanti al giardino di Gianna. Appena si sono visti Gianna e Michelino hanno iniziato a grugnire a più non posso, ad usmarsi attraverso la recinzione, a fare scene da matti. X sosteneva che una volta perso il latte la scrofa non cerca più i maialini. Oggi ha avuto la prova che tutte queste scempiaggini da allevatore sono assolutamente infondate. No ho potuto, nè fisicamente nè moralmente, riportare indietro Michelino, da solo, nello sgabuzzino. Ho aperto la porta di casa della Gianna e l’ho infilato dentro, sperando dal profondo del cuore che non ci fossero problemi.
Gianna ha cominciato a girargli intorno, fuori di sè dalla
contentezza. L’ha leccato, ribaltato, seguito per tutto il tempo che siamo
stati a guardarli. Io, X e gli altri che erano lì, siamo rimasti ammutoliti
da questa scena di amore totale, un incontro che non dimenticheremo.
Michelino si è finalmente rilassato. A pancia in su, gli occhi socchiusi di
piacere, si godeva il grugno di Gianna sulla pancia. Di fianco alla sua
possente mamma ha ritrovato di colpo quell’equilibrio che sembrava non avere.
Li abbiamo lasciati da soli a godersi il chiaro della notte, ad annusare la
terra scura. Domani porterò una macchina fotografica per vedere se mi riesce
di raccontare i loro occhi, la loro soddisfazione, quell’imponderabile
sorriso che sembra a volte comparire sui loro volti.
Appena fuori dalla casa di Gianna e Michelino occorre tirare una tenda mentale, quella che io chiamo “della sopravvivenza”. Se non la tiri bene, se lasci degli spiragli, rischi la salute mentale e probabilmente il suicidio.
Infatti inizieresti a vedere che a 10 metri da loro ci sono
gli altri 10 maialini, e i 24 delle altre due scrofe. Poi c’è la nidiata di
12 mesi, quella che se ne andrà per prima, a dicembre, credo. Di là ci sono
Lucia e Diana, le altre due scrofe e Tommaso, il grande verro che fa fatica a
girarsi nel suo stanzino lungo e stretto.
Ci sono le 6 mucche e i 10 vitelli da carne. Le capre
sembra che siano, insieme a cani e gatti, le uniche a non rischiare la pelle.
E poi le galline mezze spennate, tenute nei recinti lucchettati perchè c’è
pure chi li va a rubare gli animali (non per liberarli ma per mangiarseli).
E più in là, a 700 metri in linea d’aria c’è
quell’orribile posto di Y con le mucche da latte dove X, preso da compassione
come dice lui, va a volte a ritirare i vitellini inutili perchè non vadano a
morire subito. A 3 km ci dev’essere un grosso allevamento di maiali perchè si
vedono i container per la farina e quando si passa in bicicletta lungo il
canale si sentono spesso delle urla spaventose. A 50 metri da casa mia, nel
cortile comune, c’è Z che alleva i suoi bei polli e conigli, per uso
familiare. I nipotini vanni lì a giocare, “ma che carini ma che carini”.
Quando ammazza i polli, però, i nipotini non ci sono mai. Poi c’è l’altra
vicina, che dice che “è orribile che è orribile”, ma dalle sue finestre arriva
spesso un buon odore di arrosto o di brodo. Ancora più in là ci sono infine
tanti miei amici, i parenti, tutti quelli che in questi anni avevo pensato
che sarebbe stato così facile coinvolgere. In fondo basta vedere alcune cose,
leggere quattro righe, documentarsi 10 minuti per capire in che orrore vivono
gli animali. No, non basta. Non so se basterà portarli a vedere Gianna e
Michelino. Non credo. Il loro bisogno di prosciutto si è così radicato nella
loro povera testa da essersi tramutato in una sorta di diritto al prosciutto.
Gianna e Michelino forse riusciranno a trascorrere una vita lieta, se non
proprio felice. E’ gente che gode di poco, una rapa, una prugna un po’ di
fango li fanno contenti. I miei parenti e amici, invece, non si accontentano
mai. Le conseguenze delle loro azioni sembra che non li riguardino.
