Tutti oggi consideriamo «naturale» che donne e bambini abbiano diritti inviolabili equiparabili a quelli degli uomini, e che non possano essere proprietà di nessuno e da nessuno sacrificabili. Pochi sanno e tanti non vogliono sapere, tuttavia, che essi sono un dono della civiltà cristiana.
Anzi, come ha concluso dopo anni di studio uno dei più
importanti sociologi delle religioni, Rodney Stark, docente di Scienze Sociali
presso la Baylor University del Texas, le cause dell’incredibile aumento del
numero dei cristiani dall’anno 40, in cui erano 1000, al 350 quando arrivarono
a 32 milioni sono -oltre che l’attenzione e la cura per il prossimo- proprio
per l’attenzione, la stima, il rispetto e la protezione che i cristiani
praticavano nei confronti delle donne. Esse infatti, come vedremo, godevano di
uno status più alto rispetto alle donne del mondo greco-romano, avevano
rispetto e venivano equiparate all’uomo (R. Stark, “Le città di Dio. Come il
cristianesimo ha conquistato l’impero romano”, Lindau 2010). La cristianità
si sviluppò all’interno dell’impero romano non solo in virtù della forza della
sua dottrina, ma anche perché riuscì a creare delle isole di stabilità,
di protezione, di dignità per donne e bambini, all’interno delle rigide
barriere etniche e di classe presenti nella società ebraica e romana.
I° PARTE
1. CONDIZIONE DELLA DONNA PRIMA DEL CRISTIANESIMO
Papa Francesco ha
fatto un’affermazione molto chiara: «Gesù ha rotto gli schemi contro
le donne: la misericordia di Dio è più grande dei pregiudizi».
E’ così, se andiamo ad osservare le culture germaniche,
al tempo delle invasioni barbariche, alla donna «viene riconosciuta una
inferiorità cronica nei confronti dell’uomo. Nessuna donna può vivere nel regno
longobardo da libera, senza essere cioè soggetta al mundio, che sia del marito
o del padre o dei fratelli, o in caso estremo del re, né può vendere o donare
beni senza il consenso del mundualdo». Nelle leggi longobarde, «la donna
è considerata più come oggetto di diritto che non come soggetto dello stesso:
l’offesa recata a una donna viene riparata in quanto recata a un possesso
dell’uomo» (M. Guidetti, “Storia d’Italia e d’Europa”, Jaca Book
1978, p. 161).
Come spiegato da Samir Khalil Samir, teologo, islamista e
studioso di lingue semitiche, nel mondo islamico la donna invece
soggiace alla poligamia, alla possibilità del marito di ripudiarla ripetendo
tre volte la frase “sei ripudiata”
dinnanzi a due testimoni maschi. Essa può essere comperata, tanto che la dote
può essere essenziale per la validità del matrimonio; non ha potestà
genitoriale; la sua testimonianza in tribunale vale la metà di quella di un
uomo e può essere picchiata dal marito secondo la sura delle donne IV, 34 (G.
Paolucci e C. Eid, “Cento domande sull’Islam”, Marietti 2002, p. 80-87).
Le donne elleniche, ha spiegato Rodney Stark, «vivevano
quasi recluse, nelle classi elevate ancor più che nelle altre; e tutte
conducevano una vita molto appartata; nelle famiglie privilegiate, alle donne
veniva negato l’accesso alle stanze anteriori della casa» (R. Stark, “Il
trionfo del cristianesimo”, Lindau 2012, p. 163). Per quanto riguarda le donne
romane, invece, «non erano recluse, ma ugualmente subordinate al
controllo maschile in molti altri modi. Né le donne elleniche né quelle romane
avevano voce in capitolo nella scelta dell’uomo da sposare, né su quando
sposarsi» (R. Stark, “Il trionfo del cristianesimo”, Lindau 2012, p.
163).
La situazione delle donne ebree era ancora diversa,
secondo Filone di Alessandria, la più autorevole voce ebraica della diaspora, «le
donne sono soprattutto adatte a una vita domestica che mai si allontana da casa
[…].Una donna non deve mai essere una ficcanaso che si intromette in faccende
che vanno al di là dei suoi interessi domestici, ma deve scegliere una vita di
solitudine» (citato in R. Scroggs, “Paul and the Eschatological Woman”,
Journal of the American Academy of Religion 1972, 290). In particolare, ha
spiegato Stark, «le moglie ebree venivano ripudiate dai loro mariti
abbastanza spesso e facilmente, mentre loro non potevano chiedere il divorzio».
Inoltre, ha continuato lo storico inglese W.H. Clifford
Frend, «le donne ebree non avevano il diritto di prestare testimonianza
e non potevano aspettarsi che fosse data credibilità a ciò che riferivano»
(W.H. Clifford Frend, “The rise of Christianity”, Fortress 1984, p.67).
Nel Talmud babilonese, ad esempio, si trova scritto: «Meglio bruciare
la Torah che insegnarla a una donna […]. Chiunque parla troppo con una donna fa
del male a se stesso» (citato in S.G Bell, “Women: From the Greeks to
the French Revolution”, Stanford University Press 1971, p.72). Tuttavia
alcune donne ebree ricevevano una buona istruzione e avevano ruoli di
leadership in certe sinagoghe, come confermano le iscrizioni di Smirne. In
generale, le donne ebree stavano meglio di quelle pagane.
2. LA DONNA NEI VANGELI E IL CAMBIAMENTO IMPOSTO DA
GESU’
Rispetto ai tempi precedenti in cui, come abbiamo visto, il
ruolo della donna era subalterno rispetto all’uomo, diversamente dai maestri e
dai dottori della legge dell’epoca Gesù manifesta una propensione positiva
nei confronti delle donne. Parla con loro in pubblico, anche con chi non gode
di buona nomea, come l’adultera (Gv 8,1-11), la prostituta nella casa di Simone
(Lc 7,37-47) o la samaritana (Gv 4,7 ss). Molte donne sono presenti tra i suoi
seguaci, cosa abbastanza insolita per un rabbì, per discepole ha le due sorelle
di Lazzaro Marta e Maria, come leggiamo al momento della crocifissione, tra gli
apostoli solo Giovanni rimane ed è in compagnia della Madre di Gesù, della «sorella
di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala» (Gv 19, 25), ma anche «molte
donne che stavano ad osservare da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla
Galilea per servirlo» (Mt 27, 55). Il giorno della Risurrezione sono
ancora una volta le donne a udire: «Non è qui. E risorto, come aveva
detto» (Mt 28, 6) e sempre una donna, Maria di Magdala, colei alla quale
Gesù appare per primo e invita a portare agli altri il Suo annuncio di gioia e
di speranza.
Per questo il filosofo laico Umberto Eco,
professore emerito e presidente della Scuola Superiore di Studi Umanistici
dell’Università di Bologna, si è domandato: «visto che è indubbio che
Cristo si è sacrificato per maschi e per femmine e che, in spregio ai
costumi dei suoi tempi, ha conferito privilegi altissimi alle sue seguaci
di sesso femminile, visto che la sola creatura umana nata immune dal
peccato originale è una donna, visto che è alle donne e non agli uomini che
Cristo è apparso in prima istanza dopo la sua resurrezione, non sarebbe questa
una chiara indicazione che egli, in polemica con le leggi del suo tempo, e
nella misura in cui poteva ragionevolmente violarle, ha voluto dare alcune
chiare indicazioni circa la parità dei sessi, se non di fronte alle
leggi e i costumi storici, almeno rispetto al piano della Salvezza?» (C.M.
