Nuovo libro di Stefano Lorenzetto - Dalla genialità e alle
staffilate che lo portavano da un giornale all’altro, al dramma della morte
della figlia Caterina - La passione per i soprannomi e quella, mai sopita, per
l’irriverenza con la quale addestrò un’intera generazione di giornalisti...
Il quarto veneto notevole entrato nella mia vita fu quel
cronista di razza e inarrivabile scrutatore di umane debolezze che rispondeva
al nome di Sergio Saviane.
Non riesco a darmi pace per aver maldestramente cancellato il messaggio di benvenuto della sua segreteria telefonica, che avevo tenuto per anni inciso nella mia; una registrazione effettuata pochi giorni dopo la sua morte, avvenuta nel 2001, quando, telefonando al numero 0423 563676, ti rispondeva ancora lui, come se fosse vivo: «Non sono in casa. Potete lasciare un messaggio dopo il segnale acustico».
Non riesco a darmi pace per aver maldestramente cancellato il messaggio di benvenuto della sua segreteria telefonica, che avevo tenuto per anni inciso nella mia; una registrazione effettuata pochi giorni dopo la sua morte, avvenuta nel 2001, quando, telefonando al numero 0423 563676, ti rispondeva ancora lui, come se fosse vivo: «Non sono in casa. Potete lasciare un messaggio dopo il segnale acustico».
E qui - ecco il genio assoluto, l'irriverenza fatta persona
- invece del banale bip elettronico ascoltavi Saviane che gorgheggiava
soavemente, tale e quale il fringuello che si sentiva in sottofondo nel
motivetto L'uccellino della radio cantato da Silvana Fioresi negli anni
Quaranta. Nella scelta di imitare il cinguettio che dalle onde medie prima
dell'Eiar e poi della Rai tenne compagnia a tre generazioni d'italiani, c'era
una totale identificazione con quello che era stato il suo lavoro di critico
televisivo, sempre attento anche ai significati apparentemente più trascurabili
di ciò che si spandeva nell'etere.
Il canto dell'uccellino interposto fra una trasmissione e
l'altra della radio di Stato proveniva da un mantice azionato da meccanismi a
orologeria, costruito nel 1936 per segnalare ai tecnici della radiofonia
l'esatto istante in cui dovevano effettuare le "manovre
d'inversione", cioè il collegamento
con una sorgente radiofonica diversa dalla precedente. L'annunciatore negli
studi di Roma, dopo aver informato gli ascoltatori che le trasmissioni
proseguivano a diffusione regionale, azionava il marchingegno: era il segnale
radio convenuto atteso dalle sedi di Milano o di Venezia per mettere in onda il
Gazzettino padano o il Giornale del Veneto.
Sull'ornitologia Saviane s'era soffermato anche nella prima
intervista che gli feci, scioccandomi con una sorprendente dichiarazione di
debolezza: «Védito, Stefanelo, el me osèl xe come 'na ciàve Yale», e per
rendere plastica la descrizione estrasse di tasca un mazzo di chiavi,
mostrandomi quella più lunga, zeppa di forellini, che gli serviva per aprire
una porta blindata. Era il suo modo poetico per confidarmi di sentirsi un
sopravvissuto al tumore che lo aveva colpito all'organo più caro, e un tempo
più utilizzato, dopo il cervello.
Subito aggiunse, serissimo: «Pensa che Alberto Moravia ha
passato la vita a discorrere e a far baruffa col suo lui. Poaréto, non sapeva dove mettere le virgole,
l'unica cosa che gli riusciva bene era girare per l'Africa con la Dacia Maraini
e la Maria Callas a fotografare merde di elefante. Ma della donna non sapeva
niente, niente! Noi latini siamo degli usurpatori, crediamo che far l'amore sia
una cosa divertente. Invece è drammatica. Un atto sacrale».
