IL NATALE E L’ALTARE
Quando in principio Dio creò il cielo e
la terra (Gen 1, 1), nel sesto giorno,
costruì l’altare, consacrò il sacerdote e fu glorificato da quell’oblazione pura e santa, che da una creazione
incontaminata, saliva al cospetto della Divina Maestà. Quell’altare, quel
sacerdote e quel sacrificio immacolato era Adamo, l’immagine e somiglianza di
Dio, risplendente della grazia soprannaturale, la compiacenza del Creatore, il
cuore e il vertice dell’intera creazione, l’immagine di quel nuovo Adamo, che
era ancor prima di Adamo e doveva venire nel mondo nella pienezza del tempo per ricapitolare in sé tutte le
cose, quelle del cielo come quelle della terra (Ef 1, 10).
Dalla mensa candida della
mente incorrotta di Adamo e dall’ara del suo cuore vergine e illibato, saliva a
Dio l’obbedienza perfetta, che Dio stesso gli aveva richiesto, quando gli
disse: Dell’albero
della conoscenza del bene e del male non ne devi mangiare (Gen 2, 17). Fedele a questo suo mirabile
mandato liturgico Adamo esercitava, con sovrana signoria e indicibile gaudio,
il suo sacerdozio regale, offrendo al Creatore la lode perenne di ogni
creatura, che a guisa di un universale offertorio, doveva passare tra le sue
mani sacerdotali per essere presentata all’Onnipotente, quale sacrificio
splendido di soave profumo. Il grande tempio dell’universo, impronta della
gloria di Dio, riceveva dalla grazia che fluiva da Adamo - altare, sacerdote e
offerta - quella dedicazione a Dio per cui tutte le cose sono state fatte e
l’universo intero risplendeva della gloria del suo Creatore. E così mediante
Adamo, con lui e in lui, nell’atto supremo del suo sacerdozio, l’intera
creazione trovava il suo senso, il suo fine e il suo compimento, nella
glorificazione beatificante della SS. Trinità.
Ma quando l’uomo, con la
disobbedienza originale, infranse il suo altissimo ministero, tutto si
corruppe: l’altare fu profanato, il sacerdozio svilito, il sacrificio reso
impotente. Distrutto l’altare tutto il tempio del creato fu esposto alla
desolazione e il gemito delle creature si elevò drammatico sotto il giogo del
peccato, che tutto travolse, avvolgendo ogni cosa nelle tenebre e nell’ombra di
morte (Lc 1, 79) .
Il Signore tuttavia non
abbandonò l’uomo alla sua prevaricazione, ma subito preannunziò la
ricostruzione di quell’altare, la
riconsacrazione di quel sacerdote e l’offerta di quel sacrificio santo e
perfetto, che non avrebbe più avuto fine. Nelle misteriose parole del
protoevangelo - Io
porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa
ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno (Gen 3, 15) - si delinea la figura del secondo
Adamo, del quale la lettera agli Ebrei afferma essere: santo, innocente, senza macchia,
separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli (Eb 7, 26). I profeti lo annunziarono molte volte e in diversi modi (Eb 1, 1).
Tra il vasto prisma delle
profezie, poco prima del Suo avvento nel mondo, le Sacre Scritture lo
annunziarono anche in un singolare evento storico, relativo alla profanazione
del tempio e dell’altare ad opera di Antiocho Epifane e del conseguente
riscatto da parte dei Maccabei. Cacciato l’usurpatore pagano, Giuda Maccabeo
purificò il luogo sacro, dedicò l’altare e riprese il sacrificio.
Tutto questo avvenne in una data singolare, il
25 del mese di Casleu e fu in seguito sempre celebrato con una della
più singolari feste ebraiche, quella della Dedicazione, detta pure festa delle luci.
Il Signore Gesù stesso la
celebrò, come ricordano i Vangeli (Gv 10, 22 ), ma soprattutto Egli scelse di
nascere proprio in quei giorni santi, il 25 dicembre, quando appunto il suo
popolo celebrava la Dedicazione. E’ il Natale cristiano e la Chiesa, cantando
il Martirologio nella santa notte, accenna alla nascita del
Signore come ad un solenne atto di dedicazione: ...volendo consacrare il mondo con
la sua piissima venuta...(Martirologio
del 25 dic.). Veramente l’uomo e il mondo profanati dal peccato, sono nuovamente
e definitivamente dedicati a Dio, mediante la nascita nel tempo dell’ultimo
Adamo, che pone in Betlemme se stesso come nuovo Altare, Sacerdote eccelso e
Sacrificio di soave profumo: Si
legge infatti nella Scrittura: Ecco io pongo in Sion una pietra, angolare,
scelta, preziosa e chi crede in essa non resterà confuso (Pt 2, 6).
Il Padre dei cieli vede
nell’unigenito suo Figlio la realizzazione piena di quell’altare, di quel
sacerdote e di quell’oblazione, che nel primo Adamo crollò rovinosamente,
portando il mondo alla rovina. Dal santo altare dell’ umanità del Verbo
incarnato fluisce nel mondo intero la grazia della rigenerazione soprannaturale
e l’intera creazione viene riconsacrata come un tempio e le creature tutte
riconsegnate al loro Creatore.
Veramente allora la notte di Natale è quella notte di luce
in cui è dedicato l’Altare, Cristo Signore. Egli, dopo aver esercitato il suo
sacerdozio nei giorni della sua vita terrena (Eb 5, 7), salirà glorioso
alla destra del Padre davanti al quale, sull’altare d’oro del cielo (Ap
8, 3), farà salire l’incenso perenne del suo sacrificio immortale: un
sacerdozio eterno che non tramonta mai...(Eb 7, 24).
Per questo sarebbe liturgicamente interessante che in
preparazione alla santa Messa nella notte di Natale l’altare, tenuto sobrio in
Avvento, sia solennemente illuminato e quasi inaugurato, mentre il diacono
proclama la meravigliosa Kalenda
che annunzia l’ingresso nel mondo del Sommo Sacerdote e l’inizio della
grande celebrazione dedicatoria del tempio dell’universo che nel silenzio della
notte santa ha il suo misterioso esordio.
ALLE RADICI DELL'ALTARE CRISTIANO
Di don Enrico Finotti, parroco di S. Maria del Carmine in Rovereto (TN),
Per comprendere in profondità la natura e la funzione
dell’altare nella liturgia cattolica è indispensabile una adeguata indagine
storica sulla sua origine e sul suo coerente sviluppo. Essa tuttavia non
basterà. Infatti, si potranno capire le successive scelte storiche in ordine
all’altare approfondendo la teologia sottesa, in base alla quale l’altare
assunse forme e arredi consoni alla visione teologica che si voleva
trasmettere.
E’ normale che venga individuata l’origine dell’altare
cristiano nella mensa del cenacolo,
sulla quale nostro Signore istituì il Sacrificio eucaristico e il Convivio
sacro del suo Corpo e del suo Sangue. Veramente la mensa dell’ultima cena è il
referente originario e originante dell’unico e definitivo Sacrificio del Nuovo
Testamento.
Da qui parte quell’oblazione pura che dall’oriente
all’occidente è offerta fra le genti e in ogni luogo (Ml 1, 11).
Occorre tuttavia approfondire e non fermarsi ad una facile
visione superficiale, che potrebbe svuotare quel Sacrificio della sua profonda
sostanza per fissarsi nella debole espressione di un ordinario convito
umanitario ed usuale. In realtà, quando la famiglia ebraica si riuniva per la
cena pasquale si relazionava in modo intimo e indissolubile con l’altare del tempio
di Gerusalemme, sul quale in antecedenza veniva immolato l’agnello, che portato
sulla mensa domestica consentiva la celebrazione della Pasqua.
Senza quella vittima
sacrificata sull’ara del tempio e trasferita poi sulla mensa delle case, la
cena pasquale perdeva la sua identità. La relazione all’immolazione
dell’agnello nel tempio era tanto necessaria che, per celebrare la Pasqua, si
doveva alloggiare a Gerusalemme o nelle vicinanze. Non era, infatti, possibile
stare fuori Gerusalemme, ossia lontani dal tempio, perché dal tempio veniva
l’agnello immolato e ad esso rimandava.
