Il set di un film dell’orrore, per colpire l’opinione pubblica e
legittimare la deposizione del tiranno. Accadde in Romania nel fatidico 1989,
quando a Timisoara furono rastrellati negli obitori i corpi di persone appena
decedute. Vennero martoriati e feriti per simulare le torture, in realtà mai
subite. Il tutto, a beneficio delle telecamere. Per Rosanna Spadini, quel
precedente dimostra un passaggio d’epoca: «La società dello spettacolo diventa
schiava di se stessa», e lo spettacolo «viene trasformato in strumento di
disperazione e di morte». Si rompe un patto millenario con gli spettatori,
fondato sulla promozione culturale della società. Resta solo la scenografia
teatrale, ed è «un teatro che rinnega se stesso, un teatro che uccide», ora
anche sul palcoscenico della navigazione web, che proietta l’individuo «in un
altrove extraterritoriale, slegato dallo spazio fisico del suo corpo e dal
tempo della sua coscienza».
Notizie sensazionali, immagini devastanti. Ma c’è
il trucco: è tutto falso. La Spadini la chiama «arte dalla meraviglia
multimediale dei visual network». Da allora, la messinscena servirà a dare
legittimità mediatica a tutte le guerre contemporanee.
Per il filosofo Giorgio Agamben, la vicenda di Timisoara segna il
superamento di una soglia fatale: la “seconda vita” di quei cadaveri venne
allestita «per la prima volta nella storia
dell’umanità». Di fatto, «ciò che tutto
il mondo vedeva in
diretta come la verità vera sugli schermi televisivi, era l’assoluta
non-verità». E benché la falsificazione fosse a tratti evidente, «era tuttavia
autentificata come vera dal sistema mondiale dei media».
Il vero? Poteva essere solo una variante del falso, un “momento
necessario” alla generazione finale della menzogna. «Così, verità e falsità
diventavano indiscernibili e lo spettacolo si legittimava unicamente mediante
lo spettacolo».
Per Agamben, «Timisoara è, in questo senso, l’Auschwitz della
società dello spettacolo: e come è stato detto che, dopo Auschwitz, è
impossibile scrivere e pensare come prima, così, dopo Timisoara, non sarà più
possibile guardare uno schermo televisivo nello stesso modo». Nei mesi successi
la verità fu accertata: quello di Timisora era stato un “falso giornalistico”.
Ma nel frattempo i media (e il
telespettatori) erano già passati oltre, ipnotizzati da altre notizie: come il
crollo dell’Urss e la Guerra del Golfo.
La guerra moderna,
proposta come “sola igiene” del mondo, viene
anticipata da eventi traumatici sapientemente orchestrati dal regime e
funzionali agli step successivi. Stesso schema: attraverso il terrorismo
mediatico, il falso giornalistico suscita l’indignazione della gente, quindi
l’attacco aereo e il massacro dei civili, scrive Spadini su “Come Don
Chisciotte”.
Così è avvenuto anche nel 1991 durante la prima Guerra del Golfo,
sostenuta anch’essa dalle solite denunce false: un’agenzia pubblicitaria
denunciava il fatto che i soldati iracheni «tagliavano le orecchie» ai
kuwaitiani che resistevano, poi che gli invasori avevano fatto irruzione in un
ospedale «rimuovendo 312 neonati dalle loro incubatrici e lasciandoli morire
sul freddo pavimento dell’ospedale di Kuwait City». Menzogne utilissime: «Il
linguaggio dell’immagine diventa il luogo politico per eccellenza», un luogo
«oggetto
di una manipolazione senza precedenti». Video-teatro, notizie-spettacolo:
prima ancora che morte fisica, la guerra
rappresenta la morte ontologica del teatro, così com’era stato inteso nei
millenni. Delitto perfetto: «Il teatro muore nel momento in cui uccide la realtà».
Nel 1991, continua Rosanna Spadini, «gli psicopatici della Cia
organizzarono una “psywar” (psychological warfare) per demonizzare Saddam
Hussein agli occhi del suo stesso popolo e facilitare così l’attacco».