C'eravamo conosciuti dieci anni prima, nel 1988, in una
serata di luglio insolitamente primaverile. Dopo un trentennio di onorata
carriera, L'Espresso lo aveva fatto fuori per affidare la rubrica della critica
televisiva a un pubblicitario, Emanuele Pirella, l'inventore dei tormentoni
«Nuovo? No! Lavato con Perlana» e «O così o Pomì». Un segno dei tempi.
Con Lanfranco Vaccari, direttore dell'Europeo, e il comune
amico Giancarlo Aneri, avevo raggiunto Saviane all'hotel Villa Cipriani di
Asolo, e lì, dopo un paio di Bellini e una stretta di mano, l'affare era
concluso: il licenziato avrebbe avuto una nuova rubrica tutta sua, Identikit,
sul settimanale fondato da Gianni Mazzocchi e Arrigo Benedetti. Con carta
bianca, anzi vetrata, per scorticare vivo a ogni puntata il malcapitato di
turno, pescato a suo insindacabile giudizio nel mazzo della nomenklatura.
Molti anni dopo, quando restò di nuovo disoccupato, lo
accompagnai a Milano da Maurizio Belpietro, direttore del Giornale sul quale
già aveva scritto ai tempi di Montanelli. Per prepararsi all'incontro, durante il
viaggio sulla A4 bevve due litri di acqua minerale: doveva smaltire i postumi
di una mezza sbornia della sera prima. C'eravamo quasi combinati per farlo
scrivere in prima pagina. Corsivi brevissimi sui fatti di giornata. Sarebbe
stato un grande ritorno. E anche la prova di una reciproca indipendenza,
considerato che Saviane si riferiva a Silvio Berlusconi chiamandolo sempre e
solo «il nanetto di Arcore».
Ma il primo commento che mi spedì per fax non si rivelò
all'altezza delle aspettative di Belpietro, e neppure mie, a dirla tutta. Vi si censurava il malvezzo dei trevigiani di
mangiarsi come pietanza i ghiri arrosto, consuetudine che Sergio giudicava
barbara oltreché svantaggiosa, dal momento che, secondo lui, molti fabbricanti
di cofani funebri recuperavano i gusci vuoti di noci e nocciole rosicchiate da
questi simpatici roditori e li utilizzavano al posto del legno, dopo averli
pressati, per farne casse da morto. Un successivo ricovero ospedaliero e i guai
dell'età impedirono che la collaborazione decollasse con un commento meno
stravagante.
Già, l'età. Argomento tabù. Guai ad accennargliene. Dovetti
spulciare un vecchio annuario dell'Ordine dei giornalisti per scoprire che era
nato a Castelfranco Veneto il 18 aprile 1923 ed era iscritto all'albo dei
professionisti dal lontano 1958. Non gli piaceva parlare del tempo che passa,
soprattutto dopo la perdita della sua Caterina, che se n'era andata per sempre
una sera di marzo del 1991, «un'amica più che una figlia, i figli hanno bisogno
del padre, soprattutto le figlie, ma io ero sempre assente».
L'ultimo dei suoi 31 anni Caterina l'aveva finalmente
vissuto col papà: «Dormivo vestito, di notte andavo per caserme e me la riportavo
a casa, fumava 120 sigarette al giorno, e se non erano sigarette era qualcosa
di peggio. Il buco finale a Milano, in casa di un'amica. Sono diventato buffone
anche per questo, per difendermi». All'altra figlia che gli era rimasta,
Valentina, residente a Roma, non risparmiava il suo sarcasmo. La chiamava
"la nazista": troppo severa, a suo giudizio, nell'educazione dei
figli. Avendola conosciuta, posso testimoniare che si sbagliava.
«Stefanelo, vuoi che facciamo le conversazioni del
caminetto?», era tornato alla carica un paio di mesi prima di morire. «Ti
ricordi Livio Zanetti che intervistava Berlusconi nel 1994 al Giornale radio?