La cena pasquale ebraica era dunque una cena sacrificale, un banchetto mediante il quale si partecipava
della vittima sacrificale. Ed ecco che mensa
ed ara si trovano intimamente unite,
geneticamente e indissolubilmente interiori l’una all’altra.
Tolta l’ara è compromessa totalmente la natura di quella
specifica mensa imbandita per la cena pasquale. Nel cenacolo però il Signore
opera la novità e crea la realtà di quello che fino ad ora era figurato nelle
antiche profezie e nel sacrificio dell’agnello.
Egli immola incruentamente se stesso nel contesto ancora visibile del
segno profetico dell’agnello, che come ombra sta ormai per scomparire e cedere
il posto alla realtà, Cristo Gesù, col suo Corpo e il suo Sangue immolati nelle specie sacramentali del pane e
del vino.
E’ evidente che, nel mentre lo sguardo del Signore si ritrae
ormai dalla figura dell’agnello che passa e dall’ara del tempio su cui fu
immolato, si fissa con divina preveggenza e immedesimazione mistica sull’ara
della Croce, che lo attende sul Calvario. Egli, infatti, anticipa
sacramentalmente sulla mensa della cena e nella forma del convito il sacrificio
cruento che avrebbe offerto di li a poco sull’altare della Croce.
La Croce, quindi entra nel cenacolo si pianta sulla sua
mensa e, mentre l’antica ara del tempio si ritira, avendo assolto la sua
funzione profetica, si erge ormai sovrana quale sostanza interiore di ciò che
si compie nell’ultima cena e che si ripeterà per tutti i secoli fino alla fine
del mondo per comando del Signore Fate questo in memoria di me.
Mensa, Ara e Croce,
ecco i tre simboli interiori e indissolubili del mistero grande che si compie
nell’istante consacratorio quando il Signore, pronunziando le parole divine -
Questo è il mio Corpo… Questo è il mio Sangue…-, istituisce il Sacrificio
perenne, senza più tramonto. Le tre figure di riferimento – mensa, ara e croce
– prima ancora di trovare espressione fisica nell’altare cristiano sono
presenti nella sostanza stessa dell’atto sacrificale di Cristo e costituiscono,
ancor prima di trovare la loro traduzione materiale nella liturgia, la forma
interiore dell’atto sacrificale del Signore. Nel Cenacolo è visibile solo la
Mensa, l’Ara del tempio è richiamata dall’agnello immolato, la Croce ancora non
si vede, ma tutto è presente e unitario nella mente divina e nel cuore amante
del Salvatore.
A questo punto si comprende bene perché la Chiesa, avuta la
libertà religiosa (IV sec.) poté procedere alla costruzione dell’altare
cristiano nel modo che la storia e l’arte ci attestano. Appena possibile la
semplice mensa lignea, usata nelle case nei secoli della persecuzione, divenne
l’altare marmoreo in tutto simile all’ara sia ebraica che pagana, ma eloquente
per esprimere ciò che l’Eucarestia era in realtà, il Sacrificio di Cristo.
Al contempo tale ara monumentale e preziosa non abbandonò la
mensa, ma la assunse in sé adattandosi ad accogliere i santi doni conviviali e
rivestendosi con una candita tovaglia. Infine, quando la Croce gloriosa del
Signore potè essere rappresentata come un vessillo di vittoria e annunziare al
contempo la sua Morte, la sua Risurrezione, la sua Ascensione e la sua mirabile Venuta nella
gloria, non tardò a trovare il suo posto più logico e conveniente proprio sulla
mensa di quell’ara sulla quale il sacrificio della Croce si attualizzava
sacramentalmente.
Ed ecco che Mensa,
Ara e Croce, possono costituire anche in modo visibile, nello splendore
delle basiliche monumentali e nella solennità dei riti pontificali, il segno
materiale e prezioso del mistero che si compie sotto la coltre del sacramento.
Non si trattò certamente di una corruzione della semplicità delle origini, ma
di uno sviluppo necessario e legittimo, coerente con la struttura interiore del
mistero e che si esprimerà nel pensiero cristiano nella successiva sistemazione
teologica relativa al dogma eucaristico. In tal senso, la Mensa, l’Ara e la
Croce, sono talmente collegate alle dimensioni costitutive del mistero fin
dalla sua istituzione da essere ormai ingredienti liturgici insopprimibili
nell’edificazione dell’altare cristiano. Esso, infatti, per esprimere in modo
completo ed equilibrato l’intero mistero del Sacrificio conviviale
dell’eucaristia, dovrà avere la monumentalità dell’Ara, la dignità della Mensa
e la gloria del vessillo della santa Croce.
L’ALTARE STA IN ALTO
L’altare sta in alto
e se non eleva perde la sua natura più vera. Si può in tal modo affermare
una semplice regola: all’altare si ascende come al battistero si discende. Se
l’etimologia alta-ara potrebbe essere ancora discussa e non da tutti è
accettata, la storia dell’ altare cristiano e ancor prima di quello ebraico e
pagano, afferma la sua posizione elevata. In particolare, non potendo accedere
all’altare mediante i gradini per questioni di purità cultuale, nel tempio di
Gerusalemme si saliva mediante una rampa (Es 20, 24-26). Ma è soprattutto
nell’approfondire l’atto liturgico che si celebra sull’altare, il sacrificio,
che emerge in tutta chiarezza la necessità della posizione alquanto elevata
dell’altare.
Nell’offerta del sacrificio si cerca il rapporto con Dio, ci
si eleva a lui e tutta la ritualità porta a proiettarsi verso il cielo, lì dove
l’intuito religioso universale contempla il trono di Dio: il corpo sale i
gradini dell’altare, le mani si elevano verso l’alto, lo sguardo fissa le
profondità sideree dei cieli. Ecco le movenze più spontanee che il sacerdote
assume nell’azione sacrificale, ed è logico che tale spinta interiore sia
tradotta visibilmente nei gesti del corpo e fissata materialmente nella
posizione alta e maestosa dell’altare.
Possiamo allora individuare nella struttura interiore
(metafisica) dell’altare due movimenti profondamente correlati e concordi
nell’esprimere la direzione ascendente. L’altare sale verso la Maestà divina e
segue le volute dell’incenso che ascendono in sacrificio di soave odore. Esso
guarda certamente il popolo, ma non per muoversi verso di esso, quanto per attrarlo nella sua ascesa
cultuale. Per questo l’altare assumerà una posizione otticamente centrale,
ben visibile da tutta l’assemblea liturgica, per poter trainare dolcemente il
popolo di Dio nel movimento ascendente dell’oblazione sacrificale, che sulla
sua mensa si compie nel mistero sacramentale. E’ quindi consono alla natura più
intima dell’altare salire e far salire tutti coloro che all’altare volgono lo
sguardo adorante verso la contemplazione della Gloria divina.
Il moto esattamente inverso, invece, si produce per la
mensa. Essa deve discendere e rivolgersi fisicamente il più possibile verso i
fedeli. Essa, infatti, porge la vittima immolata quale cibo e bevanda di
salvezza. Questo moto del discendere e del rendersi prossima all’assemblea
liturgica le è quindi necessario e connaturale ed è pienamente conforme al suo
stesso essere mensa che nutre. Questo duplice ruolo di altare che ascende e
attrae e di mensa che discende e si avvicina ai fedeli si esplica nella
liturgia eucaristica che distingue la prece consacratoria in cui si compie il
sacrificio, dai riti di comunione in cui la vittima immolata è data in cibo ai
commensali.
Possiamo allora rilevare che gli altari storici esprimevano
la loro natura ascendente-sacrificale e, senza mai rinunciare alla mensa in
essi incorporata, la integravano ulteriormente con la balaustra, che nella sua
posizione bassa e prossima ai fedeli consentiva la distribuzione del Corpo del
Signore.
