"Apoteosi dell’Ordine dei Benedettini” dipinto nel 1592 da Antonio Vassilacchi detto l’Aliense,
PERUGIA – Lo sguardo del demonio dentro la chiesa più bella
di Perugia. C’è una storia avventurosa e ricca di mistero dietro un quadro,
“riscoperto” sulla Rete, dopo oltre 400 anni grazie alla scrittrice perugina Emanuela Casinini, dipendente dei
Beni Culturali e appassionata cultrice delle vicende della sua città.
La grande tela, di quasi 90 metri quadri, sovrasta la porta
d’ingresso di San Pietro ed occupa l’intera parete del tempio: l’“Apoteosi dell’Ordine dei Benedettini”
dipinto nel 1592 da Antonio Vassilacchi
detto l’Aliense, raffigura
venerabili, pontefici, cardinali, vescovi, abati ed esponenti di altri ordini
monastici legati al santo di Norcia.
Nomi e volti, all’epoca notissimi e di cui oggi si è perduta
la memoria, fra i quali spicca, in posizione privilegiata, il grande papa San
Gregorio Magno. Una selva di ritratti: quasi 300 religiosi, raffigurati oltre
la grandezza naturale, che contornano l’immagine di San Benedetto. Avvinghiati
al fondatore dell’ordine monastico, in un tripudio di colori, dal giallo ocra
al nero, dal rosso al blu scuro. E’ un vortice di corpi, volti, tiare, bastoni
pastorali, cappelli cardinalizi, lapidi, stemmi e libri sacri.
Un dipinto maestoso. Dopo “Il Paradiso” del Tintoretto,
conservato nel palazzo ducale di Venezia, è forse il quadro più grande del
mondo. Eppure le guide, per anni, lo hanno liquidato in modo sbrigativo: “Non presenta né originalità di impostazione
né arditezze pittoriche e, tranne alcune figure di monaci viventi ritratti
dall’autore, mostra chiaramente l’aridità di ispirazione…”.
Uno sguardo tra la folla.
Ma al visitatore bastano pochi, lenti passi, per smentire il
critico ed ammirare l’opera in tutta la sua magnificenza. Una breve passeggiata
lungo la navata, fino all’altare maggiore. Bisogna volgere lo sguardo
all’uscita del tempio. E osservare con attenzione. Gli squarci del cielo,
nell’ammasso imponente delle figure, svelano il sole e la luna: sono la notte e
il giorno e rappresentano il tempo che fugge inesorabile. Ma nella grande tela
quei vuoti ombreggiati tra le figure dei religiosi si mutano in due enormi fessure:
gli occhi di una bestia immonda che sembrano sfidare il visitatore.
San Benedetto, al centro del dipinto diventa un naso
inquietante. Le bianche vesti degli abati che lo circondano appaiono come
formidabili zanne. San Pietro e San Paolo, ai lati estremi del quadro, sono le
orecchie aguzze del mostro. E in alto, i ciuffi nerastri delle figure dei
sacerdoti, si trasformano nelle corna di un diavolo. L’impasto dei colori, i
giochi di luce e le posture dei personaggi raccontano la parte superiore del volto:
lo sguardo ferino di un “Caron dimonio, con occhi di bragia”.
Il richiamo a Satana arriva anche da un altro particolare:
nelle orbite oculari scavate tra la folla dei benedettini, accanto alle pupille
del Sole e della Luna, emerge il luccichio di Venere, la stella della sera
perché è la prima che si vede, ma anche quella del mattino perché è l’ultima a
spegnersi. Un corpo celeste che porta la luce. E proprio Lucifero è il nome
dell’angelo che precipita dal Cielo e che la tradizione giudaico-cristiana dà
al diavolo, grazie all’interpretazione, prima rabbinica e poi patristica di un
celebre passo del profeta Isaia.
Quel pittore straniero
Perché dentro un tempio cattolico, in un’opera così grande e
così in evidenza viene raffigurato il diavolo? E’ la vendetta nascosta di
un artista verso i suoi committenti ecclesiastici? O una critica occulta e
feroce alla corruzione della Chiesa, preda del Male e dimora del demonio?
Difficile che sia andata così negli anni spietati dell’Inquisizione.
Soprattutto se si scava nella vita di Andrea Vassilacchi.
Il pittore nacque nell’isola greca di Milos. Era ancora un
bambino quando la sua famiglia si trasferì a Venezia. Italianizzo’ il suo nome:
da Vasilakis a Vassilacchi. Ma per tutta la vita fu più facile chiamarlo
l’Aliense, lo straniero.