Ecco, tu mi chiedi e io ti racconto». Non se ne fece nulla per colpa mia. Gli
devo delle scuse tardive: il fuoco di quel caminetto, attizzato da Saviane, ci
avrebbe riscaldato il cuore. Allora non mi resi conto che la sua proposta
simboleggiava una medaglia guadagnata sul campo, perché Zanetti, il giornalista
che fece grande L'Espresso, era in assoluto il direttore più stimato da Sergio:
«Da ragazzo pascolava le oche lungo le capezzagne a Bolzano, e guarda te quanti
giornalisti di razza è riuscito ad allevare».
Della covata zanettiana Saviane fu senz'altro il fuoriclasse
che sovrastò tutti gli altri in eclettismo, con qualche fissazione che avrebbe
meritato un'investigazione psicanalitica, tipo l'avversione viscerale per le
persone dal cognome coincidente con un nome: Corrado Alvaro, Ruggero Orlando,
Sergio Leone, Bruno Martino, Michele Placido, Rino Gaetano, Pino Daniele, Piero
Angela, Sergio Romano, Pierluigi Battista, Mario Giordano, Sandro Viola.
Era un giocoliere della parola, un pirotecnico inventore di
neologismi e di calchi ricavati dal dialetto, dalla zoologia, dai cognomi, dal
gergo militare: «pantegano» (il telefonino), «cascaingrembo» (il pene),
«pippibaudi» (i presentatori televisivi in genere), e poi «guttusi», «giberne»,
«urogalli», «mangiatrippa», «criticabondi», «bagascioni editoriali», «becchini
col risvolto umano».
«Mezzobusto», che coniò per i conduttori dei tiggì dopo aver
notato quanto Mario Pastore del Tg2 fosse somigliante nella sua fissità alle
229 statue dei padri della patria in quella protomoteca all'aperto che è il
Pincio, figura da anni nell'Enciclopedia Treccani e nello Zingarelli. Idem
«velinaro», inventato per i colleghi della Tv di Stato specialisti in censura
preventiva, gratificati anche di altre esilaranti qualifiche: «capotreni del
punto e virgola», «frenatori», «piantoni della forbice».
Sistemati quelli che «sbrodano il nostro mestiere», riservava
gli epiteti più abrasivi agli «imbonitori degli spot con i loro ciucciotti a
tre marce e bavaglini col servosterzo», «sposine latteintero», «massaie
spolverone», «anatomoslip», «sofficini sorridenti», «trapani facciotuttomì»,
«tonni affogati nell'olio e pace all'anima loro».
Gli piaceva personalizzare. O ricorrendo all'invettiva
frontale: «Pippo Baudo appartiene a quella categoria di uomini politici o di
spettacolo che si accorgono di avere un cervello soltanto col primo embolo». O
affibbiando soprannomi evocativi: Vittorio Sgarbi diventava a seconda delle
circostanze Lolito Sgarbi o Madonno Pellegrino a causa della predilezione per
le ninfette e dell'incessante girovagare su e giù per l'Italia; l'onorevole
Flaminio Piccoli si trasformava in Mezzolitro Piccoli per via dell'aspetto da
alpino ciucco di grappa trentina; Gianfranco Funari, che mostrando la sua
protesi in Tv s'era vantato d'avere in bocca un appartamento, si qualificava da
solo come Dentiera Funari.
O ripiegando su fantasiosi appellativi: il meteorologo
Edmondo Bernacca era «il Toscanini del piovasco»; Pietro Longo, segretario del
Psdi, «la testa da battere materassi»; Enzo Siciliano, presidente della Rai,
«lo scrittore da comodino»; Gino Nebiolo, corrispondente del Tg1 dal Cairo, «lo
schiumafrenata»; Adriano De Zan, telecronista ufficiale della Rai al Giro
d'Italia, «l'esperto in pedivella»; Luca Di Schiena, vaticanista del
telegiornale unico, «il seppellitore di Papi»; Luca Giurato, il conduttore di
Unomattina, «il Luca Ridens»; Luciano Benetton, suo caro amico, «Portobello»,
perché come il pappagallo di Enzo Tortora non parlava mai. «In Italia tutti
parlano», si lamentava, «siamo rimasti solo in tre ad ascoltare: Benetton,
Eugenio Scalfari e io.