Domani, quando andrò a trovare Gianna, se sarà libera e
avrà voglia, parleremo proprio di questo: qual’è il termine massimo che si
può concedere ad una persona informata e mediamente intelligente per cambiare
radicalmente le sue abitudini alimentari, prima di considerarla
definitivamente una stronza non ulteriormente frequentabile...
Alessandra; 18/09/06
Quattro mesi
dopo...
martedì 9 gennaio 2007
Oggi ammazzano la sorella della Gianna.
In realtà non c’è nulla di particolarmente strano in
questa cosa. Non è il primo maiale che ammazzano e non sarà l’ultimo. In
realtà si potrebbe dire la stessa cosa di un bambino ammazzato sotto un
bombardamento o di un uomo che viene impiccato perchè condannato a morte. Non
sarà nè il primo nè l’ultimo. E’ quindi inutile angustiarsi più di tanto.
C’est la vie, dicono tutti. Solo che la sorella della Gianna era lì a un
passo, anzi a tre metri per la precisione, dalla Gianna. Lei avrebbe potuto
essere la Gianna, la Gianna essere lei, nessuna differenza particolare, se
non una macchiolina grigia sulla parte desta del muso.
L’ammazzano pomeriggio, verso le due mi hanno detto.
Meglio che io stia alla larga. Io continuo a chiedermi perchè ogni volta,
anche se so che queste cose avvengono, perchè ogni volta mi stupisco come se
fosse la prima volta. Non riesco ad abituarmi.
In fondo lo so perfettamente, lo so più che bene che
mister X non può tenere 60 maiali anche se ha deciso che smetterà di
allevare. Lo ammiro, per questo: un allevatore analfabeta che ad un certo
punto della sua vita capisce che forse la passione per gli animali si può
soddisfare in altri modi, che pensa a come potrà sistemare la cascina per
farne una specie di fattoria cruelty-free. Deve ridurre il numero (anche
perchè, piuttosto che vivere come i suoi maiali, è molto meglio morire).
Ovvio che dovrà ammazzarne ancora. Paradossalmente sono stata proprio io a
suggerire a mister X di non far nascere nuovi animali e quindi di pensare
alla sorella della Gianna. Il primo passo per smettere di ammazzare è fermare
le nascite. La sorella della Gianna era incinta. Aveva scavalcato la barriera
che divide gli animali tra di loro. Non volevo che nascessero quei 9 10 o 12
maialini. Voleva dire due mesi di gabbia di contenzione per lei e un anno di
vita insulsa per loro. In realtà gli ho detto io che se avesse dovuto
scegliere tra due maiali qualsiasi, scegliesse lei, ammazzasse lei. Questa
cosa rende il tutto più inquietante. Perchè si scontrano due logiche diverse,
totalmente incompatibili, che si sovrappongono e non riescono a fondersi.
Questa schizofrenia (pensate se qualcuno avesse potuto ragionare così davanti
agli ebrei caricati nei vagoni per Auschwitz “prendete lei, non l’altra,
almeno i bambini che ha in pancia non dovranno venir torturati e ammazzati a
loro volta!”) la vivo nel mio cervello ed è la cosa che mi fa più star male.
Ai miei stessi occhi passo per un’infame. Ogni volta mi chiedo se andare lì
ha senso o se farei meglio a starmene alla larga definitivamente. Mi chiedo
se la vita di Gianna e Michelino, delle 7 caprette, delle due mucche e del
vitello che siamo riuscite a carpire dalle sgrinfie dei carnivori valgono
questo continuo stato di sentirsi collaborazionisti, traditori.
C’è un doppio binario nella nostra esistenza che ci fa
sopravvivere (fin che dura).
Possiamo sopportare fintanto che scusiamo gli altri, ci
appelliamo alla loro inconsapevolezza, li scusiamo per la loro superficialità
o indifferenza. Se penso al mio passato, se penso a 10 anni fa quando ero
carnivora, in fondo ero esattamente come oggi, non ero più cattiva, non ero
più buona. E questo mi impedisce, quando sono sul binario “della
maggioranza”, di odiare chi è carnivoro, mi impedisce di essere furiosa.
