Il grafico Oxfam: la
mappa delle multinazionali del settore alimentare.
Sono dieci i signori che controllano da soli più del 70
per cento de i piatti del pianeta. Queste multinazionali gestiscono 500 marchi
che entrano nelle nostre case quotidianamente. Così pasta, biscotti e caffè
diventano globali, anche in Italia. E le grandi questioni, come l’uso di oli e
grassi nei prodotti, vengono decise a tavolino.
- di PAOLO GRISERI –
Stanno seduti
intorno alla tavola del mondo e controllano da soli più del 70 per cento dei
piatti del pianeta. Sono i 10
signori dell’industria alimentare: 450 miliardi di dollari di fatturato annuo e
7.000 miliardi di capitalizzazione, l’equivalente della somma del pil dei paesi
più poveri della Terra. Non sempre sono nomi noti in Italia. Da un secolo la
Coca Cola è il sinonimo della multinazionale ma solo gli addetti ai lavori
conoscono la Mondelez. Un po’ più numerosi sono gli italiani che ricordano la
Kraft, vecchio nome proprio della Mondelez. Quasi tutti invece hanno incontrato
al supermercato marchi come Toblerone, Milka e Philadelphia. “I 500 marchi
riconducibili ai dieci signori della tavola — spiega Roberto Barbieri,
direttore generale di Oxfam Italia — sono spesso vissuti dai consumatori come
aziende a sé stanti. In realtà fanno parte di multinazionali in grado di
condizionare non solo le politiche alimentari dell’Occidente ma anche le
politiche sociali dei paesi più poveri”.
Mentre sono 900
milioni le persone che soffrono la fame (dati Onu settembre 2014) e che
vivono sotto la tavola del banchetto sperando nelle briciole, sono 1,4 miliardi
gli uomini e le donne che nel mondo hanno il problema del sovrappeso. “Sono due
prodotti dello stesso sistema — osserva Barbieri — perché l’80 per cento di
coloro che non riescono a sfamarsi vivono nelle campagne e lavorano per
produrre cibo”.
Ma cosa è Oxfam? Oxfam è un’organizzazione che
si propone di aiutare le popolazioni povere del mondo cercando di rendere
virtuosi, con campagne e raccolte di firme, i comportamenti delle
multinazionali del cibo. Il sistema è quello di fare pressione sull’immagine
dei gruppi alimentari in Occidente per spingerli a migliorare le politiche
sociali nei paesi produttori. È accaduto con Nestlé, Mondelez e Mars per quel
che riguarda i diritti delle donne che lavorano nelle piantagioni di cacao. Si
chiede che accada con Coca Cola e Pepsi per evitare il fenomeno del land
grabbing, l’esproprio forzoso delle terre dove si coltiva la canna da zucchero.
“Già oggi — spiega Oxfam — sono coltivati a zucchero 31 milioni di ettari di
terra, l’equivalente della superficie dell’Italia”.
Ma chi sono i dieci colossi del cibo?
Ci sono Nestlè, Coca
Cola, Kellog’s, Danone, Unilever, Mars, Ppsicola, Mondalez, Associated British
Food e General Mills.
Insieme controllano una galassia di centinaia di marchi,
tutti presenti negli scaffali dei nostri supermercati. La
concentrazione – evidentemente – genera profitti.
Emblematico l’esempio alla birra, con il 60% del mercato
globale controllato da tre colossi il belga InBev, il sudafricano Sab Miller e
l’olandese Heineken.
Per quanto concerne il capitolo “profitti” a dominare è
Nestlè, con 90miliardi di dollari di fatturato, davanti a Pepsicola (66,5) e
CocaCola (44 miliardi).
Ultima, invece, Kellog’s, con “soli” 13 miliardi di dollari.
Dopo altri decenni di fusioni e concentrazioni, ci troveremo
un giorno a consegnare ad un unico grande fratello le chiavi della dispensa del
mondo? Quello di un pianeta in cui una sola grande multinazionale
controllerà tutti i marchi alimentari è certamente uno scenario da incubo.
L’Italia è certamente
uno dei Paesi del mondo dove il rischio della concentrazione dei produttori di
alimenti è meno forte. Un po’ per il particolarismo che caratterizza la
nostra economia asfittica. Un paese dominato dal modello per molti aspetti
negativo della piccola e media impresa, che nel settore del cibo potrebbe
trasformare il difetto in virtù. Lo dimostra uno studio condotto dall’agenzia
Next con un questionario rivolto alle aziende alimentari italiane. L’elenco di
quelle principali dice che siamo ben al di sotto del livello dei colossi
mondiali.
L’unica che si avvicina per fatturato è la Ferrero, con 8,1
miliardi di euro di ricavi annui, circa 10 miliardi di dollari, poco meno dei
13 miliardi della Kellogg’s. Le altre sono molto più indietro. La Barilla
fattura 3,5 miliardi di euro ed è limitata dal fatto di avere come business un
prodotto molto connotato localmente come la pasta. Si contano sulle dita di una
mano le altre italiane sopra il miliardo di fatturato: il gruppo Cremonini
(3,5) Parmalat (1,4), Amadori (1,3) Lavazza (1), Conserve Italia (1).
Immediatamente sotto il livello del miliardo ci sono Acqua San Benedetto,
Galbani e Granarolo.
È evidente che gli 11 signori del cibo italiano sono molto
meno potenti dei commensali della tavolata mondiale. Ci si chiede se i re
dell’alimentare, in Italia e nel mondo, hanno politiche comuni, accordi
segreti, si mettono d’accordo per decidere che cosa mangeremo nei prossimi
trent’anni. La recente discussione delle normative comunitarie sulla
etichettatura risente pesantemente dei signori del cibo. Ogni particolare
in più o in meno da aggiungere sul foglio informativo per i consumatori si
porta dietro miliardi di investimenti. Il caso più clamoroso è scoppiato di
recente e riguarda gli oli utilizzati: finora è sufficiente scrivere che si
tratta genericamente di “oli vegetali”. Ma
se domani i produttori fossero costretti a specificare quali sono quegli oli,
quanti avrebbero il coraggio di scrivere che utilizzano l’olio di palma,
decisamente più scadente di quello di oliva?
Fonte: www.dionidream.com
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