Ascolto soprattutto i contadini. Ieri uno mi ha detto:
"Quando more un vècio, xe come se brusasse 'na biblioteca"».
Nel 1998 aveva commesso l'errore di dedicare a Benetton,
compagno di interminabili partite a tressette, un'impertinente biografia edita
da Marsilio, Il miliardario, e più ancora di mandargliela in lettura prima di
darla alle stampe. L'imprenditore dei maglioni colorati non gli domandò né di
correggere né di smussare né di tagliare, ben sapendo che Saviane non l'avrebbe
certo accontentato. Non gli chiese nulla di nulla. Semplicemente smise di
cercarlo e di parlargli. Sergio, che considerava la libertà di pensiero un
fatto fisiologico alla stregua del respiro e del battito cardiaco, non riuscì
mai a capacitarsi di questa rottura. Per mantenere intatto il ricordo delle
allegre ore conviviali passate con Benetton, si autoconvinse che a incazzarsi
non fosse stato lui, bensì Laura Pollini, l'addetta stampa nel frattempo
diventata la compagna di Luciano.
Il miliardario si chiudeva riprendendo integralmente
un'intervista che avevo fatto nel 1995 all'imprenditore trevigiano su Sette, il
magazine del Corriere della Sera, in occasione dell'apertura a Sarajevo di un
emporio United Colors of Benetton. L'inaugurazione era stata rinviata di
qualche giorno perché, nonostante la guerra in Bosnia fosse ufficialmente
finita, i cecchini avevano ammazzato alcuni civili proprio davanti al negozio.
Sergio era rimasto impressionato dal fatto che il suo amico
mi avesse dichiarato di non pensare mai alla morte e di sperare che essa lo
raggiungesse mentre si trovava alla scrivania in ufficio. La sola citazione in
un libro di Saviane già sarebbe stata per me un grande onore. Ma lui volle
andare oltre e scrisse una lettera all'editore Cesare De Michelis per
segnalarmi quale autore. Se ho pubblicato una dozzina di libri con Marsilio, il
merito perciò è tutto e solo suo.
Ci sentivamo spesso per telefono e ogni tanto andavo a
trovarlo. Una volta volle conoscere mia moglie. Restò molto impressionato dalle
diavolerie elettroniche della Lexus con cui lo prelevammo a casa per portarlo
al ristorante. Sosteneva che per noi italiani l'auto è come una casetta.
Infatti nel bagagliaio della sua Alfa 164 non mancavano mai un cambio di
lenzuola e uno di asciugamani («nel caso dovessi fermarmi a dormire in casa
d'altri»), oltre a uova sode, pan biscotto e un bottiglione di vino, come può
testimoniare il fotografo Oliviero Toscani, che grazie alla previdenza di
Sergio scampò alla disidratazione e all'inedia durante un infernale ingorgo nel
quale incapparono sull'autostrada della Cisa.
Andammo a pranzare da Lino, a Solighetto, dov'era stata di
casa il soprano Toti Dal Monte. La sua locanda prediletta. E non per la sopa
coada, la zuppa di piccione, o per le altre ricette della nonna, o per il
soffitto foderato da paioli di rame. No: per il camino. Lì a tavola ci svelò
che sceglieva soltanto trattorie dotate di questo impianto a suo giudizio
indispensabile e che, fra tutte, preferiva quella di Lino Toffolin in quanto
nella sala da pranzo c'era non un caminetto bensì un caminone, utilizzato dallo
chef per le costate alla brace e per lo spiedo.
Gli chiesi: ti piacciono le carni arrostite sul fuoco vivo?
La risposta fu una fiondata: «Non m'interessano né le bistecche né lo spiedo.