In concreto, «avrebbero dovuto diffondere in Iraq un video in cui
veniva mostrato il dittatore iracheno mentre faceva sesso con un ragazzo,
naturalmente ripreso da una telecamera nascosta, come se si trattasse di una
registrazione clandestina». Il video venne effettivamente girato, «con un sosia
di Saddam e alcuni agenti della Cia camuffati da arabi». Poi però il progetto
venne bloccato, di fronte ad altre strategie di “false flag”.
Fu mobilitata anche la radio: “Voice of America” «tentò di minare il
morale dei soldati iracheni dando notizia di un avvelenamento dell’acqua dei
pozzi del deserto».
Via libera, dai network mainstream, alle notizie false: 250.000
soldati iracheni in Kuwait con 1.500 carri armati, che però i satelliti
sovietici non videro mai, mentre il fantomatico “governo kuwaitiano in esilio”
si affidava al marketing della “Hill & Knowlton”, che cominciò a
demonizzare Saddam accostandolo a Hitler.
Culmine del falso: la testimonianza (inventata) di una ragazza
kuwaitiana, pronta a giurare che i malvagi soldati iracheni «staccavano la
corrente elettrica alle incubatrici degli ospedali di Kuwait City, per far
morire i neonati». La ragazza? «Era in realtà la figlia dell’ambasciatore
kuwaitiano all’Onu e aveva recitato un copione preparato dalla “Hill &
Knowlton”».
In questo senso, osserva Spadini, «quella del Golfo è stata la prima
guerra
televisiva, perché ha sfruttato pienamente le possibilità del mezzo televisivo
di essere sul campo, confezionare e vendere la guerra». In Vietnam, invece, «politici e militari non
avevano capito come il nuovo media avrebbe
potuto controllare il messaggio e distruggere un nemico appartenente al terzo mondo, e perciò
senza voce».
Da allora, «la leadership politica sembra
avere appreso la lezione». Lo show, prima di tutto: «L’atto finale della Guerra del Golfo
trasmesso dalla televisione è la calata dei soldati americani da un elicottero
per riconquistare l’ambasciata di Kuwait City». Peccato che la capitale fosse
già libera da due giorni.
I giornalisti? Niente paura, tutti “embedded”. Erano stati obbligati
ad accreditarsi al Jib, “Joint Information Bureau”, impegnadosi a «rispettare
determinate condizioni, pena il ritiro dell’accredito». Esempio: proibito
andare al fronte senza una scorta militare, vietato fotografare o filmare morti
e feriti, impossibile dare informazioni su armamenti, equipaggiamento,
spostamenti e consistenza numerica delle unità, alleate e nemiche. Vietato
descrivere nei particolari le operazioni, nominare le basi di partenza
delle missioni, intervistare i militari senza il preventivo permesso ufficiale.
«Questo controllo quasi totale della censura militare è amplificato
dalla nuova natura della guerra, guerra aerea,
condotta con aerei e droni, che esclude la presenza fisica del giornalista»,
continua Rosanna Spadini. La Guerra del Golfo
è stata quindi completamente oscurata.
E il flusso del mainstream, per 24 ore su 24, è stato riempito con
informazioni depistanti, analisi, commenti e immagini della guerra aerea,
computerizzate o riprese da cineoperatori militari.
Riuscirono anche a inquadrare un cormorano invischiato nel petrolio:
poi, gli ornitologi dimostrarono che in quel periodo dell’anno non ci sono
cormorani in Iraq.
Da allora fino ai giorni nostri, la produzione di “false flag” è diventata seriale, in uno
scenario da vigilia della Terza Guerra Mondiale.
«Prima il “reality show” avvenuto a Kiev nel febbraio 2014 di cui si
attribuiva la responsabilità ad un “sano desiderio di rivoluzione europeista”,
poi il Boeing Mh17 abbattuto si diceva dai separatisti, poi l’invasione delle
truppe russe in territorio ucraino, invasione mai avvenuta».