Martini, U. Eco, In cosa crede chi non crede?, Liberal Libri
1996 p. 14).
Addirittura la femminista Elisabeth Schùssler Fiorenza,
ha scritto: «Ciò che ci porta a vedere i testi biblici come una risorsa
nella lotta per la liberazione dall’oppressione patriarcale, oltre che come
modelli per la trasformazione della Chiesa patriarcale, non è un qualche canone
speciale di testi che possano pretendere un’ autorità divina; è piuttosto
l’esperienza delle donne stesse, nelle loro lotte di liberazione» (citata
in C.M. Martini, “Guida alla lettura della Bibbia” p. 57).
Se dunque prima del cristianesimo la donna non ha mai avuto
un ruolo importante, anzi -nel Medio Oriente antico- un ruolo «di profonda
subordinazione sociale, il cui unico potere era nella fecondità, nel
generare, nonostante che, alla fine, anche questo fosse amministrato da
autorità maschili attraverso scambi di alleanze fra le famiglie» (C. Augias
e M. Pesce, “Inchiesta su Gesù”, Mondadori 2006, pag. 38), i Vangeli
attribuiscono ad esse un altissimo valore e responsabilità.
Lo testimonia ancora lo storico del cristianesimo Mauro
Pesce: «Maria aveva un ruolo forte all’interno dei primi gruppi
cristiani. Accade lo stesso anche alla madre di Giovanni e Giacomo il cui
marito, Zebedeo, non gioca alcun ruolo, laddove la moglie ha un rilievo
importante nel gruppo; infatti è lei a chiedere a Gesù, secondo Matteo, che i
suoi due figli abbiano una funzione importante nel futuro regno di Dio
(20,20-21): “Dì, che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla
tua sinistra nel tuo regno”. In generale possiamo dire che nel gruppo di Gesù
il ruolo delle donne è significativo» (C. Augias e M. Pesce, “Inchiesta
su Gesù”, Mondadori 2006, pag. 34).
3. LA VISIONE DELLA DONNA DI SAN PAOLO
A volte la percezione del ruolo
delle donne nella Chiesa delle origini è stata a lungo distorta da
un’affermazione attribuita a Paolo: “Le donne nelle assemblee
tacciano perché non è loro permesso parlare” (1Cor 14,34). Secondo Bart
D. Ehrman, noto studioso statunitense del Nuovo Testamento e del
cristianesimo delle origini (agnostico), «ci sono solide ragioni, comprese
alcune prove nei manoscritti, per credere che l’ingiunzione di tacere rivolta
alle donne non facesse originariamente parte della lettera ai Corinzi, ma sia
stata aggiunta in seguito dai copisti» (B.D. Ehrman, “Gesù è davvero
esistito?”, Mondadori 2013, p. 352). Robin Scroggs, biblista e
docente di New Testament all’Union Theological Seminary di New York ha
argomentato efficacemente che tale frase fu inserita da coloro che composero le
lettere deutero-paoline e pastorali, attribuendole a Paolo, nel suo libro “Paul
and the Eschatological Woman” (Journal of the American Academy of Religion
1972), come confermato anche da tanti altri studiosi. Anche Rodney Stark
ha spiegato che «ci sono oggi valide ragioni per rifiutare queste parole in
quanto risultano incoerenti con tutto ciò che Paolo ha da dire sulle donne»
(R. Stark, “Il trionfo del cristianesimo”, Lindau 2012, p. 166).
Infatti tale affermazione stona vistosamente con la visione
della donna di San Paolo espressa in molti altri passaggi. In Rm 16,1-2, ad
esempio, egli raccomanda di accogliere come una santa la diaconessa Febe.
Paolo, evidentemente, non vedeva niente di male nella responsabilità di guida
della donna, anche perché la presenza di una diaconessa non era certo raro,
come abbiamo già fatto notare. Lo stesso Paolo le aveva come collaboratrici,
come osservato da Wayne Meeks, professore Emerito di Studi Religiosi
alla Yale University: «Le donne […] sono le compagne di lavoro di Paolo in
quanto evangeliste e maestre» (W. Meeks, “The First Urban Christians:
The Social World of the Apostle Paul”, Yale University Press 1983, p.71).
San Paolo invitò all’equiparazione tra uomo e donna anche nell’esercizio
della sessualità, ad esempio quando scrisse: «Il marito dia alla moglie
ciò che le è dovuto; ugualmente anche la moglie al marito. La moglie non è
padrona del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito
non è il padrone del proprio corpo, ma lo è la moglie. Non rifiutatevi l’un
l’altro, se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla
preghiera. Poi tornate insieme, perché Satana non vi tenti mediante la vostra
continenza» (1Cor 7,3-5).
Il giurista italiano Stefano Rodotà, notoriamente
laico, ha
criticato nel 2013 lo «schema patrimoniale che vede il coniuge
proprietario del corpo dell’altro coniuge o creditore di prestazioni sessuali».
In questo modo, ha continuato, «si perdeva così il senso delle parole di
Paolo nella prima Lettera ai Corinzi: “la moglie non ha potere sul suo corpo,
ma il marito. Allo stesso modo non è il marito ad avere potere sul proprio
corpo, ma la moglie”. In questo reciproco possesso era fondata l’eguaglianza
tra i coniugi»
4. LA DONNA NEL PRIMO CRISTIANESIMO E NEL MEDIOEVO
Anche nella Chiesa delle origini, oltre che nei Vangeli, le
donne ebbero un ruolo importante. Ad esempio nel 112 d.C., Plinio il Giovane fa notare in una
lettera inviata all’imperatore Traiano di aver torturato due giovani donne
cristiane «che venivano definite diaconesse» (citato in The Letters
of Pliny the Younger” Penguin Classic 1969, 10.96). Le diaconesse
erano capi importanti nella prima Chiesa, dotate di speciale responsabilità,
citate da Clemente Allessandrino e lo stesso San Paolo ne parla in Rm 16,1-2.
Origene (185-216 d.C.), commentando questo brano di Paolo, ha spiegato: «Questo
testo insegna con l’autorità di un apostolo che […] nella Chiesa ci sono, come
detto, diaconi donna, e che le donne […] devono essere ammesse al diaconato»
(citato in R. Gryson, “The Ministry of Woman in the Early Church”, The
Liturgical Press 1976, p. 134). Nel Concilio di Calcedonia del 451, si
stabilì ad esempio che in futuro la diaconessa dovrà avere almeno 40 anni e non
essere sposata.
Peter Brown, professore Emerito di Storia alla
Princeton University, ha fatto osservare che «i membri del clero cristiano
[…] hanno compiuto un passo che li ha separati dai rabbini di Palestina […].
Accoglievano le donne come protettrici e giungevano fino a dare loro dei ruoli
in cui potevano agire come collaboratori» (P. Brown, “The Body and
Society”, Columbia University Press 1988 p. 144,145).