Il camino serve per le scoregge». Mia moglie trasalì. Ma lui, per nulla
imbarazzato, spiegò: «Non lo sapete che al ristorante tutti spetazzano? Ve ne
potete accorgere anche voi: quando un commensale sorride e socchiude
l'occhietto, vól dir che xe concentrado su 'na scoresa, deve stare attento a
rilasciarla senza far rumore. E non c'è altro come il camino acceso che attiri
questi effluvi, garantendo il ricircolo d'aria negli ambienti chiusi. Insoma,
xe question de igiene».
La sua icasticità era di tipo ruzantiano. Per farsi capire
non ricorreva mai a circonlocuzioni. Preferiva le espressioni dirette, scabre,
pronunciate senz'ombra alcuna di compiacimento anche quando era certo che la
loro asprezza avrebbe traumatizzato l'interlocutore. Aveva dedicato un libro
dolente, El còce, ai "carrozzati", i disabili finiti in sedia a
rotelle per incidenti stradali, «da queste parti c'è un morto o un invalido da
discoteca in ogni famiglia, il sabato sera in auto corrono tutti come matti», e
ricordo il pudore naturale con cui mi dettagliava i riti quotidiani che il
protagonista del romanzo, il suo amico Wladimiro, tetraplegico, avrebbe
preferito non vedere riportati per rispetto della moglie, la quale, oltre a
girarlo ogni notte nel letto per impedirgli di morire soffocato, doveva
infilargli il catetere per consentirgli di urinare ed era costretta a estrargli
con le dita gli escrementi che da soli non sarebbero mai usciti dall'intestino
paralizzato.
In mezzo secolo di carriera Saviane aveva rimediato una
settantina di querele. L'ultima, la più sanguinosa, fu di Irene Pivetti, l'ex leghista
passata dalla croce della Vandea appesa al collo alle guaine in latex che le
strizzavano i seni quando con Platinette conduceva Bisturi! Nessuno è perfetto
su Italia 1. C'era stato un fraintendimento linguistico. L'aveva definita
«gobeta sopressada», che in veneto vuol dire gobbetta stirata ed è
un'espressione antica e quasi affettuosa, per indicare chi, pur avendo la
schiena dritta, ha la faccia da gobbo, il naso da gobbo, il pallore da gobbo.
«Nota bene che chiamano gobbo pure me», si stupì, «e che
nello stesso articolo avevo dato delle gobete sopressade anche a Emma Bonino e
a Marina Salamon». L'ex terza autorità dello Stato, transitata con disinvoltura
dalla Camera alla telecamera, aveva chiesto una provvisionale di 40 milioni di
lire in attesa dell'appello. Ma Saviane non aveva il becco di un quattrino.
Poiché l'articolo incriminato era apparso sulla Voce, nel frattempo defunta,
egli scrisse una letterina a Montanelli: «Possiamo fare metà ciascuno? Io
riesco a mandarti un milione al mese...» Gli aveva prontamente telefonato
Vittorio D'Aiello, l'avvocato di fiducia del Grande Vecchio: «Ha già pagato
tutto Indro».
Da allora il fondatore del Giornale e della Voce riluce nel
mio pantheon personale dei giganti, mentre l'ex vandeana brucia tra le fiamme
eterne dell'altrettanto personale inferno dove colloco gli individui meschini.
Si congedarono insieme nel 2001, Indro e Sergio, uno il 22 luglio e l'altro il
27, e ditemi voi se può essere solo una coincidenza.
Ben diversamente dalla Pivetti si comportò Carla Voltolina,
vedova di Sandro Pertini. Nonostante avesse annunciato che l'avvocato Giovanni
La Pera era stato incaricato di querelare sia Saviane sia me, non diede mai
seguito a quella minaccia. Eppure ne avrebbe avuto ben donde. Era accaduto che
Sergio, nella prima intervista che mi aveva concesso, si fosse sbagliato nel
rievocare uno dei suoi frequenti incontri col capo dello Stato: «Io le
interviste con Pertini me le inventavo. Il presidente mi mandò persino un
biglietto col carabiniere motociclista tutto sudato, in pieno luglio:
"Senza di lei sarei un uomo morto". Era prigioniero al Quirinale, non
poteva uscire, se fosse uscito l'avrebbero arrestato. Quando facevo Il Male, mi
invitò a cena con i colleghi francesi del Canard Enchaîné. In tavola c'erano i
candelieri d'argento. A un certo punto si sente puzza di bruciato. Oddio, va a
fuoco la reggia. Invece erano i redattori che si spinellavano. Vincino s'era
fatto una canna lunga come un fucile».