Gli altari
postconciliari, invece sembrano aver abbandonato il loro moto saliente in
favore di una totale riduzione al loro ruolo di mensa. In tal modo essi non
sono più in alto, ma in piano e fisicamente il più possibile prossimi
all’assemblea. Il moto discendente e rivolto al popolo proprio della mensa è
diventato esclusivo e totalizzante. Tale realtà si nota anche negli altari resi
definitivi e anche dedicati, certamente solidi nella loro struttura marmorea,
ma sempre e solo mensa. In altri termini si potrebbe dire che l’intera
celebrazione del Sacrificio eucaristico è ridotta prevalentemente al rito di
comunione. Certamente il Sacrificio si compie, ma la nuova configurazione
dell’altare non lo esprime più come prima avendo rinunciato a modellare in se
stesso le caratteristiche classiche che sono proprie dell’ara sacrificale. Per
questo fu facile anche la rimozione così vasta della balaustra, avendo l’altare
stesso assunta la sua funzione.
Ebbene, oggi si ode l’allarme del Magistero sulla
crisi della dimensione sacrificale dell’Eucaristia.
Non potrebbe essere opportuna allora una nuova e più
profonda riflessione sulle modalità liturgiche dell’altare?
E’ da ritenere ormai acquisita ed insuperabile la
conformazione dell’altare alla forma della sola mensa, senza più ricuperare
anche quella dell’ara elevata e maestosa?
Non potrebbe nel tempo questa riduzione dell’altare
condizionare l’equilibrio del dogma eucaristico, che si trasmette nel cuore dei
fedeli primariamente nella correttezza del rito e dei luoghi liturgici che ad
esso sono connessi?
Gli altari storici sono da congedare definitivamente e il
loro ruolo è ormai del tutto museale?
La storia della
Chiesa e della sua liturgia non è forse ancora aperta ad uno sviluppo coerente
ed organico, che potrebbe trovare per l’altare nuove sintesi in perfetto
accordo con la tradizione dei secoli?
Credo che il Santo Padre Benedetto XVI stia richiamando alla
Chiesa proprio queste problematiche e in tal senso il suo Magistero ha la forza
della profezia.
Di fronte a un documento come questo e alla distanza di anni
luce che separa questi insegnamenti da quelli del cammino NC non possiamo che
dirlo e ripeterlo: abbiamo a che fare con 'unicum' anomalo con caratteristiche
settarie (iniziazione di tipo gnostico, segreto iniziatico, forte connotazione
identitaria separata) che si è infiltrato nella Chiesa, niente di più e niente
di meno.
L’altare è ordinariamente corredato da tre principali segni
in rapporto ai tre aspetti dogmatici dell’Eucaristia:
- la croce, “sopra l’altare o accanto ad esso”
(OGMR, 308), che ricorda il Sacrificio pasquale di Cristo che si celebra
sull’altare in modo sacramentale;
- la “tovaglia di colore bianco” (OGMR, 304), che
richiama la santa Cena, forma rituale per la celebrazione dell’Eucaristia ;
- “i candelabri ... in segno di venerazione e di
celebrazione festiva” (OGMR,307), ma anche richiamo alla Presenza reale del
Signore risorto e dell’azione del suo Santo Spirito.
E’ un luogo comune ritenere che gli arredi dell’altare siano
casuali o comunque di poca importanza e, di conseguenza, vengano disposti in
modo improprio o eliminati. In realtà anche l’arredo liturgico dell’altare
rivela aspetti essenziali del Mistero e rende visibile nel simbolo le
dimensioni interiori del Sacrificio e del Convito, che sull’altare si compie.
Dobbiamo subito chiarire che per arredo liturgico dell’altare non si intende la
materia del divin Sacrificio, ossia le oblate (pane, vino ed acqua), ma quegli
oggetti che costituiscono quasi le ‘insegne’ dell’altare stesso e lo
configurano come ‘icona’ di Cristo Sommo Sacerdote, che compie l’azione
liturgica. Ed ecco che la tovaglia,
la croce e almeno i due ceri proclamano le
tre parti indissolubili dell’evento eucaristico: la reale Presenza, il
Sacrificio e il Convito.
Distendere sull’altare una tovaglia di colore bianco significa
affermare che su di esso si compie il Convivio sacramentale secondo le parole
del Signore “Prendete e mangiate...prendete e bevetene tutti”;
disporre ai lati dell’altare due ceri o due gruppi di ceri significa richiamare
la reale Presenza, che si attua nelle parole di Cristo, uomo-Dio: “Questo è
il mio Corpo...Questo è il mio Sangue”; porre sull’altare la croce
significa riconoscere che lì si attualizza l’unico Sacrificio del Calvario,
secondo le stesse parole del Redentore “Corpo offerto in sacrificio...
Sangue versato in remissione dei peccati”.
Gli arredi liturgici allora rendono visibile l’intero
mistero nei suoi tre aspetti teologici essenziali e indivisibili: Presenza, Sacrificio, Convito. Vi
potranno essere altri elementi decorativi, ma questi rimangono secondari
rispetto ai tre principali, che, invece, esprimono i contenuti intrinseci alle
stesse parole istituzionali dell’Eucaristia. Preparare l’altare con la tovaglia,
la croce e i ceri significa descrivere con segni visibili gli
aspetti invisibili dell’evento sacrificale e conviviale, che il
Signore stesso realizza, rendendosi presente in modo ‘vero, reale e
sostanziale’.
L’Ordinamento Generale del Messale Romano (OGMR) afferma: “Vi
sia sopra l’altare, o accanto ad esso, una croce, con l’immagine di Cristo
crocifisso, ben visibile allo sguardo del popolo radunato”. (OGMR, 308).
La regola classica della croce, che sta sopra l’altare, rimane
sempre valida come prima modalità che il novus ordo ha sempre previsto.
Tuttavia, alla luce delle concrete realizzazioni postconciliari, la concessione
che la croce possa essere collocata anche accanto all’altare, ha portato
in molti casi a soluzioni dubbie in ordine all’ efficacia simbolica. Infatti la
croce si è a tal punto allontanata dall’altare, da non apparire più come
legata ad esso, ma, diventata autonoma, ha formato un proprio spazio
indipendente.
Una croce lontana dall’altare, infatti, non interpreta più
la sua identità di croce d’altare e in relazione intima con esso. La
disposizione classica della croce al centro e dei candelabri ai lati
sull’altare è certamente quella che assicura meglio la loro natura di insegne
proprie dell’altare, in quanto fanno corpo con esso. Questa forma è certamente
la meta migliore che si dovrebbe raggiungere, anche secondo le indicazioni del
Sommo Pontefice. Non è tuttavia di immediata riuscita disporre con gusto
sull’altare rivolto al popolo, al centro della mensa, la croce, ma, con
intelligenza, equilibrio e senso estetico è possibile e auspicabile. Si tratta
di evitare da un lato di creare una barriera così corposa da togliere ogni
visibilità del sacerdote che compie gli atti del divin Sacrificio e dall’altro
di non eccedere in dimensioni tali, quali la verticalità della croce e dei
candelabri, da ledere le proporzioni e il senso estetico in rapporto alla massa
talvolta esigua dell’altare ad populo.
Ciò è adeguatamente richiamato dal Messale che afferma:
“...tenuta presente la struttura sia
dell’altare che del presbiterio, in modo da formare un tutto armonico; e non
impediscano ai fedeli di vedere comodamente ciò che si compie o viene
collocato sull’altare” (OGMR, 307).
Certe croci processionali preziose, poste su un apposito
ceppo, potrebbero egregiamente stare al centro dell’altare e costituire quella
centralità del Kyrios, che attrae sia il sacerdote come l’intera assemblea e
costituire veramente il cuore scintillante e l’insegna gloriosa dell’altare.
E’ necessario anche osservare che la croce, pur prossima
all’altare, ma laterale, non afferma con la dovuta evidenza quella centralità
ottica che sarebbe richiesta per il sacerdote e per l’intera assemblea, come
ben si esprime il Messale “ben visibile
allo sguardo del popolo radunato”
(OGMR, 308). Una croce fuori dall’altare bipolarizza l’attenzione, la croce al
centro dell’altare crea un unico polo di attrazione: l’altare, il cui titulus
è la croce.