Wayne Meeks, professore Emerito di Studi Religiosi
alla Yale University ha a sua volta commentato che «sia in termini di posto
che occupano all’interno della società più vasta che in termini di
partecipazione alle comunità cristiane, un gran numero di donne disattese le
normali aspettative legati ai ruoli femminili» (W. Meeks, “The First
Urban Christians: The Social World of the Apostle Paul”, Yale University
Press 1983, p.71)
Nella Chiesa antica la differenza maschile e femminile non è
mai stata in opposizione, bensì in armonia con il fatto che entrambi sono parte
dell’unità dell’essere umano: l’uomo, così come la donna, non esistono “da
soli” ma acquisiscono un senso e una pienezza solo se si pongono “in relazione”.
«Le donne cristiane», ha spiegato Rodney Stark, «godevano davvero di
maggior uguaglianza con gli uomini di quanta ne avessero le controparti pagane
o ebree» (R. Stark, “Il trionfo del cristianesimo”, Lindau 2012, p.
166).
Teodoreto di Cirro (393 circa – 457 circa), vescovo
di Cirro, in Siria, scriveva: «Al pari dell’uomo la donna è dotata di
ragione, capace di comprendere e conscia del proprio dovere; come lui essa sa
ciò che deve evitare e ciò che deve ricercare; può darsi talvolta che esse
giudichi meglio dell’uomo ciò che può riuscire utile e che essa sia una buona
consigliera» (citato in F. Agnoli, “Inchiesta sul cristianesimo”,
Piemme 2010, p. 60).
Lo conferma anche l’archeologia: uno studio sulle sepolture
in catacombe sotto Roma, basato su 3733 casi, ha rivelato che le donne
cristiane avevano quasi le stesse probabilità degli uomini di essere
commemorate con lunghe iscrizioni. Questa «quasi uguaglianza nella
commemorazione di maschi e femmine è qualcosa di peculiarmente cristiano, e
differenzia i cristiani dalle popolazioni non cristiane della città», ha
spiegato Brent D. Shaw, storico canadese dell’Università di Princeton
(B.D. Shaw, “Season of Death: Aspects of Mortality in Imperial Roman,
Journal of Roman Studies 1996, p. 107)
Questi elementi insieme al culto di Maria, fecero sì che
nelle comunità cristiane, fin dall’inizio, ci fu una prevalenza numerica
delle donne. La crescita di comunità sane con la presenza di molte donne
virtuose fu decisiva per la crescita demografica dei cristiani: accadde infatti
che i pagani trovavano donne virtuose per contrarre matrimoni nelle comunità
cristiane. La percentuale di unioni tra donne cristiane e uomini pagani fu
relativamente alta, e generò molte conversioni dei coniugi maschi al cristianesimo.
La conseguenza ultima di questi fenomeni fu ovviamente un aumento del tasso di
natalità all’interno dei circoli cristiani. Come ha osservato lo storico della
Chiesa dell’Università di Cambridge, Henry Chadwick, «il cristianesimo
sembra aver riscosso un successo speciale fra le donne. E’ stato spesso
attraverso le mogli che esso ha raggiuntole classi elevate nei primi tempi»
(H. Chadwkic, “The Early Church”, Penguin Books 1967, p. 56).
Ma perché questa sproporzione numerica di donne rispetto
agli uomini? Rodney Stark lo ha spiegato così: «Perché il
cristianesimo offriva loro una vita enormemente superiore a quella che
avrebbero altrimenti condotto» (R. Stark, “Il trionfo del cristianesimo”,
Lindau 2012, p. 162). La differenza con altre culture è stata spiegata più
sopra. Per questo Rodney Stark, a conclusione del suo lavoro sull’incredibile
diffusione del cristianesimo nei primi secoli, ha spiegato: «L’ascesa del
cristianesimo fu opera delle donne. In risposta alle speciali attrattive che
questa religione presentava ai loro occhi, la Chiesa delle origini riuscì a
convertire molte più donne che uomini, e questo in un mondo dove le donne
scarseggiavano. Tale eccesso di donne diede alla Chiesa un noto vantaggio
perché portò a una fertilità cristiana sproporzionalmente elevata e a un
crescente numero di conversioni secondarie (dei loro mariti)» (R. Stark, “Il
trionfo del cristianesimo”, Lindau 2012, p. 180,181)
Eppure, ha
sottolineato nel 2009 lo scrittore Francesco Agnoli, esiste
un’idea abbastanza diffusa che vede la Chiesa cattolica come l’artefice della
discriminazione della donna come essere inferiore. Per smentire questa calunnia
basterebbe citare le innumerevoli grandi donne del cristianesimo,
partendo dalle diverse martiri dei primi secoli (Agnese, Tecla, Cecilia,
Margherita, Blandina…), venerate da tutto il popolo cristiano con immensa
devozione e derise dai polemisti anticristiani, come Celso a Porfirio, che nei
loro libelli sottolineano che alla “nuova religione” aderiscono non tanto
uomini colti e filosofi, quanto “donnette”, “donne sciocche”, “schiavi” e
“ragazzini”.
Mentre le donne più importanti dell’antichità di cui
si conserva il nome sono pochissime, sovente ricordate più per la loro
condizione di etere e prostitute d’alto bordo che per altri motivi,
innumerevoli sono le donne colte dei monasteri, le donne nobili o
meno dedite alle opere di carità (Pulcheria, Eudoxia, Galla Placidia,
Olimpia, Melania…), così pure come con le donne che hanno cambiato la storia
dei loro regni come le principesse Clotilde, Teodolinda, Berta Di Kent, Olga di
Kiev. «Dappertutto», ha scritto la storica Régine Pernoud, «si
constata il legame tra la donna e il Vangelo se si seguono, tappa dopo tappa,
gli avvenimenti e i popoli nella loro vita concreta» (R. Pernoud, “La
donna al tempo delle cattedrali”, Rizzoli 1986, p. 18). Dopo che san Paolo
ha sconvolto tutto il pensiero antico, proclamando che “in Cristo non c’è
più né giudeo né greco, né maschio né femmina, né schiavo né libero” (Gal
3, 28) è utile far presente che il cristianesimo è l’unica religione in
cui il rito di iniziazione e quindi
di ammissione alla comunità, cioè il battesimo, è uguale per uomini e
donne.
Lo storico francese Jacques Le Goff ha scritto: «Io
ritengo che l’idea che la donna sia uguale all’uomo abbia determinato la
concezione cristiana della donna e abbia influenzato la visione e
l’atteggiamento della Chiesa medievale nei suoi confronti» (J. Le Goffe, “Un
lungo Medioevo”, Dedalo 2006, p. 92). Infatti, ha spiegato ancora il
celebre accademico, Tommaso d’Aquino «afferma a grandi linee, che Dio
ha creato Eva da una costola di Adamo e non l’ha creata dalla testa o dai
piedi; se l’avesse creata dalla testa, ciò avrebbe voluto dire che Egli vedeva
in lei una creatura superiore ad Adamo, al contrario, se l’avesse creata dai
piedi l’avrebbe considerata inferiore: la costola si trova a metà del corpo, e
la scelta quindi stabilisce l’uguaglianza, nella volontà di Dio, di Adamo e di Eva»
(J. Le Goff, “Un lungo medioevo”, Dedalo 2006, p. 91,92).