Grande scandalo. Il disegnatore satirico, al secolo Vincenzo
Gallo, fu costretto a correggere il tiro sull'Espresso: «La storia è vera a
metà. Saviane ha confuso il fatto con l'intenzione. Non io al Quirinale, ma il
consigliere comunale Angelo Bandinelli aveva fumato uno spinello in
Campidoglio. Col presidente e il portavoce Antonio Ghirelli, eravamo Saviane,
io, Vincenzo Sparagna, Gerardo Orsini e Giorgio Forattini, che aveva firmato
alcuni numeri da direttore responsabile per solidarietà contro le denunce che
beccavamo a raffica. Il pranzo era divertente. Pertini era allegrissimo. Noi ci
eravamo portati delle canne per fumarcele a fine pranzo. Un'azione eclatante,
nello stile della campagna radicale. Ma il presidente, alla frutta, di colpo
iniziò una sparata contro gli spacciatori di droga. Leggera, pesante: non
voleva sentire distinzioni. Fu durissimo. Noi ci demmo dei calci sotto il
tavolo. Perché rovinare la giornata a quell'adorabile vecchio? E ci tenemmo gli
spinelli in tasca».
«Strano», commentò Saviane, cui non difettava la pertinacia,
«a me Vincino ha telefonato il giorno che è uscita l'intervista per precisare
che la sua canna non era lunga come un fucile, ma più corta, senza negare
d'averla fumata. Comunque mica ho detto che Pertini si spinellava. Credo che
non ci sia un solo italiano che possa equivocare su questo argomento. Non
capisco perché dare tanta importanza agli sbiaditi ricordi di due poveri
menestrelli della satira. Gente come Vincino e il sottoscritto è sempre stata
carne da cannone. Ma come può venire in mente a qualcuno che il Quirinale, con
Pertini presidente, fosse diventato una fumeria di oppio? Andiamo! Si sta
facendo torto persino all'intelligenza della buonanima».
Piuttosto a Saviane era dispiaciuto un altro malinteso: «Ti
avevo detto d'essere figlio di un fornaciaio, ma non nel senso di operaio in
una fornace. Mio padre i mattoni li faceva sì, ma perché aveva un'industria, e
piuttosto grossa, anche se poi l'ha mandata a ramengo. Questo mi sono
dimenticato di precisartelo. Adesso dalle mie parti mi prendono in giro
credendo che volessi accreditarmi origini proletarie».
Dopo quell'intervista lo aveva chiamato anche la sua ex
moglie, Anna Maria Nembrini Gonzaga, da lui descritta così: «Ci conoscemmo in
un sanatorio. Lei viene da un'antica famiglia dell'aristocrazia nera
marchigiana. Non ho mai ciucciato la loro ricchezza. Il matrimonio fu celebrato
nella Santa Casa di Loreto, dev'essere stato il 1954 o il 1955. Ci siamo
lasciati perché ero sempre in giro per il mondo». Anche qui aveva
involontariamente equivocato: «In realtà non proviene da una famiglia
dell'aristocrazia nera marchigiana, come ti ho raccontato. Mi ha spiegato che
la nobiltà nera era di nomina papalina, mentre i suoi sono aristocratici laici.
Comunque mi ha giurato che non mi querelerà».
Lasciata Roma dopo essere stato cacciato dall'Espresso,
Saviane era tornato nell'unico posto dove poteva vivere e morire: il suo
Veneto. Abitava a Castelcucco, tra le pendici del monte Grappa e le colline di
Asolo, al limitare di un boschetto, in un palazzo patrizio semidiroccato e senza
riscaldamento, dotato persino di un teatrino e unito da un arco alla chiesetta
di San Francesco, eretta nel XVII secolo.