Anche far valere come croce d’altare la croce processionale,
che raggiunge l’altare con la processione introitale e lo lascia nuovamente
nella processione di congedo - uso peraltro non estraneo nella storia liturgica
- non asseconda all’esigenza che l’altare debba rimanere sempre, anche fuori della
celebrazione, rivestito con la dignità di tutte le sue insegne: “Conviene che
questa croce rimanga vicino all’altare anche al di fuori delle celebrazioni
liturgiche, per ricordare alla mente dei fedeli la salvifica Passione del
Signore” (OGMR, 308).
Il Messale, quindi, offre legittime libertà di scelta,
tuttavia bisogna prender coscienza delle varie problematiche che da questa
libertà ne possono insorgere.
“I candelabri, richiesti per le singole azioni liturgiche,
in segno di venerazione e di celebrazione festiva, siano collocati o sopra
l’altare, oppure accanto ad esso, tenuta presente la struttura sia dell’altare
che del presbiterio, in modo da formare un tutto armonico; e non impediscano ai
fedeli di vedere comodamente ciò che si compie o viene collocato sull’altare”
(OGMR, 307).
Come si può vedere rimane sempre valida la norma di
collocare i candelabri sopra l’altare, anzi è proposta come prima forma. E’
quindi erroneo affermare che i candelabri non debbano mai stare sulla mensa
dell’altare, ma sempre e solo accanto ad esso. Il recente uso della Cappella
papale non fa che riprendere ciò che fu sempre ammesso e tuttora conforme al
Messale vigente.
Da molte parti, però, si è ormai perduto il criterio
simbolico nella disposizione dei candelabri dell’altare. Da un lato vi è il
caso dei candelabri raggruppati insieme in una zona qualunque del presbiterio,
senza alcuna relazione con l’altare; dall’altro si riuniscono i ceri su un
angolo della mensa e sull’altro si mettono i fiori.
Nel primo caso si fa dei candelabri un polo a se stante,
senza alcun rapporto con l’altare. Da ciò l’effetto di una zona presbiteriale
invasa da una molteplicità di elementi (altare, ambone, sede, croce, candele,
tabernacolo, ecc.) dislocati qua e là, senza più la loro reciproca relazione.
In realtà anche i candelabri, come la croce, non possono costituire un polo a
parte, ma devono essere strutturalmente correlati con l’altare al quale
appartengono.
Nel secondo caso, molto diffuso, si compromette il senso
sacro dell’altare, uniformandolo ad una comune mensa domestica. Ora l’altare è
sì anche mensa, ma è la Mensa del Signore, sulla quale viene deposto il suo
Corpo e il suo Sangue e dalla quale si innalza il suo Sacrificio redentore. Per
questo l’arredo liturgico deve rivelare il mistero invisibile e ad esso condurre l’animo dei
fedeli. I ceri dell’altare quindi non sono semplicemente come quelli che
allietano una cena di gala, ma devono poter proclamare la presenza viva di
Cristo e del suo Spirito e muovere i cuori dei presenti alla venerazione. Per
riuscire in questo intento sacro è necessario adottare una regola ben precisa,
diversa dall’uso profano. Disporre i due candelabri (o ceri) o i due gruppi di
essi sui due lati della mensa delinea un’identità esclusiva e tipica
dell’altare, sottolinea la centralità della croce, se questa si erge nel
mezzo, e il popolo cristiano, subito, ne coglie l’originalità nella
continuità della tradizione liturgica.
Sarebbe anche interessante, che nei candelabri, posti simmetricamente
alle due estremità della mensa, o comunque divisi dalla croce che sta i mezzo,
si ravvisi il simbolo delle due nature del Verbo incarnato, vero Dio e vero
Uomo. La croce poi, quale vessillo di passione e di gloria, compirebbe il
simbolo col riferimento alla Pasqua di morte e risurrezione. Così l’altare
rappresenta ‘iconicamente’ Cristo nei due fondamentali aspetti del suo Mistero:
l’Incarnazione e la Redenzione. In tal modo la Presenza reale e l’Atto
sacrificale troverebbero una mirabile espressione simbolica.
In questa luce potrebbe essere interessante l’ inaugurazione
dell’altare nella notte di Natale, quando si accenderebbero i suoi ceri nella
eventuale veglia lucernale, che prepara la Missa in notte.
Una parola deve essere detta sull’uso antico dei sette
candelabri nella celebrazione stazionale del vescovo. La norma, anche se
facoltativa, è ancora prevista sia dal Messale Romano (OGMR, 117), come
dal Cerimoniale dei Vescovi (CE,125,128). I sette candelabri sono posti
sull’altare e anche portati nella processione introitale e finale. E’ interessante
il loro simbolismo attinto dall’Apocalisse 1, 12-13. 16. 20:
“... vidi sette candelabri d’oro e in mezzo ai candelabri c’era uno simile a figlio di uomo... nella destra teneva sette
stelle... Questo è il senso recondito delle sette stelle che hai visto nella
mia destra e dei sette candelabri d’oro, eccolo: le sette stelle sono gli
angeli delle sette Chiese e le sette lampade sono le sette Chiese”.
La visione dell’Apocalisse viene resa plastica nella Croce posta al centro dell’altare attorniata da
sette candelabri. Tale visione riconduce all’esercizio del sacerdozio celeste
del Kyrios, che si attua pure nel sacrificio sacramentale che si compie
sull’altare terrestre.
Si evidenzia in tal modo la dimensione gloriosa del
sacerdozio e del sacrificio eucaristico, che si attua sotto il velo del
sacramento: è il Kyrios, risorto e glorificato che presiede, nel fluire
del tempo, mediante il ministero del Vescovo, l’unico ed eterno sacrificio, che
perennemente è offerto sull’altare del cielo. Il riferimento poi alle sette
Chiese, afferma la pienezza della liturgia pontificale, nella quale si
attua col massimo grado sacramentale, localmente, il mistero della Chiesa una,
santa, cattolica e apostolica (SC, 41).
Il simbolo è ulteriormente specificato in Apocalisse 4,
5: “...sette lampade accese ardevano davanti al trono, simbolo dei sette
spiriti di Dio” (cfr. Zc 4, 10). L’uso
dei sette candelabri afferma anche la pienezza dell’effusione dello Spirito
Santo, lì dove il Vescovo presiede solennemente alla celebrazione del divin
Sacrificio.
E’ evidente che l’insieme di questi simboli conviene in modo
sommo alla celebrazione papale, termine di comunione universale di tutte le
Chiese e massima presenza dello Spirito che aleggia sulla Chiesa.
Non soltanto nella prassi di alcune chiese moderne, ma anche
nella teoria di talune attuali linee di pensiero si ammette e si propone l’idea
e la realizzazione di un altare, che fuori della celebrazione dovrebbe rimanere
sempre spoglio. In ambienti artistici ed estetici si contempla in questo una
nobile maestà e in una visione raffinata, ma elitaria, si ritiene di
potenziarne in tal modo la sua sacralità. Storicamente tale prassi fu presente e non si
può misconoscere il fascino anche dell’altare spoglio.
Tuttavia nella celebrazione della liturgia si deve attenersi
a quella forma che la Chiesa riconosce adatta al nostro tempo e, sarebbe un
indebito archeologismo ricorrere a forme
storiche interessanti, ma non recepite dalla disciplina attuale della Chiesa.
La liturgia ha una storia e nel flusso di questa storia dobbiamo inserirci
rimanendo però fedeli all’oggi e operando in sintonia con la celebrazione viva
della Chiesa odierna.
Attualmente la Chiesa non considera l’altare sempre spoglio,
ma lo ritiene, invece, sempre ‘rivestito’ delle sue fondamentali insegne:
tovaglia, croce e candelabri. Soltanto il Venerdì e il Sabato santo la liturgia romana stabilisce che
l’altare sia totalmente spoglio (privo di tovaglia, candelieri, croce, tappeti,
ecc.), quale ‘icona’ della passione del Signore e assenza, in questi giorni
austeri, della celebrazione del divin Sacrificio. Cristo, infatti presiede
sempre alla sua Chiesa e l’altare è il segno di Lui ed è luogo di venerazione
anche fuori del rito, a chiesa vuota.
