Come spiegava Gustave
Le Bon esiste un sentire comune, legato alla storia, che dà forza al gruppo. Se
lo si perde si regredisce a una massa indistinta
Oggi è possibile parlare di un'anima dei luoghi, delle case,
perfino delle cose, ma è arduo evocare lo spirito dei popoli. Eppure una
millenaria tradizione culturale e civile, politica e religiosa, che ha sorretto
civiltà, comunità e dato vita a nazioni e nazionalismi, ha creduto
all'esistenza di un'anima dei popoli.
L'ultimo studioso che vi si dedicò fu Gustave Le Bon, medico e antropologo francese, fisico, archeologo e
soprattutto fondatore della psicologia delle masse, vissuto a cavallo tra
l'ottocento e il novecento. Meno noto è che Le Bon fu lo scopritore di una
radiazione chiamata luce nera e fu l'inventore del cefalometro, uno strumento
che serviva a misurare il cranio e a dedurre differenze tra gli uomini. Era il
tempo in cui il positivismo usava la scienza per le classificazioni
antropologiche e credeva di poter misurare, pesare le facoltà mentali e
spirituali; fisiologia e psicologia si intrecciavano. Le Bon influenzò Hitler e
Mussolini, ma anche Theodore Roosevelt, Lenin e Stalin.
Di Le Bon sono famosi i saggi dedicati alla psicologia delle
folle, in particolare latine, che subiscono il contagio degli umori collettivi,
sono d'indole femminile e cercano un conquistatore, un Cesare, che le seduca e
le governi. «Non so quante volte ho riletto La psicologia delle folle», scrisse
Mussolini, definendola «un'opera capitale».
L'opera in cui Le Bon teorizza l'esistenza di un'anima dei
popoli è L'evoluzione dei popoli che uscì nel 1894, l'anno precedente alla sua
opera capitale, e fu poi tradotta in Italia nel 1927, l'anno dopo i lusinghieri
giudizi espressi da Mussolini.
Per Le Bon «ogni popolo possiede una costituzione mentale
altrettanto fissa quanto i suoi caratteri anatomici». Fissità che poi egli
stesso smonta quando invece si sofferma sulle modificazioni e gli influssi che
agiscono nel tempo.
I popoli hanno antenati comuni, sono fatti «della stessa
argilla, recano la stessa impronta»; anzi, «un popolo è guidato più dai suoi
morti che dai suoi vivi».
L'anima del popolo è formata da una rete di tradizioni,
idee, sentimenti, modi di pensare comuni.
Per Le Bon ci sono due sovrani più dispotici di un tiranno:
sono la tradizione e l'opinione.
Le manifestazioni esteriori dell'anima dei popoli sono la
lingua, le istituzioni, le credenze, le arti e la letteratura. La storia dei
popoli è la conseguenza del loro carattere.
Le idee rappresentano le molle invisibili che guidano il
mondo.
Il discorso assume poi una piega biologico-positivista
inquietante quando passa a classificare le razze; ma non dobbiamo giudicare la
sua teoria col tragico senno di poi; non va dimenticato che alla fine
dell'ottocento era comune nella cultura scientifica, oltre che ideologica e
pure nel sentire comune, parlare di razze. Il passaggio dall'anima dei popoli
alle razze segna la traduzione biologica e naturalistica di una visione
culturale e spirituale. Dalla diversità delle razze si passa così alla
distinzione tra razze superiori e razze inferiori e si gettano le basi per il
dominio sulle razze inferiori o l'eliminazione delle razze ritenute degeneri.
Secondo Le Bon la vitalità di un popolo è in contrasto con
la sua evoluzione. Quando l'intelligenza si fa più raffinata decadono il
carattere e l'energia di un popolo.
«Solo i fanatici, d'intelligenza ristretta, ma di carattere
energico e di forti passioni, possono fondare religioni, imperi e sollevare il
mondo». Resta fondamentale l'eredità, ma con i progressi della civiltà sia gli
individui che le razze tendono a differenziarsi progressivamente.
La specializzazione nel lavoro su cui si fonda la modernità,
anziché accrescere l'intelligenza la riduce, fino ad atrofizzarla. Nel cuore
dello sviluppo industriale Le Bon scorgeva dunque una forma di involuzione. Le
Bon descrive con vent'anni d'anticipo su Spengler
il tramonto della civiltà occidentale.
L'individualismo, a suo dire, è un fattore di decadenza,
«l'individuo finisce di non avere altra preoccupazione che se stesso». Le
coscienze capitolano, la moralità generale s'abbassa e si spegne, l'uomo perde
ogni dominio su se stesso, è in balia delle cose. La perdita del carattere è
contrassegnata da una crescita di egoismo, così come il declino dello spirito
pubblico produce l'egemonia del privato.
Ma questa diagnosi di Le Bon va di pari passo col rifiuto
radicale del socialismo e del pregiudizio egualitario. «Il socialismo sarà un
regime troppo duro per poter durare», sarà una delle ultime tappe della
decadenza che manderà in rovina i Paesi che lo abbracceranno.
La conclusione è che la vita di un popolo e di una civiltà
sono il riflesso della sua anima, i segni visibili di una cosa invisibile. La
coscienza di avere un'anima collettiva segna il fiorire di una civiltà e la
dissociazione indica invece la sua decadenza: «Appena scompare l'anima
nazionale i popoli si disgregano».
Oggi può valere ancora la lettura di Le Bon? A prima vista
il cosmopolitismo e l'individualismo, la tecnica e il mercato, hanno reso del
tutto antiquata, obsoleta, la sua teoria.
Però quando osserviamo le inquietudini e le insofferenze dei
nostri anni, l'esigenza di ritrovare radici comuni e consonanze di fondo, il
sorgere di movimenti popolari che si richiamano alle identità dei popoli e
dunque alla loro anima, quando vediamo persino i leader meno legati al passato
appellarsi, per dare consenso e coesione, al Partito della Nazione o alla
tutela degli italiani rispetto ai flussi migratori clandestini, allora
s'insinua il sospetto che occorre rifare i conti con l'anima dei popoli. C'è un
nesso tra il perdersi d'animo della società depressa e la perdita dell'anima di
un popolo.
Esiste davvero la personalità delle nazioni, c'è un'impronta
comune, un carattere e uno spirito pubblico che fa sentire una società come una
comunità di destino.
L'anima dei popoli è forse un'espressione troppo aulica,
enfatica, per giunta sporcata dalla sua caricatura biologica, la razza.
Ma se le civiltà hanno un'energia spirituale e una volontà
di vivere e durare, una molla che le muove e le unisce, quel fuoco interiore è
«l'anima dei popoli». Una fiaccola per attraversare la notte del nichilismo
senza ricadere nell'oscurità del razzismo.
Senz'anima un popolo regredisce a massa, così come
senz'anima la persona è solo un individuo e una famiglia è solo un agglomerato.
L'anima di un popolo è la sua vitalità.
Fonte: srs di Marcello Veneziani, da Il Giornale.it del 27 ottobre 2014
Link: http://www.ilgiornale.it/news/cultura/i-popoli-hanno-unanima-e-guai-quando-perdono-1062798.html
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