Nel saggio “Donna Domina. Potere al femminile da
Cleopatra a Margaret Thatcher” (Bononia University Press 214), la storica Francesca
Roversi Monaco, docente di Storia medioevale all’Università di Bologna, ha
riflettuto sul ruolo della donna nel Medioevo cristiano. Il saggio è
stato recensito con queste parole da Angelo Varni, ordinario di
Storia contemporanea presso l’Università di Bologna e Direttore della Scuola
Superiore di Giornalismo: «Ancora sovrane, principesse e nobildonne a dar
sostanza ad un ruolo di potere politico ricoperto da donne nel Medioevo. Ce lo
dimostrano i due persuasivi ritratti di Matilde di Canossa e di Ildegarda di
Bingen». Nel libro «si descrive un’epoca che, ad onta dei luoghi comuni
sulle sue chiusure, apriva spazi di presenza femminile ai vertici più
alti della gestione della cosa pubblica finanche internazionale, irradiantesi
dalle corti e dai monasteri affidati per vicende ereditarie e nobiltà di
lignaggio alle loro cure».
Al contrario, «fu la Rivoluzione
francese rimettere in discussione simili opportunità tutte derivate
dall’appartenenza di casta: nella società borghese dell’uguaglianza dei diritti
e dei doveri non parve affatto naturale riconoscere alle donne una loro
paritaria presenza nella dimensione pubblica, mentre il positivismo
ottocentesco si sforzava di trovare ragioni oggettive per relegarle nei limiti
del privato».
5. MATRIMONIO, FEDELTÀ’, VEDOVANZA E INFERTILITA’
Il cristianesimo contribuì a redimere il valore della donna
anche grazie alla nuova e radicale posizione su alcuni aspetti della vita
sociale. Innanzitutto il matrimonio. Le ragazze pagane venivano
sposate in giovane età, di solito da uomini molto più vecchi, e raramente
avevano voce in capitolo nella scelta dello sposo, così anche per le donne
romane, per le quali matrimonio si celebrava solitamente prima della pubertà e
veniva subito consumato (esempi sono Ottavia, Agrippina, la moglie di
Quintilliano e quella di Tacito).
Lo storico Plutarco (46-120
d.C.) riporta che i romani «davano le loro figlie in spose quando avevano
dodici anni, se non prima», tanto che egli descrisse «l’odio e la paura
delle ragazze costrette contro natura» (citato in K. Hopkins, “The Age
of Roman Girls at Marriage”, Population Studies 1965, p.114). Lo storico
Cassio Dione (155-229 d.C.) concorda: «Le ragazze sono ritenute pronte per
il matrimonio al compimento del loro undicesimo anno di età» (Cassio Dione,
“Storia romana”).
Al contrario, fin dal primo cristianesimo «le donne
cristiane si sposavano più tardi e avevano più scelta su chi sposare. Non è
questione da poco se si pensa che le donne pagane erano spesso costrette a
sposarsi e a consumare il matrimonio in età prepuberale (11 o 12 anni), mentre
la gran parte di quelle cristiane aspettavano anche i 18 anni» (R. Stark, “Ascesa
e affermazione del cristianesimo”, Lindau 2007, cap. 5). Inoltre, le donne
cristiane avevano voce in capitolo sulla persona da sposare e partecipavano ad
un matrimonio più sicuro, perché quello cristiano è ed era imprescindibilmente
monogamico e indissolubile. Tutto questo quindi sottintende e implica anzitutto
la pari dignità degli sposi: non è lecito ad un uomo avere più mogli,
nel suo gineceo o nel suo harem! Non è lecito, in virtù della sua maggior
forza, ripudiare la moglie, come fosse un oggetto, né sostituirla con delle
schiave! E neppure, ovviamente, il contrario.
Uno studio
sull’età in cui ci si sposava, basato su iscrizioni funerarie romane, ha
permesso di distinguere le donne
cristiane da quelle pagane, con differenze molto nette: il 20% delle donne
pagane aveva dodici anni o meno quando si sposava (il 4% aveva solo 10 anni),
invece solo il 7% delle spose cristiane era sotto i tredici anni. Metà delle
donne pagane si erano sposate prima dei quindici anni, rispetto al 20% delle cristiane
e circa metà delle donne cristiane non si erano sposate fino all’età di
diciotto anni o più (citato in K. Hopkins, “The Age of Roman Girls at
Marriage”, Population Studies 1965).
Questa nuova considerazione della donna è stata spiegata
così dal celebre storico del medioevo Jacques Le Goff: «Credo che
tale rispetto della donna sia una delle grandi innovazioni del cristianesimo;
pensiamo alla riflessione che la chiesa ha condotto sulla coppia e sul
matrimonio, fino a giungere alla creazione di tale istituzione, ora tipicamente
cristiana, formalizzata dal quarto concilio Lateranense nel 1215, che ne fa un
atto pubblico (da cui la pubblicazione dei bandi) e, cosa fondamentale, un atto
che non può realizzarsi se non con il pieno accordo dei due adulti coinvolti.
Ciò che mi pare rilevante nelle disposizioni del concilio Lateranense è il
fatto che il matrimonio diventa impossibile senza l’accordo dello sposo e della
sposa, dell’uomo e della donna: la donna non può essere data in matrimonio
senza il suo consenso, essa deve dire sì» (Avvenire,
21/1/2007).
Harold J. Barman, professore alla Harvard Law School,
ha a sua volta spiegato che «sotto l’influenza del cristianesimo, a anche in
virtù delle idee stoica e neoplatonica recepite dalla filosofia cristiana […],
nel diritto di famiglia fu attribuita alla moglie una posizione più paritaria
di fronte al marito, richiedendo il mutuo consenso di entrambi gli sposi per la
validità del matrimonio, rendendo più difficile il divorzio (cosa che a quel
tempo rappresentò un passo avanti verso la liberazione femminile) e abolendo il
potere di vita e di morte del capo famiglia sui propri figli» (H.J. Barman,
“Diritto e rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica occidentale”,
Il Mulino 2006, p.179)
Barman ha citato
il divorzio, la cui posizione fu definita da Gesù: «Ma io vi
dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima,
e ne sposa un’altra, commette adulterio» (Mt 19,9). E’ una rottura radicale
con i costumi del passato, dove il divorzio si giustificava per un mero
capriccio del marito.
La legge ebraica, ad esempio, stabiliva esplicitamente che
una moglie ripudiata non era libera di «andare in moglie a qualunque uomo
ebreo lei voglia» (M.J. Geller, “Early Christianity and the Dead Sea
Scrolls”, University of London 57, 1994, p.83). La Chiesa invece è sempre
stata inflessibile nella sua aderenza allo standard stabilito da Gesù, e
ciò si tradusse nell’idea che non c’erano ragioni per risposarsi dopo il
divorzio.
Anche nella sessualità della coppia il cristianesimo parlava
di equiparazione tra uomo e donna, lo spiega San Paolo quando dice: «Il
marito dia alla moglie ciò che le è dovuto; ugualmente anche la moglie al
marito. La moglie non è padrona del proprio corpo, ma lo è il marito; allo
stesso modo anche il marito non è il padrone del proprio corpo, ma lo è la
moglie. Non rifiutatevi l’un l’altro, se non di comune accordo e temporaneamente,
per dedicarvi alla preghiera. Poi tornate insieme, perché Satana non vi tenti
mediante la vostra continenza» (1Cor 7,3-5).