Anzi un più ricco
addobbo dell’altare (ceri, fiori, paliotto, ecc.) sottolinea la festa della
Chiesa nelle solennità liturgiche, mentre l’assenza dei fiori esprime
l’austerità tipica del tempo penitenziale e una certa sobrietà accompagna il
tempo ordinario.
Con un altare permanentemente spoglio non si vede come
esprimere la desolazione del Venerdì santo, né come creare il diverso clima
di solennità nello scorrere dell’Anno Liturgico, né come assicurare che anche
fuori della celebrazione sia un luogo di venerazione e di preghiera per i
semplici fedeli, che con difficoltà hanno la percezione elitaria di un artista
o di un teologo.
E’ intuitivo capire che un altare ben addobbato, con una
decorosa tovaglia e la centralità di una croce veramente bella ed espressiva
attira la preghiera più che uno splendido altare marmoreo, ma freddo e nudo,
che potrebbe non parlare facilmente ai ‘poveri’ del popolo di Dio.
Se si vuole ritornare ad educare i fedeli a riconoscere
nell’altare, anche fuori del rito, il segno di Cristo, il Kyrios, e a
prostrarsi davanti ad esso, come facevano gli antichi, bisogna evitare forme
eccessivamente ermetiche e trovare quell’equilibrio di bellezza, tradizione e
calore spirituale che è connaturale al migliore genio liturgico e pastorale
dei secoli cristiani. La nobiltà dell’altare che risplende per mirabile arte
eleva la fede, purifica i contenuti del dogma e suscita il senso del vero e il
gusto del bello negli intellettuali e nei ‘semplici’, che presso l’altare di
Dio diventano tutti bambini. Per questo il calore della preghiera, che nasce
dal cuore, non può abbandonare l’altare e spingere i fedeli in luoghi laterali
e forme alternative, legittime, ma che sono sempre rivoli che hanno la loro
unica sorgente nella Presenza e nel Sacrificio che sull’altare si compie.
Domandiamoci: Guardando all’altare maggiore delle nostre
chiese, possiamo spontaneamente esclamare: Presso il tuo altare, Signore, il
mio cuore trova la pace ?
In questa riflessione è voluto proporre una necessaria verifica sugli arredi dell’altare per non continuare ad essere dominati da pregiudizi gratuiti, assunti in modo acritico da usi ormai diffusi, ma scorretti e abusivi. E’ necessario riprendere con intelligenza e buon gusto aspetti importanti, abbandonati con troppa facilità e che assicurano, nella continuità della tradizione, la profonda ricchezza dei simboli liturgici.
Si tratta di far nuova chiarezza, nel tumulto talvolta
frettoloso e superficiale, in cui ci può condurre una prassi liturgica senza
teologia e senza radici. In tal modo la riforma liturgica viene potenziata,
recuperando la densità simbolica della liturgia di sempre in vista di una
sintesi superiore e più ricca.
L’ALTARE NELLA STORIA
La storia dell’altare cristiano è molto varia e manifesta
la ricchezza insondabile del mistero della nostra fede. Ogni epoca presenta
caratteristiche proprie e si esprime con genialità, secondo le diverse
sottolineature e sensibilità teologiche dell’identico dogma della fede.
Possiamo catalogare quattro fasi nello sviluppo dell’altare: l’altare antico,
medioevale, barocco e attuale.
Il ciborio conferisce all’altare antico una dignità
speciale senza intaccarne la struttura, ma circondandola di venerazione e di solennità.
Mediante il ciborio la piccola massa dell’altare
si impone nello spazio vasto e solenne della basilica e ne è assicurata la sua
centralità. Le sue colonne rimandano all’immagine biblica della “Sapienza
che si è costruita la casa e ha intagliato le sue sette colonne...ha preparato
il vino e ha imbandito la tavola” (Pr 9, 1-2) e la loro staticità afferma
la solidità del mistero dell’Incarnazione. Tutto questo si realizza veramente
nel sacro Convito dell’Eucaristia. La sua copertura ispira anche l’epiclesi
visiva dello Spirito Santo, che è invocazione sempre presente nel divin
Sacrificio e la sua cupola apre sull’orizzonte celeste e sovrasta quell’altare
sul quale veramente, in mysterio, il cielo discende sulla terra.
L’ALTARE MEDIOEVALE COL DORSALE
Altere della Chiesa parrocchiale di Negrar di Verona (S.Martino di Tours)
Altere della Chiesa parrocchiale di Negrar di Verona (S.Martino di Tours)
L’erezione del dorsale che si sviluppa dall’epoca gotica
fino ai nostri giorni dimostra visivamente la necessità di descrivere con il
genio dell’arte le dimensioni del mistero che sull’altare si compie. Sia gli
eventi della vita del Signore, come quelle della Madonna e dei Santi non sono
che aspetti parziali e applicazioni particolari dell’unico sacrificio di
Cristo, che viene attuato sacramentalmente nella celebrazione. La varietà dei
temi descritti nelle pale degli altari e nelle monumentali strutture dorsali
che si sviluppano e salgono dalla mensa dell’altare sono la proclamazione
visiva dei mirabili e molteplici frutti dell’unico Sacrificio di Cristo. Il
mistero eucaristico si traduce mediante il genio dell’arte nell’infinito prisma
dei Santi, che ne sono i frutti eccelsi e il segno glorioso della sua intima ed
inesauribile vitalità.
Ciò che l’occidente
ha espresso col dorsale dell’altare, l’oriente lo esprime con l’iconostasi.
Mentre il primo mostra al popolo le meraviglie della grazia sovrastando il
sacerdote nell’atto di compiere il divin sacrificio, l’iconostasi orientale
comunica al popolo lo splendore dei misteri e dei santi velando il sacerdote
che celebra la divina liturgia. Oriente e occidente quindi si trovano d’accordo nella necessità di
educare al mistero con la bellezza dell’arte, che a guisa di viticci nasce
dall’altare, lo circonda e lo sovrasta offrendo i tanti capolavori secolari dei
nostri altari.
Col Concilio Tridentino il tabernacolo viene permanentemente
intronizzato sull’altare e in tal modo si sana la secolare bipolarità tra
altare e tabernacolo dei secoli precedenti. Effettivamente il tabernacolo ha il
suo luogo proprio sulla mensa dell’altare dove il Sacramento nasce, il
Sacrificio è offerto e il Pane santo è donato. Nessun luogo è più consono
al tabernacolo che quello dell’altare stesso, che così rimane sempre vivo e
‘acceso’ anche fuori della celebrazione. Niente può conferire maggior dignità
ed identità all’altare come il Santissimo Sacramento. Infatti, mentre l’altare
rimane pur sempre un simbolo sacro, il Sacramento è la presenza viva e
personale di Colui che è realmente e permanentemente ‘altare, vittima e
sacerdote’. A livello di principio quindi il legame altare e tabernacolo è
indissolubile e ogni separazione è sempre precaria e fonte di possibile
squilibrio
L’ intento pastorale della recente riforma liturgica ha offerto la possibilità - non
l’obbligatorietà - della celebrazione verso il popolo.
Essa permette certamente molte opportunità, soprattutto
pastorali, e consente di evidenziare aspetti che arricchiscono il modo di
celebrare il divin Sacrificio. E’ tuttavia necessario non assolutizzare questa
concessione e non indulgere ad un nuovo fissismo su una forma ancora recente in
via di valutazione. L’apertura mentale ai secoli della storia liturgica, unita
ad una inevitabile indagine teologica, deve rendere disponibile la Chiesa a
soluzioni varie e a prospettive di nuove sintesi.
Fino al Vaticano II le diverse tipologie degli altari,
espressioni delle diverse epoche storiche, di differenti visioni teologiche, di
diverse prestazioni liturgiche e di gusti e tecniche artistiche successive sono
vissute insieme in pace.
I sacerdoti e i fedeli non avevano difficoltà a riconoscere
in forme diverse di altari e in stili differenti l’unico altare cristiano che,
dall’origine, cammina nel tempo assumendo il genio dei secoli. Si celebrava con
spontaneità e senza percepire difficoltà alcuna sull’altare antico, su quello
rinascimentale, su quello barocco e su quello di recente costruzione.