Quando sono sull’altro binario (quello della “minoranza”),
le persone mi paiono quasi tutte strane, abominevoli. Mi sembra di essere
diventata distaccata, indifferente a tutti tranne a coloro che condividono le
mie angosce e preoccupazioni. Non riesco più a comprendere, cerco, ma non
riesco più a comprendere. Non riesco più a sopportare il cinismo e
l’indifferenza nei confronti degli animali. So, perchè conosco l’altro
binario, che non dipende dalla cattiveria delle persone ma dipende solo
dall’aver o meno cambiato il punto di vista sul mondo animale e questo è un
processo che è sia sentimentale e emozionale che razionale e cosciente.
Ma una volta che si è capito, che si sono usati gli
occhiali a raggi infrarossi, che si vede quello che gli altri non vedono,
allora diventa sempre più difficile comprendere, giustificare, scusare.
Cambiare binario è sempre più raro, lo scartamento ridotto ci toglie l’aria,
quella, già poca, che abbiamo. Una volta che si è capito, tutto è lampante,
chiaro. Tutto è così perfettamente chiaro che non è più pensabile o
concepibile continuare a sopportare quello che si vede, quello che si sa.
Ed è questo che gli altri percepiscono di noi. La loro
irritazione deriva da questo: capiscono che non siamo più disposti a
tollerare, che il nostro dolore ha raggiunto livelli di non ritorno. Non
siamo più consolabili, non ci possono più distrarre con palliativi. Capiscono
che il tempo non ci basta più, che i binari si incontreranno sempre più
raramente, che le possibilità di incontro diventano sempre più difficili.
Oggi mente ero alla cascina e mister X mi ha detto di non
tornare prima delle 16.00 perchè avrebbero ucciso il maiale, io devo aver
cambiato faccia e lui mi ha chiesto se fossi arrabbiata “lo so che ogni tanto
qua si uccide qualcuno. Non è che sono arrabbiata, la parola non è giusta, ma
mettiti nei miei panni e capisci bene, allora, che cos’ho”. Lui, con la sua
superficialità attenta, con un’aria grave, solenne, seria, rispettosa del mio
stato d’animo mi ha detto “si lo so, capisco. Se dovessimo far tardi ti
chiamo, ti avviso”. Io so che capisce, penso veramente che comprenda.
In fondo, però, credo che chi non pensa come noi, immagina
che il nostro sia un problema personale di ipersensibilità. A volte mi viene
veramente il dubbio che sia così. E’ questa l’accusa che ci muovono: di
essere fuori di testa, di essere ipersensibili, di non saper accettare la
crudeltà che è insita negli eventi della natura, di crederci superiori e
quindi giudici del mondo, di aver perso il senso della misura, di avere
l’ossessione della morte e di non saper gustare il piacere di vivere.
Un mio carissimo amico una persona stimabile che se fosse
nato 90 anni fa avrebbe probabilmente fatto il partigiano mi ha detto che
“insomma non esagerare, in fondo non si può paragonare un maiale ad un
bambino”. Ecco a volte mi chiedo cos’ha di così scandaloso pensare che un
animale sia come un bambino, perchè è esattamente questa frase quello che ci
differenzia, che crea l’abisso. Perchè veramente io penso che la Gianna sia
bella e importante come un bambino. Ecco questa frase crea un vuoto,
scandalizza. Non potrà mai permetterci di comunicare finchè non sarà compresa
fino in fondo e io non ho strumenti facili, di uso immediato che riesco ad
utilizzare in una normale conversazione per spiegare perchè un animale è come
un bambino. E’ questo abisso di incomprensione che ci fa sembrare fanatici.
Questa incomunicabilità è anche quello che ci fa diventare rabbiosi perchè
noi, siccome crediamo veramente che gli animali siano come bambini, siamo
perennemente circondati da assassini. Magari gentili, premurosi, simpatici.
Sono ora le due in punto.
Alessandra Galbiati
Visto su LAV.it
Link: http://www.lav.it
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giovedì 28 marzo 2013
LA PICCOLA STORIA DI GIANNA, MICHELE E, PURTROPPO, ANCHE DEGLI ALTRI
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