Il prof. Miguel Gotor, docente di Storia moderna
presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Torino, ha
spiegato che i cristiani «hanno prevalentemente costruito un modello
cognatizio che consente il trasferimento della parentela e della relativa
eredità in ugual misura sia ai maschi sia alle femmine». Tali
relazioni «proprie del cristianesimo hanno favorito una progressiva
parità tra uomo e donna. Inoltre, il divieto di unioni tra parenti e la
capacità della donna di ereditare, di trasmettere la proprietà e di sposarsi al
di fuori della famiglia, hanno consentito una maggiore circolazione delle
ricchezze e la formazione di un mercato autonomo, ma anche l’unione di Regni
diversi senza guerra né sangue, bensì per via matrimoniale».
Il cristianesimo modificò anche la visione sull’infertilità,
che nelle culture antiche veniva addossata alla moglie e giustificava il
ripudio o il ricorso del marito ad altre donne, per ottenere il figlio
desiderato. Si pensi ad esempio che le donne romane dovevano mettere al mondo
almeno tre figli «per poter un giorno, alla morte del padre, essere libere
da ogni tipo di tutela sui beni» (G. Duby e M. Perrot, “Storia delle
donne”, Laterza 1993, pp. 342, 349). Nel cristianesimo, invece, «non è
più motivo di separazione la sterilità, che nelle società antiche era vissuta
sempre come malattia femminile» (M. Pelaja e L. Scaraffia, “Due in una
carne”, Laterza 2008, p. 15).
Rispetto all’adulterio, nel matrimonio
cristiano esso è proibito sotto pena di peccato mortale per entrambi i coniugi,
«nella società romana, al contrario, la legge puniva severamente le adultere
mentre l’infedeltà dei mariti non era soggetta a sanzioni penali, né a una
seria disapprovazione morale. Era anzi pienamente accettato che l’uomo
intrattenesse rapporti sessuali con gli schiavi di entrambi i sessi presenti
nella casa».
Come spiega
L’Enciclopedia Treccani, «nel diritto germanico la donna adultera
è lasciata alla vendetta del marito e dei parenti; può essere uccisa, o ridotta
in servitù, o scacciata, o privata dei beni e mutilata del naso e degli occhi».
Ebrei e musulmani, invece, «condannavano le adultere alla lapidazione. Nuovo
agli orecchi dei suoi contemporanei suona dunque il discorso di Cristo
sull’adultera: “Gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in
adulterio, la posero nel mezzo, bene in vista, e gli dissero: Maestro, questa
donna è stata colta in flagrante adulterio. Ora Mosé ci ha ordinato nella legge
che tali donne siano lapidate: tu che ne pensi? Parlarono così per tendergli
un’insidia e aver poi un pretesto per accusarlo. Ma Gesù si inchinò e col dito
si mise a scrivere in terra. E poiché quelli insistevano, egli alzò il capo e
risposte: Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei.
Poi si chinò di nuovo e continuò a scrivere in terra. Udite queste parole, se
ne andarono tutti, uno dopo l’altro, cominciando dai più vecchi. Rimasero
soltanto Gesù e la donna che continuava a stare lì, in piedi. Allora Gesù,
alzatosi, le chiese: Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? Risposte:
Nessuno, Signore. Le disse Gesù: Neppure io ti condanno, và e non peccare più”
(Gv 8,3-11» (M. Pelaja e L. Scaraffia, “Due in una carne”, Laterza
2008, p. 17). Una posizione in totale discontinuità dalle culture e società
precedenti.
La battaglia della Chiesa per la fedeltà coniugale
e l’autocontrollo degli istinti, soprattutto maschili, ha anche liberato l’uomo
da una concezione animalesca del rapporto sponsale ma ha avuto anche l’effetto
di nobilitare e liberare la donna.
Scrive Aline Rousselle, professore di Storia Antica
presso l’Università di Perpignan: «Gli uomini romani pagani non venivano
allevati nell’idea di dover esercitare un certo autocontrollo. Per il ragazzo
erano normale guardare con occhio concupiscente le giovani schiave di casa. Ve
ne erano sempre di giovanissime da usare per il proprio piacere». Anche «le
mogli dell’alta società romana non avevano difficoltà ad accettare le relazioni
del marito con schiave e concubine. Talvolta erano esse stesse a scegliere
queste “socie”».
Analoga la situazione adottata non di rado dagli Ebrei: «Dal
Talmud sappiamo che gli Ebrei poligami procreavano con la prima sposa e
facevano prendere la pozione (abortiva, con grandi rischi anche per la vita
della donna) alla seconda, che era fatta per il “piacere”» (A. Rousselle, “Storia
delle donne”, Laterza 1993, pp. 346,348).
Solo nel cristianesimo, inoltre, le donne potevano
scegliere la loro vocazione: tantissime si dedicarono a Dio piuttosto che
ad un uomo, decidendo la loro vita al di fuori di quel rapporto di dipendenza
che nella società antica era ineludibile. Nell’antichità greca e romana ed
ebraica, infatti, le donne erano destinate solo al matrimonio e alla maternità,
nel senso che «sono pochissime le testimonianze, prima del cristianesimo, di
donne rimaste nubili» (G. Duby e M. Perrot, “Storia delle donne”,
Laterza 1993, pp. 324 e 365)
Un accenno anche alla nuova concezione della vedovanza
delle donne: i primi cristiani fecero il possibile per riconoscere alle vedove
la loro dignità, senza imporre loro di porsi immediatamente sotto il dominio di
un nuovo marito come invece volevano le leggi di Augusto. Per fare questo
venivano in aiuto anche economicamente a quelle di loro che avessero voluto
rimanere tali: così a Roma, nel 251 d.C., il vescovo Cornelio assiste
millecinquecento vedove e poveri della città, in ossequio all’insegnamento di
san Giacomo apostolo: “Religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro
Padre è questa: soccorre gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni”
(Giacomo 1,27)(F. Agnoli, “Indagine sul cristianesimo”, Piemme 2010, p.
51).
Eppure ancora oggi esiste un’usanza diffusa presso molti
popoli, estranei alla cultura cristiani, di uccidere le mogli dei capi comunità
sulla tomba dei mariti, o alla consuetudine (come si
spiega sull’Enciclopedia Treccani), vigente presso alcune tribù
dell’Africa centrale e meridionale, di imporre alla vedova, dopo la
morte dell’uomo «di stare seduta sulla nuda terra per tre mesi, prima di
poter aspirare a un nuovo marito; di rimanere distesa nella capanna per un
mese, di non accendere il fuoco, di non conversare con nessuno».
Oppure si consideri quello che accade nelle isole
Tobriand della Melanesia, «dove ella deve stare segregata da sei mesi a
due anni in una specie di gabbia osservando severi tabù».