Dopo il Vaticano II sembra che quella continuità pacifica e
normale si sia interrotta. Tutti gli altari precedenti improvvisamente sono
stati congedati come inadatti. Essi certo sono ancora ammirati, ma dichiarati inutilizzabili. Vi è quindi una frattura tra il prima e il
dopo, fatto che non si era verificato in passato, ma le forme nuove degli
altari non cancellavano le precedenti e con esse convivevano in pace.
Ed ecco che nelle nostre chiese storiche dalle più piccole
alle grandi basiliche l’altar maggiore di sempre domina sovrano, ma resta muto
e spoglio di ogni sua insegna. Osserva dall’alto della sua maestà una
struttura debole, spessissimo mobile, di dimensioni ridotte che riceve ormai da
anni gli onori liturgici e offre la sua mensa alla celebrazione del gran
Sacrificio.
Cosa è avvenuto?
Come mai questo congedo illimitato di tutti gli altari
storici?
Saranno licenziati per sempre?
Essi ricevono la visita guidata dei turisti, sono
fotografati, ammirati, descritti in appositi opuscoli e suscitano tanto
stupore, sia nella loro architettura monumentale, come nella preziosità dei
loro materiali e nella genialità delle loro sculture e pitture, ma il loro
sguardo sembra triste. Essi non sono più l’altar maggiore e non possono più
pretendere gli onori liturgici. La loro splendida arte li assicura almeno in
ordine alla loro sussistenza.
Ma non tutti ebbero tale sorte: alcuni di loro furono
mutilati o anche del tutto rimossi. I loro migliori amici sembrano essere
proprio fuori della chiesa. Coloro che stanno in chiesa li guardano piuttosto
male e se potessero ... Ma quelli che in qualche modo li osservano da lontano e
li visitano quasi da ospiti, li valutano e sempre più si sono organizzati per
evitare la loro estinzione.
Altare maggiore rivolto verso il popolo. Duomo di Verona
Altare maggiore rivolto verso il popolo. Duomo di Verona
Perché è successo questo fenomeno? Certamente hanno
influito due cause, che se buone nel principio, hanno degenerato in
applicazioni estreme: la possibilità di celebrare rivolti al popolo e
l’intento pastorale di essere il più possibile vicini all’assemblea.
Ed ecco che estremizzando queste indicazioni ci si risolse
in modo univoco a celebrare assolutamente, sempre e in ogni chiesa verso il
popolo.
Inoltre si intese la vicinanza al popolo come una
prossimità fisica a tutti gli effetti, ossia la visibilità ottica, che
richiede distanza ed è più efficace in ordine alla partecipazione, era
ritenuta anticonciliare e ogni maestà doveva essere del tutto rimossa dalla
forma dell’altare. Esso doveva assumere la rigorosa ed esclusiva forma di una
comune mensa. Sguardo al popolo e vicinanza fisica ad esso intesa in modo
plebiscitario non poté che congedare ogni altro altare precedente e renderlo
inutilizzabile.
Con questi criteri l’altare con dorsale è del tutto giudicato
inabile, ma anche l’antico altare con ciborio può essere lasciato in ombra
perché troppo lontano dalla gente.
Ma fissare in modo assoluto e insuperabile i due criteri
sopra esposti e dichiararli gratuitamente dettati conciliari è difforme dalla
realtà. Né il Concilio ha imposto la celebrazione verso il popolo, né ha
dichiarato l’inabilità degli altari storici, né ha ordinato una vicinanza
fisica all’assemblea ottenuta ad ogni prezzo. Si tratta allora di uscire dal
pregiudizio così diffuso nel postconcilio e di ripensare ad una opportuna
riconciliazione.
Credo che non sia possibile, relegare nell’inutilità e
nell’abbandono i grandi altari storici, ma la liturgia stessa ne avrebbe
giovamento se, rispettando dovutamente e intelligentemente il genio e la
tipologia della diverse chiese si celebrasse in modo diversificato. Allora non
vi sarà frattura, ma continuità e, soprattutto, si potrà uscire da quella
situazione provvisoria di altari fragili e inadatti, che da decenni ormai
occupano le zone presbiterali. Credo che il messaggio del papa Benedetto XVI
nel celebrare sull’altare della cappella Sistina sia su questa linea e intenda
suscitare una mentalità al riguardo più equilibrata, possibilista e meno
fissità.
DIALOGO CON I LETTORI
L’ALTARE NEI RITI DI ‘OFFERTORIO’
“Nella nostra chiesa, terminata la Messa, si toglie la
tovaglia dell’altare, che rimane sempre spoglio. All’offertorio della messa
domenicale si porta la tovaglia, le candele, i fiori, le coppe, il calice, le
ampolline e il messale. E’ possibile? Perché non si fa così anche altrove?”
Una catechista
La domanda contiene due problematiche: l’altare sempre
spoglio fuori della celebrazione e la vestizione dell’altare nel rito della
preparazione dei doni.
Certamente nella storia della liturgia si ritrovano anche queste due modalità, soprattutto nell’epoca antica. Quando, ad esempio l’altare era ancora di legno veniva introdotto, posto davanti all’assemblea liturgica e rivestito con la tovaglia proprio nei riti offertoriali; poi era rimosso. Il suo rimanere nobilmente spoglio, a celebrazione terminata, perdurò anche quando si ebbe l’altare fisso e monumentale.
Attualmente la vestizione solenne dell’altare,
portandovi la tovaglia, i candelieri e la croce, è ritualmente prevista nel
rito della Dedicazione dell’altare, quando il medesimo deve prima essere
asperso con l’acqua benedetta, unto col Crisma e poi rivestito e inaugurato.
Stabiliti questi elementi storici e liturgici, si deve considerare come agire
oggi in proposito. La liturgia si deve celebrare così come l’attuale
disciplina della Chiesa prevede.
Infatti è la Chiesa il soggetto e la ‘proprietaria’ della
liturgia. Da ciò si deve escludere che i privati, singoli o gruppi, dispongano
arbitrariamente delle leggi liturgiche. La comunità locale si inserisce in un
azione di culto, la liturgia, che la supera ed è più grande delle esigenze
locali dell’assemblea convocata a celebrare. Si tratta di entrare in atti che
sono, a diverso titolo, di Cristo e della Chiesa in quanto tale, ed è appunto
in questo universale orizzonte che la
liturgia emerge in dignità ed efficacia su qualsiasi altro atto di culto
personale e soggettivo. Su questa base teologica indispensabile è possibile
comprendere e accettare di celebrare in modo conforme a riti stabiliti e
definiti dalla Chiesa.
Non sono infatti gli atti nostri che ci salvano, ma quelli di Cristo e della Chiesa a noi offerti
per purificare ed elevare un culto personale che da solo non avrebbe alcuna
possibilità di penetrare nei cieli e di ottenerci la salvezza. Questo vale non
solo per la sostanza degli atti sacramentali, ma per tutto il complesso rituale
della liturgia, in quanto tutto l’insieme ha come soggetto Cristo e la sua
Chiesa.
Su questa base teologica essenziale, oggi largamente
disattesa, possiamo delineare la domanda posta.
Nei riti della presentazione dei doni non si parla di preparazione dell’altare, ma di disposizione sulla mensa delle oblate. In tal senso si esprimono le rubriche del Messale e la Congregazione per il culto divino si è pure ufficialmente pronunziata:
CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E
LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI.
Risposta al dubbio Utrum in offertorio circa i doni
che si possono portare all’altare, 31 ottobre 1999, in Enchiridion Vaticanum,
vol. 18, n. 1727: Nell’offertorio, alla processione dei doni, si possono
portare all’altare le tovaglie per il medesimo e i candelieri? R. No.
Quanto alla preparazione della celebrazione, l’istruzione Principi
e norme per l’uso del Messale romano (n. 79) stabilisce quanto segue: “L’altare sia ricoperto da almeno una
tovaglia. Sull’altare, o vicino ad esso, si pongano almeno due, anche quattro,
o sei candelieri con i ceri accesi; se celebra il vescovo della diocesi, i
candelieri saranno sette”. Se ne deduce che questi preparativi non si
devono differire all’offertorio.