Peggio: un “avvoltoio in carriera” come il senatore John McCain ha avuto il coraggio di
dire, a Cernobbio, che l’Ucraina ha accettato la tregua coi separatisti solo
perché Obama non se l’è sentita di opporsi all’invasione di Mosca.
Non una parola, ovviamente, sulle milizie neonaziste allevate dagli Usa come manovalanza
del golpe di Kiev, né sulle basi missilistiche che stanno assediando la Russia,
per non parlare delle sanzioni commerciali contro Mosca, un autentico suicidio
per l’export europeo alla vigilia di un inverno senza più gas.
L’unica novità riguarda proprio Putin, che si stra attrezzando per
«fronteggiare l’egemonia mediatica del mondo
occidentale», cioè il monopolio anglosassone.
Per questo, il capo del Cremlino «sta investendo somme incredibili
di denaro nei media russi»,
come “Rt”, già “Russia Today”, e la news-agency “Ruptly”.
Lanciata nel 2005, “Rt” è attualmente disponibile in inglese,
spagnolo e arabo, e fa concorrenza a colossi come “Cnn” e “Bbc”, nonostante gli
ostacoli eretti dal governo Usa contro la
diffusione del canale russo sul territorio nordamericano. «Siamo nel bel mezzo
di una guerra di
propaganda mediatica spietata: “Rt” è diventata uno strumento assolutamente
necessario per la Russia, ai fini di gestione della politica estera, e
il Cremlino sta sfidando gli Usa con una guerra di
propaganda di altissima qualità, che
continuamente smentisce il flusso di notizie yankee a senso unico».
I dati di ascolto danno ragione a “Rt”, proposta anche in italiano
dalla web-tv “Pandora.Tv” diretta da
Giulietto Chiesa: a nove anni dal
suo lancio, la televisione di Mosca ha superato persino la “Cnn”, quanto a
visualizzazioni su “YouTube”.
Con quasi 1,2 miliardi di “vedute”, la “Bbc” è l’unico mezzo di
comunicazione prima di “Rt”, che in Gran Bretagna ha più spettatori rispetto al
livello europeo di notizie “Euronews” e in alcune grandi città degli Stati
Uniti è il canale straniero più seguito.
Secondo Peter Pomerantsev, produttore televisivo e saggista, Putin
sta reinventando la guerra del XXI
secolo, e la propaganda viene utilizzata come arma principale, nella “guerra non
lineare” che si va sviluppando a livello mondiale, tra milizie e superpotenze,
in uno scontro sempre più irregolare e asimmetrico nel quale si cimenta ormai
perfino l’Isis, i cui video terrificanti – la decapitazione di giornalisti
occidentali – dimostra «grande competenza tecnologica», ben maggiore di quella
di Al-Qaeda.
Nel suo sapiente utilizzo di mezzi di comunicazione diversi, l’Isis
ha utilizzato anche servizi come “JustPaste” per pubblicare riassunti di
battaglia, “SoundCloud” per rilasciare report audio, “Instagram” per
condividere immagini e “WhatsApp” per diffondere grafiche e video.
Significativa anche la pubblicazione di un flusso costante di storie
dell’orrore su “Facebook” e “Twitter”, utilizzando l’hashtag
#ThinkAgainTurnAway.
«L’insurrezione ribelle ha attentamente costruito una narrazione che
giustifica la propria lotta contro le divisioni nazionali dei confini
mediorientali tracciate dalle potenze occidentali», conclude Rosanna Spadini.
«Dunque, nella “War of the Worlds” del terzo millennio, è stata
realizzata sotto i nostri occhi la perfetta “eutanasia del reale”». Secondo
quanto diceva Jean Baudrillard, «l’immagine fantasmagorica e
multimediale, riprodotta milioni di volte, su milioni di teleschermi accesi 24
ore su 24, ha ucciso la realtà globalizzata, compiendo così “Il delitto perfetto”».
Fonte: visto su LIBRE
del 1 ottobre 2014
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