Nell’India induista, invece, sebbene abolita in linea
di diritto, nell’Ottocento, dagli inglesi, esiste ancor oggi qua e là
l’abitudine (sati) di bruciare le vedove sulle pire dei mariti, e
permane comunque un orrenda discriminazione nei loro confronti: ad esempio
rifiutando le donne che non vogliono suicidarsi alla morte del marito, come
impone la tradizione o comunque la perdita di diritti di un essere umano (da “Repubblica”,
13/7/1999). Molte di loro sono giovanissime, andate in sposa da bambine a
uomini più vecchi con il culto (diffuso) delle vergini: 2 vedove su 5 sono
convolate a nozze prima dei 12 anni e quasi una su 3 è rimasta vedova prima dei
24 anni. Del resto si stima che nel Subcontinente 1 indiana su 4 convoli a
nozze prima dei 18 anni previsti dalla legge e che quasi 1 su 5 prenda marito
sotto i 10 anni (da “Corriere
della Sera”, 20/8/2007).
Un’altra novità nella concezione cristiana della donna è nei
riguardi delle prostitute. Ritenute ignobili nel mondo
greco-romano, dove il «marchio di infamia le privava definitivamente del
diritto al matrimonio legittimo e della facoltà di trasmettere i pieni diritti
civili: il marchio diventava ereditario» (G. Duby e M. Perrot, “Storia
delle donne”, Laterza 1993, pp. 346). Nel mondo cristiano, invece, «le
meretrici non erano depositarie di un marchio indelebile, di una colpa foriera
di dannazione eterna; nelle elaborazione giuridiche e teologiche il peccato più
esecrabile era semmai quello di chi si faceva tramite e sfruttatore delle copule
mercenarie» (M. Pelaja e L. Scaraffia, “Due in una carne”, Laterza
2008, p. 180-185).
La Chiesa, anche in onore della figura di santa Maria Maddalena, è vicina alle
prostitute: san Ivo di Chartres, vescovo di Chartres, raccomanda come un
atto di grande carità cristiana quello di spostare una prostituta strappandola
alla sua vita di peccato e papa Innocenzo III concede l’indulgenza a chi
prenda in sposa una ex meretrice.
Nel 1227 papa Gregorio IX approva l’ordine di Santa Maria Maddalena e
fioriscono in tutta Europa conventi per il riscatto delle prostitute
desiderose di cambiare vita dove venivano dati gli «strumenti indispensabili
a una onesta esistenza nel mondo: i rudimenti di un mestiere, una dote, una
nuova garanza di onorabilità» (M. Pelaja e L. Scaraffia, “Due in una
carne”, Laterza 2008, p. 180-185).
Anche le donne che sceglievano la vita religiosa nei
conventi beneficiavano di istruzione e diritti, come ha sottolineato
l’educatrice americana Emily James Putnam: «le ragazzine che
entravano in convento imparavano a leggere e scrivere, venivano istruite,
potevano studiare, tutte possibilità precluse a quante nelle classi povere
erano destinate a matrimonio e maternità». Infatti esse «trovandosi
libere dallo stato di soggezione a cui le confinava il ruolo di mogli e di
madri, le religiose sfuggivano alle fatiche e alle sofferenze fisiche che,
nella società del tempo, gravavano sulle donne feconde delle classi umili»
(E.J. Putnam, citata in “Papa Francesco e le donne”, L. Scaraffia e G.
Galeotti, 2014).
6. ANCORA OGGI LA CHIESA DIFENDE LA DIGNITA’ DELLA
DONNA NEL MONDO
Concludiamo facendo presente che l’attenzione verso la donna
non è svanita nel tempo, ancora oggi i sacerdoti cattolici sono attivi per
liberare le prostitute, soprattutto nigeriane, costrette dai loro connazionali
a “battere” sui marciapiedi d’Europa: pensiamo semplicemente alla Comunità
Giovanni XXIII di don Oreste Benzi. E ancora oggi, come sottolinea la
cronaca (anche qui),
sono le comunità e le associazioni cristiane cattoliche (come Manos unidas)
che difendono i diritti della donna nelle società (India ecc.) in cui i
valori del cristianesimo non sono accolti dalla maggioranza delle persone.
India, ma anche in
Cina, a Panama.
E’ risaputo che uno dei drammi dell’Africa islamica e
animista è proprio la scarsa considerazione della donna: abbiamo
quotidianamente la testimonianza di come missionari cattolici e protestanti, e
anche molti volontari, cerchino di contrastare le usanze poligamiche degli uomini,
con conseguente diffusione dell’aids, e la mutilazione cruenta dei genitali
femminili (clitoridectomia e infibulazione).
San Daniele Comboni
voleva accanto a sé, nelle missioni, giovani ragazze occidentali: «Le donne
educheranno le giovinette africane in modo da formare: abili istitutrici, abili
maestre e donne di famiglia, le quali dovranno promuovere l’istruzione
femminile in leggere, scrivere, far di conto, filare cucire, tessere, assistere
gli infermi». Cambiar la «femminil società africana» è essenziale
perché la «rigenerazione della grande famiglia africana» dipende da esse
(citato in F. Agnoli, “Inchiesta sul cristianesimo”, Piemme 2010, p.55).
Ancora oggi i missionari cristiani combattono per le donne africane, come Annalena
Tonelli uccisa
nel 2004 dai fondamentalisti proprio per la sua campagna contro la mutilazione
genitale femminile
II° PARTE
7. DIGNITA’ ANCHE A NEONATI E BAMBINI
Nella seconda parte di questo dossier ci occupiamo di un tema legato a quello della difesa della dignità donna, la quale cominciava fin dalle bambine, dalle neonate di sesso femminile, frequentemente scartate e abortite, come accade ancora oggi.
Per il filosofo Friedrich Nietzsche, dopo la croce di
Gesù, nessun essere umano può essere più ritenuto per principio
«sacrificabile»: «L’individuo fu tenuto dal cristianesimo così importante,
posto in modo così assoluto, che non lo si poté più sacrificare. Ma la specie
sussiste solo grazie a sacrifici umani» (F. Nietzsche, “L’Anticristo”,
Adelphi 1977, pag. 73). Prima di Cristo, infatti, i sacrifici umani furono
edificati da sempre in tutti i regni e gli imperi. La stessa storia pagana era
fondata sul dominio del più forte. Per questo chi, come Nietzsche, vorrebbe
tornare a quella storia pagana, Gesù diventa la peggior sciagura del mondo.
Il bioeticista di Princeton Peter Singer, che
vorrebbe sbarazzarsi dell’eredità ebreo-cristiana, ha riconosciuto: «I
nostri atteggiamenti attuali datano dal sorgere del Cristianesimo. Se
ritorniamo alle origini della civiltà occidentale, ai tempi dei Greci e dei
Romani, troviamo infatti che l’appartenenza alla specie “homo sapiens” non era
sufficiente a garantire la protezione della propria vita» (Peter Singer, “Etica
pratica”, Liguori 1989, pag. 82-83). Ricordando inoltre che «non c’era
rispetto per le vite degli schiavi o degli altri “barbari; e anche tra gli
stessi Greci e Romani, i neonati non avevano un automatico diritto alla vita. I
neonati deformi venivano uccisi esponendoli alle intemperie sulla cima di una
collina. Platone e Aristotele pensavano che lo Stato dovesse imporre
l’uccisione dei neonati deformi. I tante celebrati codici legislativi attribuiti
a Licurgo e Solone contenevano disposizioni analoghe» (P. Singer, “Etica
pratica”, Liguori 1989, pag. 83-84). E ancora: «L’uccisione di neonati
indesiderati o l’uso di lasciarli morire, è stata prassi normale in moltissime
società, in tutto il corso della preistoria e della storia» (P. Singer, “Ripensare
la vita”, Il Saggiatore 2000, p. 137).