All’offertorio (cf. il n. 49 della medesima istruzione) “Si prepara anzitutto l’altare, o mensa del
Signore, che è il centro di tutta la liturgia eucaristica, ponendovi sopra il
corporale, il purificatoio, il messale e il calice, a meno che quest’ultimo non
si prepari alla credenza. Poi si portano le offerte: è raccomandabile che siano
i fedeli stessi a presentare il pane e il vino; il sacerdote, o il diacono, li
riceve nel luogo opportuno, e li depone sull’altare, recitando le formule
prescritte”. Si noti che qui nulla si dice della tovaglia da stendere. Si fa presente che
soltanto nella celebrazione del Venerdì della Settimana santa l’altare, in via
eccezionale, deve essere senza ornamenti all’inizio della celebrazione (cf. Messale
Romano, Venerdì nella Passione del Signore, n. 2): “L’altare sia completamente spoglio: senza croce, senza candelieri,
senza tovaglie”. Dopo l’adorazione della croce, “sull’altare viene stesa la tovaglia, e viene posto il corporale e il
libro” (ivi, n. 21).
La cosa è comprensibile: infatti l’altare significa la
presidenza di Cristo in tutto l’arco della celebrazione, dai riti di inizio a
quelli di congedo. Non avrebbe senso venerare l’altare con l’incensazione
durante il canto introitale se esso si presentasse privo delle sue insegne.
Ogni rito si svolge totalmente sotto la presidenza dell’altare e anche quando
si volge lo sguardo all’ambone e alla sede, non deve mai eclissarsi la
centralità dell’altare ‘icona’ di Cristo presente e agente. L’altare, infatti,
è il solo dei tre luoghi celebrativi ad essere consacrato e costituisce in tal
senso un ‘sacramentale’.
“Gli altari laterali in genere sono ormai abbandonati.
Molti di essi comunque hanno un grande valore e fanno parte della storia e
dell’arte, ma, disadorni e nudi, sono ridotti a pezzi museali, muniti anche di
accurate didascalie storico-artistiche. Domando: Hanno finito la loro funzione
liturgica?” Un parroco
Gli altari laterali delle chiese cattoliche hanno certamente
una storia gloriosa e costituiscono un patrimonio di immenso valore teologico,
spirituale e artistico. Di fatto, però, dopo il Concilio Vaticano II hanno
subito i danni di una lettura riduttiva e imprecisa della normativa liturgica,
che praticamente li ha del tutto esautorati dalle loro funzioni relegandoli,
nel migliore dei casi, ad un ruolo museale. E’ allora necessario riprendere con
serenità e sereità la giusta visione del problema.
Gli altari laterali hanno origine fin dall’antichità,
quando si trattò di ospitare nelle basiliche dell’Urbe i corpi dei Martiri,
tolti dalle catacombe durante le razzie barbariche. Fu allora che la ‘statio’
ai loro sepolcri per celebrarvi il divin Sacrificio avvenne dentro la basilica
stessa, lì dove il Martire aveva trovato la sua nuova e protetta tumulazione. Nel Medioevo poi, soprattutto nelle grandi
Abbazie, l’erezione di molti altari laterali era richiesta per la celebrazione
della Messa dei numerosi monaci, che, anche per la scomparsa della
concelebrazione, dovevano celebrare individualmente.
Tuttavia in questo sviluppo secolare la Chiesa non perse
mai, né l’unicità dell’altare, mediante il primato e la dignità sempre
riconosciuti all’altar maggiore; né l’ideale unicità del divin Sacrificio,
mediante la Messa solenne domenicale nelle parrocchie e la Messa conventuale
nei monasteri.
La Chiesa d’Oriente, invece, non rinunciò mai al costume
antico rigoroso di erigere un solo altare e celebrare un’unica Divina Liturgia.
Alla luce della storia, quindi, dobbiamo
riconoscere senza indugi l’identità e il valore degli altari laterali. Essi,
infatti, si devono considerare sotto tre importanti aspetti: liturgico,
spirituale, storico-artistico.
1. L’altare laterale mantiene intatta la sua funzione
liturgica ed è alquanto dannoso trasmettere ai fedeli l’idea che l’insorgere
degli altari laterali sia il segno di una fase decadente e scorretta dello
sviluppo liturgico. Gli altari laterali celebrano con le splendide espressioni
dell’arte i mirabili frutti dell’unico Sacrificio di Cristo: i Santi e le loro
opere. La loro memoria eretta in connessione con l’altare afferma che dal
Sacrificio di Cristo essi attinsero la grazia della loro santità e l’efficacia
della loro testimonianza. Voler privare della mensa dell’altare tali monumenti
è scardinarli teologicamente dalla loro sorgente divina. La molteplicità
degli altari laterali è la manifestazione visiva del prisma infinito dei
frutti dell’unico Altare e dell’unico Sacrificio, Cristo Gesù.
Per questo gli altari laterali non possono essere
museificati, ma devono restare vivi con tutte le insegne loro proprie. Recarsi
processionalmente presso l’altare del Santo di cui si celebra la festa è un uso
liturgico del tutto ammesso. Può essere
sempre opportuno recarsi in processione per un atto di venerazione a
conclusione della Messa celebrata sull’altar maggiore. In tal modo si vede come
il ruolo liturgico degli altari laterali non sia abrogato, ma possibile e
arricchente. Certo in tutto ciò occorre sempre intelligenza, misura e buon
gusto, per non decadere in forme devozionali eccessive, che minerebbero
l’equilibrio della fede e della liturgia, non raramente condannate dalla Chiesa
lungo i secoli.
2. L’altare laterale è luogo di orazione e di
contemplazione. Presso di esso i fedeli entrano in comunione spirituale con la
Vergine e i Santi. Per questo gli altari non possono essere lasciati desolati,
senza calore e senza vita. Essi devono portare i segni della devozione: ceri,
fiori, ecc. Certo senza indulgere al cattivo gusto, che si ritorcerebbe contro
una buona educazione alla vera devozione. Per questo non si può abbandonare
l’addobbo dell’altare a chiunque, ma deve essere costantemente monitorato da un
pastore vigilante che cura veramente l’educazione alla pietà autentica dei
fedeli. Ma al contempo una drastica museificazione priva totalmente gli altari
laterali della loro vita, li rende estranei ai fedeli e li debilita nel loro
ruolo di mediazione spirituale.
3. Infine gli altari laterali sono spesso dei capolavori
d’arte. Essi vanno rispettati e tutelati. Sono un patrimonio non solo della
Chiesa, ma dell’intera società. Si deve evitare abusi gravissimi, ben
conosciuti in un recente passato: rimozione degli altari laterali in nome
dell’unicità dell’altar maggiore; privazione della loro mensa o della predella
marmorea, rendendoli mutili e inaccessibili; alienazioni delle loro croci e dei
loro candelabri e di altri arredi talvolta veramente artistici e preziosi, ecc.
Per quel che riguarda la costruzione delle nuove chiese il
Messale ricorda “Nelle nuove chiese si costruisca un solo altare che
significhi alla comunità dei fedeli l’unico Cristo e l’unica Eucaristia della
Chiesa” (OGMR, 303).
Naturalmente tale disposizione non esclude che vi siano
altre cappelle, collegate e distinte dalla navata della chiesa, nelle quali
possono essere eretti altri altari, ben definiti nella loro posizione e nel
loro uso liturgico. E’ il caso della cappella feriale o quella del SS.
Sacramento o di una insigne reliquia di un Santo, ecc..
Come si vede, forse è necessario ripensare alquanto
l’operato dell’immediato postconcilio e, su basi teologiche, spirituali e
culturali migliori e più solide intraprendere un’opera di risanamento e di
maggior equilibrio, per l’edificazione del popolo di Dio.