Allievo di Paolo Veronese, amico e poi rivale del
Tintoretto, era conteso dai committenti religiosi e dal governo della
Serenissima per la serietà nel lavoro e per il carattere mansueto, così lontano
dalle bizze di un artista “maledetto”. I suoi affreschi nel palazzo veneziano
dei Dogi sono in quasi tutte le sale e superano per numero quelli di qualunque
altro pittore.
L’Aliense ebbe tre
mogli, due figlie che poi diventarono suore e un particolare rapporto d’affetto
con i monaci benedettini di San Giorgio Maggiore, che lo raccomandarono
caldamente ai loro confratelli umbri.
E proprio a Perugia Vassilacchi dipinse anche la vita di Cristo
con puntuali riferimenti al Vecchio Testamento: dieci grandi tele, collocate,
cinque per parte, ai lati della navata centrale di San Pietro. Affrontò il
faticoso ciclo pittorico subito dopo aver finito la grande tela dell “Apoteosi
dell’ordine dei Benedettini”, che portò a termine in soli 13 mesi. Lo stile del
grande dipinto appare già più vicino al nuovo clima controriformista, che
imponeva all’arte pittorica una visione più cupa e meno festosa rispetto al
gioioso “rinascimento veneziano” dei Veronese e dei Tintoretto che pure
Vassilacchi aveva tanto frequentato.
Dai gradini dell’altare maggiore l’enigma del quadro “dimenticato”
per più di 400 anni si dipana lentamente. E’ proprio la bella porta lignea
della chiesa che sembra completare l’opera dell’Aliense e chiarire una parte
del mistero: l’ingresso di San Pietro, alla base della gigantesca tela, è la
grande bocca che ingoia chi lascia la basilica per tornare alla vita di tutti i
giorni. Come dire: “Extra Ecclesiam nulla salus”.
Fuori dalla Chiesa, nel mondo abitato dal peccato, non c’è
salvezza. E quel dipinto doveva ricordarlo ai fedeli all’uscita di ogni funzione
religiosa dopo aver ascoltato la parola di Dio. E’ l’ossessione che segna il
messaggio della Controriforma: il diavolo è in agguato, in ogni momento nella
vita quotidiana e anche all’interno della Chiesa. Proprio per la mancanza
dell’unità spirituale che la riforma luterana ha ormai irrimediabilmente
spezzato, per quella eresia che bisogna combattere e vincere, con ogni mezzo. E
soprattutto con la preghiera.
In alto, al centro della tela, c’è una scritta in latino:
“Mittam tibi adiutorium”. E’ l’oscura citazione di un passo biblico del quarto
libro di Esdras, dove Dio parla ad Israele: “Io ti manderò in aiuto i miei
servi Isaia e Geremia…”. Il soccorso di Dio arriva attraverso i profeti e la
fede proprio nei momenti più bui.
Chi ispirò quelle parole dipinte dall’Aliense sulla fronte
del volto demoniaco? Con ogni probabilità proprio l’uomo che per conto dei
monaci perugini commissionò ad Antonio Vassilacchi il misterioso dipinto e che
seguì accanto a lui la realizzazione dell’opera.
Era un dottissimo frate benedettino che all’epoca
frequentava Perugia. Si chiamava Arnold
Wyon. E di profeti se ne intendeva parecchio. Tanto che è passato alla
storia per aver reso nota per la prima volta, nel suo “Lignum vitae”, la
famosa “Profezia di Malachia”.
E’ un criptico elenco di 112 motti in latino, riportato nel
libro del monaco, nel quale vengono descritti tutti i papi e gli antipapi da
Celestino II (eletto nel 1143) all’ultimo pontefice che, secondo la profezia,
si chiamerà “Petrus Romanus” e il cui pontificato terminerà con la fine del
papato e la distruzione di Roma.
L’opera continua ad appassionare inesauste schiere di
cultori di apocalissi. Ma con ogni probabilità è un clamoroso falso, fabbricato
con rara perizia durante il conclave del 1590 per favorire l’elevazione al
soglio pontificio del cardinale orvietano Girolamo Simoncelli. Fatica sprecata:
fu scelto un altro papa, il varesino Gregorio XIV. L’autore del perfetto
apocrifo propalato dal Wyon fu, secondo lo storico Luigi Fumi, Alfonso
Ceccarelli, il più famoso falsario italiano del Cinquecento, che per la sua
fantasiosa attività di alteratore di pergamene, libri, codici ed alberi genealogici
fu decapitato nel giugno del 1583. Anche lui era un umbro, di Bevagna. Ma
questa è un’altra storia.
Federico Fioravanti
(11 ottobre 2012)
Fonte: visto su UMBRIATOURING.it del 12 ottobre 2012
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