Nell’antica Grecia così come a Roma: Seneca riteneva
l’annegamento dei bambini alla nascita un evento ordinario e ragionevole,
Tacito accusava i giudei ai quali “è proibito sopprimere uno dei figli dopo il
primogenito”, ritenendola un’altra delle loro usanze “sinistre e ladre”. «Era
comune abbandonare un figlio indesiderato in un luogo in cui, in linea di
principio, chi voleva crescerlo avrebbe potuto raccoglierlo, anche se
solitamente veniva lasciato in balìa delle intemperie e di animali e uccelli»
(R. Stark, “Ascesa e affermazione del cristianesimo”, Lindau 2007, p.
161).
L’avvento del cristianesimo propone all’umanità un Dio
che si è fatto bambino e che, capovolgendo tutti gli schemi e le
convinzioni dell’epoca, prima invita i suoi discepoli a diventare “come
bambini” per entrare “nel regno dei Cieli”, poi, dopo aver preso accanto a sé,
e abbracciato, un fanciullo, dice loro che «chi accoglie uno di questi
bambini in nome mio, accoglie me, e chi accoglie me, non accoglie me, ma Colui
che mi ha inviato» (Mc 9,35-37; 10, 14-16).
Con l’avvento di Gesù tutto cambia, come riconosciuto anche
da un altro importante intellettuale e filosofo laico del nostro tempo, Richard
Rotry (simbolo del neopragmatismo americano): «Se si guarda ad un
bambino come ad un essere umano, nonostante la mancanza di elementari relazioni
sociali e culturali, questo è dovuto soltanto all’influenza della tradizione
ebraico-cristiana e alla sua specifica concezione di persona» (R.
Rotry, “Objectivity, Relativism and Truth. Philosophical Papers”,
Cambridge 1991). E’ nel cristianesimo che i bambini diventano persone, d’altra
parte nei Vangeli è più volte sottolineata la commozione, il senso di
protezione e la stima di Gesù verso di essi (vedi Mc 5,41; Mt 18,6; Mt 18, 2-5;
Mc 10, 13-14).
Gli stessi detrattori del cristianesimo, come gli italiani Corrado
Augias e Mauro Pesce, affermano «”Lasciate che i bambini
vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il
regno di Dio”. Non si può apprezzare la forza di queste parole se non si
considera che i bambini, in una società contadina primitiva, erano nulla,
erano non persone, proprio come i miserabili. Un bambino non aveva nemmeno
diritto alla vita. Se suo padre non lo accettava come membro della famiglia,
poteva benissimo gettarlo per la strada e farlo morire, oppure cederlo a
qualcuno come schiavo» (C. Augias e M. Pesce, “Inchiesta su Gesù”,
Mondadori 2006, pag. 90).
Con la diffusione del cristianesimo aborto e infanticidio
divengono culturalmente inaccettabili e quindi fenomeni più rari e circoscritti.
Se nell’Impero romano l’esposizione di neonati non desiderati era diffusa, i
cristiani condannavano tale pratica come omicidio. Come ebbe a dire Giustino
Martire (100-165 d.C.), «ci è stato insegnato che è malvagio esporre
perfino i neonati […] perché in tal caso saremmo degli assassini» (citato
in “Writings of Saints Justin Martyr, Christian Heritage 1948).
Le legislazioni, a partire da Costantino, vietano
l’infanticidio e aiutano le famiglie bisognose perché non ricorrano alla
vendita dei loro figli per motivi economici. Nel 347 d.c. il padre di un
bambino esposto può essere condannato alla pena capitale, nel Concilio di
Toledo del 529, i vescovi stabiliscono che vadano puniti i genitori che
hanno uccisi i figli «con pene più severe, esclusa la pena capitale»,
mentre nel concilio di Braga del 527 vengono prescritte norme contro l’aborto e
l’uccisione dei figli nati da relazione adultere. Si sviluppano opere di carità
e assistenza per i bambini abbandonati e le famiglie in difficoltà, nascono
orfanotrofi, brefotrofi, ruote degli esposti.
Lo storico e pedagogo Buenaventura Delgado ha
scritto: «La Chiesa da una parte condannò la vendita e l’abbandono dei
figli, e in numerosi concili (Vaison, Lerida, Toledo..) continuò a contrastare
l’uso di uccidere i figli o di lasciare che venissero mangiati dai cani,
dall’altra diede vita, all’inizio del basso Medioevo, alle ruote degli esposti,
in cui i bambini non desiderati venivano abbandonati dai loro genitori per
essere allevati nei monasteri. Traccia di questa grande carità rimane in monti
cognomi italiani: Diotallevi, Esposito, Degli Esposti, Innocenti, Trovato,
Trovai, Fortuna, Proietti…» (B. Delgado, “Storia dell’infanzia”,
Dedalo 2002, p. 85-86).
Nella Lettera a Diogneto, datata al II° secolo
d.C., l’autore cerca di descrivere la nuova dottrina dei seguaci di Cristo: «Vivono
in città greche e barbare, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel
cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e
indubbiamente paradossale […]. Si sposano come tutti e generano figli, ma
non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono
nella carne, ma non vivono secondo la carne…». Un’altra conferma del
trattamento che veniva riservato ai neonati prima della cristianità: «generano
figli, ma non gettano i neonati». Nella Didaché, documento della
Chiesa del I secolo, si legge: «tu non ucciderai con l’aborto il frutto del
tuo grembo, né farai perire il bambino già nato»
Cina e India sono tra i paesi in cui il Vangelo
cristiano è penetrato di meno e con esso anche il suo messaggio. Infatti quel
che colpì negativamente il missionario Matteo Ricci quando mise piede
nel Celeste Impero nel 1583, furono la prostituzione dilagante, la grande
corruzione, la frenesia per il denaro e soprattutto la diffusione della pratica
dell’infanticidio.
Nel ‘900 J.J. Matignon scriverà: «Come sempre in
Cina la superstizione gioca un ruolo chiave: infatti gli occhi, il naso, la
lingua, la bocca, il cervello dei bambini sono reputati materie organiche dotate
di una grande virtù terapeutica». Per questo «per ingraziarsi gli
spiriti le bimbe, o in certi casi i bimbi, sono soppressi. I neonati sono
soppressi o buttandoli in un angolo dell’abitazione o in una cassa dei rifiuti;
dove la polvere e le immondizie non tarderanno a ostruirne le vie respiratorie»
(J.J. Matignon, “Superstition, crimes et misère en Chine”, Masson &
Cie 1902).