“Sono un sacrista e vorrei qualche idea sull’uso dei
candelieri che un tempo adornavano tutti i nostri altari. Ora da molti anni
sono in deposito e qualche servizio è purtroppo stato già venduto. Sugli
altari della mia chiesa al posto dei candelieri vi sono delle ciotole con dei
grossi ceri che il parroco fa accendere in certe feste. Non si potrebbero usare
ancora, visto che ci sono, ed evitare che finiscano venduti quelli che ancora
rimangono?” Un sacrista
Occorre considerare anche la dimensione dei candelabri e
della croce dell’altare. Non è definitivo fissarsi sulle recenti piccole dimensioni, oggi divenute
usuali. Infatti la croce e i ceri bassi,
poco sopra il livello della mensa, esprimono certamente la sacralità
dell’altare e insieme permettono la visibilità del sacerdote e dell’azione
eucaristica, tuttavia non possiamo escludere la tradizione precedente dei
grandi candelabri che, posti sulla mensa si slanciano insieme alla croce molto
alti verso il cielo. Un altare sul quale vi è al centro la croce con ai lati i
candelabri monumentali, magari ascendenti verso di essa, esprime con
un’efficacia visiva e permanente la dimensione ascendente del sacrificio
eucaristico. L’altare è riscattato dalla sua esclusiva forma orizzontale di
mensa e diviene, nella sua spinta verticale, ara sacrificale, scala ad
Patrem. Anche il sacerdote, durante
la celebrazione si sente adombrato da quella monumentalità ascendente e viene
attratto verso l’alto, mantenendo in lui il senso ascensionale dell’azione
sacrificale, atteggiamento che non può assolutamente eclissarsi per la verità
del mistero che si celebra.
Credo che tale recupero possa essere fatto senza venir meno
alle esigenze della celebrazione verso il popolo e così potrebbero essere
rivalorizzati splendidi servizi di candelabri preziosi e storici.
Si osservi inoltre che l’uso di porre la croce e i grandi
candelabri sul pavimento nei pressi dell’altare, come avviene in alcuni casi,
non sortisce quell’effetto di spinta verticale che si realizza solo se essi
sono posizionati sulla mensa secondo la tradizione.
Fatte queste considerazioni di principio, sarà necessario
tener presente il pericolo dei ladri e perciò si dovrà fornire l’altare di
impianto di sicurezza o esporre questi candelabri soltanto nelle grandi feste.
Certamente non si devono vendere, né confinarli per sempre in un polveroso
magazzino.
di don Gianni Picenardi - Centro Internazionale di Studi Rosminiani -
Stresa
È ormai noto come il Beato Antonio Rosmini avesse molto a cuore, di fronte alla grave e
profonda ignoranza, di offrire ai cristiani la possibilità di comprendere
parole, gesti e segni delle celebrazioni liturgiche della Chiesa, tanto da
individuare nella divisione del popolo dal clero nel pubblico culto la prima
delle Cinque piaghe della santa Chiesa.
Fin dagli anni giovanili si preoccupò subito del problema e
scrivendo alla santa marchesa Maddalena di Canossa in una lettera del gennaio
1824 diceva:
«Mi spiegherò meglio.
La santa Chiesa ha raccolto in alcuni libri le sue preghiere e devozioni e
questi sono specialmente il messale, il breviario, il martirologio. In questi
libri vi è un tesoro infinito di sentimenti solidissimi di pietà e di affetti
tenerissimi. Ma per il comune degli uomini sono divenuti quasi troppo sublimi e
difficili. Le ragioni di ciò io credo che stiano nella lingua latina andata in
disuso, la poca istruzione che vi è nei cristiani, per cui difficilmente oggi
gustano certe idee sostanziose, gravi e serie, ed infine anche il canto
ecclesiastico, che si ascolta per diletto, invece di penetrare i sentimenti che
esprime. Ora a me parrebbe la cosa
più utile del mondo, se una società di persone [istituto religioso (Ndr)] che può attendere a Dio, si occupasse nel praticar bene ed assistere
bene a queste santissime ed fecondissime pratiche della santa Chiesa. Per
scendere nei particolari osserviamo pure quanti difetti ci siano fra cristiani
nella sola partecipazione alla santa Messa.
E perché? perché comunemente non si è abbastanza
istruiti:
1. Nel mistero del
santo Sacrificio;
2. Nell’andamento di
tutta questa augusta funzione;
3. Nell’intelligenza
delle parole che dice il sacerdote, le quali le dice quasi sempre al plurale, e
magnifica istituita dagli Apostoli e lasciata da loro alla santa Chiesa.
Ma poiché, per 1°
ragioni dette, questa devozione si rese troppo difficile, si cercarono delle
altre devozioni, le quali sono state buonissime ed hanno supplito al bisogno di
quei fedeli che non arrivavano, o per mancanza di mezzo o d’altro, alla
devozione grande e pubblica della Chiesa».
Nel 1848-1849, anni tra i più impegnativi e turbinosi della
sua vita legati alla sua missione romana e alle attività per costituire
l’unità d’Italia, preparò un breve scritto intitolato: Della maniera di
assistere alla santa Messa, in cui dopo aver spiegato il rito traduceva in
italiano le preghiere e il rito della santa messa; lo inserì nel secondo
volume delle sue Operette spirituali, che pubblicò a Napoli nel 1849.
Iniziativa che precorre di gran lunga il primo messalino in lingua italiana per
i fedeli e limitato alle feste, stampato dal Caronti nel 1921.
Comunque fu fin dal lontano 1821 che Rosmini, preparando per
la sorella canossiana Margherita
Gioseffa, l’operetta Della educazione cristiana (1823), dedicò
molti capitoli per spiegare il senso e il significato delle celebrazioni
liturgiche. Da essa è tratto il seguente: Capitolo XVI, Oggetti delle
chiese che contengono figure di cose spirituali:
“Nelle chiese, oltre a
diversi ornamenti, vi sono altre cose; delle principali qui farò un piccolo
cenno che vi possa indicare di cosa possano essere segno o simbolo. L’altare è
la mensa, su cui si celebra il sacrificio. Rappresenta la mensa su cui Cristo
cenò quando consacrò prima il pane e il vino. E come quello raffigurava la
croce, così il nostro altare è immagine anche della croce, su cui patì. Per questo
all’epoca apostolica gli altari erano costruiti di legno.
Ancora più
propriamente l’altare esprime Cristo stesso; e poiché il suo sacrificio è
scelta libera del suo spirito, Cristo fu veramente altare, vittima e sacerdote.
Ecco perché Giovanni dice che l’altare è Cristo.
Nei testi più antichi
Cristo è chiamato pietra angolare, testata d’angolo, che unisce i due muri del
tempio, cioè gli Ebrei e i Gentili e ancora pietra perché, percossa con i
patimenti, fece sgorgare acque di salvezza, e pietra perché contro di essa
s’infrangono e spezzano quelli che in lei cozzano. Già per antica legge gli
altari si fanno di marmo, e si consacrano coll’olio, perché Cristo è l’Unto,
di cui era immagine il sasso, su cui Giacobbe sparse l’olio e che eresse a
monumento, e dormendo su di esso, come Cristo sulla croce, aveva veduto la
scala degli Angeli, che congiungeva insieme la terra ed il cielo.
Nell’altare
s’inseriscono reliquie di Santi, specialmente martiri, per il particolare
legame che hanno con Cristo nel Sacrificio; e le tre tovaglie benedette
dell’altare rappresentano pure le vesti di Cristo, che sono i suoi santi. I
candelieri accesi e il Crocifisso nel mezzo, sono simbolo dei popoli credenti
uniti dalle due parti opposte, giudaica e gentile, a colui che elevato in alto
trasse a sé ogni cosa.
Ai piedi dell’altare
stanno dei gradini, che sono le virtù per cui si va a Cristo. Prima di
ascenderli nella Messa il Sacerdote fa la confessione dei peccati, e recita a
vicenda col ministro, e anticamente con tutto il popolo, l’opportuno Fammi giustizia Signore, col quale
prega che, abbattuti gli avversari, gli mandi la sua luce e la sua verità, per
essere da queste condotto nel santo suo monte, nelle sue dilette dimore...”
Fonte: da Liturgia 'culmen et fons' di dicembre2010-gennaio
2011. Anno 3, n.4
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