Saranno i missionari cristiani a difendere gli infanti, come
sant’Alberico Crescitelli, creatore di vari orfanotrofi per bambini
poveri e abbandonati (morto decapitato nel 1900), oppure san Giuseppe
Freinademetz, il quale il 2 luglio 1882 scrive: «Molte anime furono già
salvate dopo che siamo arrivati qui. Ancora ieri abbiamo fatto una sepoltura
solenne con una piccola bambini di più di un anno che se ne morì. La sua
propria madre voleva strangolarla per poter allattare un bambino altrui e
guadagnare denari, essa poi sentì che noi accettiamo ogni sorta di bambini e li
alleviamo bene; dunque ce la portò avanti più di due mesi, si ammalò e morì
dopo essere stata confermata da noi mezz’ora prima di morire» (G.
Freinademetz, “Lettere di un santo”, Imprexa, Bolzano pp.23,39). Oggi la
Chiesa cattolica gestisce almeno 250 orfanotrofi in Cina, accanto a 200
ospedali e 700 ambulatori (P. Dreyfus, “Matteo Ricci”, San Paolo 2006,
p. 166). Tuttavia permane la legge del figlio unico, legittimando
l’infanticidio delle bambine.
Lo stesso anche in India, dove l’uccisione delle
bambine è pratica diffusa per motivi economici e religiosi: nel Vashitsha
Smriti 17/3 si legge: “Non avere un figlio maschio è una maledizione sulla
persona”, mentre nel Manusmriti 9/138 si spiega: “In Hindi, un figlio
maschio è putra” (cioè “uno che protegge una persona dall’inferno”). Questa
è una delle ragioni principali per le quali la maggior parte degli hindu ha il
desiderio ossessivo di avere un figlio maschio.
Anche qui l’opera dei missionari cristiani, la più nota è
certamente Madre Teresa di Calcutta, è volta ancora oggi a infrangere il
muro delle caste e delle disuguaglianze sociali, alla difesa della vita
nascente e dell’infanzia in nome del Dio che si è fatto bambino. Pochi hanno il
coraggio di riportare le frasi di Madre Teresa contro l’aborto: «L’aborto è
ciò che distrugge la pace oggi. Perché se una madre può uccidere il proprio
bambino, che cosa impedisce a me di uccidere voi o a voi di uccidere me?
Niente. Ecco quello che io domando in India, che chiedo ovunque: che abbiamo
fatto per i bambini? Noi combattiamo l’aborto con l’adozione. Così salviamo
migliaia di vite. Abbiamo sparso la voce in tutte le cliniche, gli ospedali, i
posti di polizia: “Vi preghiamo di non uccidere i bambini, di loro ci
prenderemo cura noi”» (P.G. Liverani, “Dateli a me. Madre Teresa e
l’impegno per la vita”, Città Nuova, 2003).
Per gli induisti i bambini abbandonati o rifiutati dai
genitori, se sopravvivono sono e rimangono dei paria, dei sotto-casta, che
scontano colpe precedenti, per questo i missionari cristiani hanno fondato
numerose case della carità, scuole e orfanotrofi: 102 centri soltanto a
Calcutta, secondo i dati riportati dalla stessa Madre Teresa
Il filosofo tedesco Karl Löwith spiega: «Il mondo
storico in cui si è potuto formare il “pregiudizio” che chiunque abbia un volto
umano possieda come tale la “dignità” e il “destino” di essere uomo, non è
originariamente il mondo dell'”uomo universale” del Rinascimento, ma il mondo
del Cristianesimo, in cui l’uomo ha ritrovato attraverso l’Uomo-Dio,
Cristo, la sua posizione di fronte a sè e al prossimo» (K. Löwith, “Da
Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX”,
Einaudi 1949).
Lo scrittore Pietro Civati ha
commentato nel 2012 la rivoluzione culturale operata da Gesù: la
rivelazione cristiana viene nascosta ai sapienti e agli intelligenti,
cioè ai filosofi, agli scienziati, ai maestri di sapienza e di cultura, che
ebraismo e classicismo hanno da sempre esaltato. La storia del mondo, dice
Civati, è rovesciata, il cristianesimo si offre ai népioi, cioè nel
greco classico ai bambini, agli indifesi, agli stolti, agli inesperti, agli
ultimi (“che saranno i primi”), ai semplici di cuore. Il cristianesimo donò
questa una nuova dignità agli indifesi, a donne e bambini. Eliminò, oltretutto,
il concetto di proprietà: essendo innanzitutto figli di Dio, i bambini e la
donna non potevano più essere trattati come una mero possedimento da parte
del maschio.
Una concezione del bambino diversa da quella cristiana si
affermerà soltanto col comunismo e col nazismo, che per primi
introdurranno non solo l’aborto ma anche l’infanticidio dei bambini malati e
handicappati. Oggi, invece, assistiamo al ricorso massiccio, nel nostro Occidente
post cristiano, all’aborto anche per motivi eugenetici mentre nella laica
Olanda è divenuta legale l’eutanasia dei bambini fino ai dodici anni.
8. CONCLUSIONE
Uno dei principali nemici che il cristianesimo ha avuto
nella storia, Friedrich Nietzsche, riferendosi in generale
all’attenzione del cristianesimo per le donne, per i deboli, per i bambini, per
i malati, le vittime dei sacrifici umani, scriveva: «Davanti a Dio tutte le
“anime” diventa uguali; ma questa è proprio la più pericolosa di tutte le
valutazioni possibili! Se si pongono gli individui come uguali, si mette in
questione la specie, si favorisce una prassi che mette capo alla rovina della
specie; il cristianesimo è il principio opposto a quello della
selezione. Se il degenerato e il malato devono avere altrettanto valore del
sano allora il corso naturale dell’evoluzione è impedito. Questo amore
universale per gli uomini è in pratica un trattamento preferenziale per tutti i
sofferenti, falliti, degenerati: esso ha in realtà abbassato la forza, la
responsabilità, l’alto dovere di sacrificare gli uomini. La specie ha bisogno
del sacrificio dei falliti, deboli, degenerati: ma proprio a questi ultimi si
rivolse il cristianesimo. Che cos’è la virtù e l’amore per gli uomini nel
cristianesimo se non appunto questa reciprocità nel sostengo, questa
solidarietà dei deboli, questo ostacolo frapposto alla selezione. La vera
filantropia vuole il sacrificio per il bene della specie. E questo
pseudoumaniesimo che si chiama cristianesimo vuole giungere appunto a far si
che nessuno venga sacrificato. La legge suprema della vita vuole che si
sia senza compassione per ogni scarto e rifiuto della vita; che si distrugga
ciò che per la vita ascendente sarebbe solo ostacolo, veleno –in una parola
cristianesimo- è immorale nel senso più profondo dire: “non uccidere”» (F.
Nietzsche, “Frammenti postumi 1888-1889”, vol. VIII, tomo III, 15 [110],
Adelphi 1974, pp. 257-258)
Come abbiamo visto, invece, la storia della Chiesa cattolica
porta con sé la visione più dignitosa dell’uomo e della donna, del
bambino e della bambina. Senza alcuna discriminazione, senza alcuna forma di
razzismo.
L’insegnamento della Chiesa agli uomini è questo: «Tutti
voi siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati
battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né
greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti
voi siete uno in Cristo Gesù. E se appartenete a Cristo, allora siete
discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa» (Gal 3,26-29).
Fonte: da UCCR
Nessun commento:
Posta un commento