Sergio aveva trasformato la cucina nel suo studio. La
televisione, «la grande meretrice», troneggiava spenta sopra il frigorifero. Su
una sedia impagliata sonnecchiava la Olivetti verdolina, «l'unica vacca che m'è
rimasta nella stalla». Il giornalista metteva le stecche delle sigarette sul
davanzale affinché conservassero il giusto grado di umidità. Sotto il secchiaio
di marmo rosso Verona, dietro una tendina, teneva le bottiglie di Prosecco. Già
alle 9 del mattino insisteva per dartene un bicchiere. Per lui era il
succedaneo dell'acqua Recoaro: un diuretico. «Il Prosecco», ammaestrava, «si
offre ma non si regala».
Proteggeva l'identità del suo fornitore di fiducia come se
fosse il terzo segreto di Fatima. Me lo fece conoscere soltanto dopo alcuni
anni che ci frequentavamo: era un contadino che si chiamava Giotto, con cantina
a Farra di Soligo, mi sembra, ma non potrei giurarci, giacché per portarmici
Sergio fece innumerevoli giravolte, quasi volesse impedirmi di ricordare la
strada per ritornarci da solo. Nella circostanza autorizzò il predetto Giotto a
vendermi qualche cartone del prezioso nettare. Credo che per lui quell'atto
rappresentasse la massima espressione di riguardo, il suggello più sublime
dell'affiatamento raggiunto fra di noi.
Sulla vetrina della credenza teneva molte foto ormai stinte.
In una era ritratto mentre giocava a carte con Benetton e con l'amico Massimo
Donadon, detto El Sorzon, il derattizzatore che ha liberato le capitali del
mondo dai topi, tutti e tre a torso nudo a Jerez de la Frontera, probabilmente
durante un viaggio per seguire sul circuito andaluso una delle tante imprese di
Michael Schumacher, il pilota della scuderia Benetton di Formula 1 scoperto da
Flavio Briatore.
L'unica immagine a colori era quella della figlia uccisa da
un'overdose. «Quella lì non fregarmela, altrimenti poi non la rivedo più. E
vabbè, portatela via. Tanto rubare foto è il nostro mestiere», sospirò
rassegnato, lasciando che la sfilassi dall'anta del mobile. Uno di questi
giorni devo ritrovarla nel mio archivio e restituirgliela sulla tomba. Penso
che, da dove si trova, gradirebbe il gesto più della messa di trigesimo che
feci celebrare a tradimento in suffragio della sua anima.
La sera, prima di andare per osterie, Sergio caricava di
legna la stufa di maiolica della camera, altrimenti al ritorno sarebbe morto
congelato nel sonno. La porta d'ingresso dell'antico palazzo era chiusa con una
sola mandata, segno di un'illimitata fiducia nell'umanità. Non un portone di
legno: una porta a vetri, appannati dallo sporco, ma abbastanza puliti da
lasciar intravedere un cosmico disordine nell'androne. Per terra, la prima
volta che ci arrivai, fra mille cianfrusaglie risaltava un poster di Veruschka,
la top model tedesca nata nel 1939, una sua fiamma, ignoro se in senso
platonico o reale. Su una sedia era appoggiato un caschetto giallo di quelli
usati come protezione nei cantieri.
Mi venne spontaneo, dato anche il caos circostante,
chiedergli se stesse per caso ristrutturando l'abitazione. «Stefanelo, macché
restauri! Quélo xe l'elméto che me meto par 'ndar in Posta col motorin». Non
sapeva nulla dei caschi omologati per motociclisti. Secondo lui un copricapo da
muratore bastava e avanzava per considerarsi in regola col codice della strada.
Nessun vigile urbano osò mai multarlo.
A Castelcucco lo chiamavano «el santo Saviane», non solo in
quanto santo bevitore ma anche perché nella sua generosa anarchia era amico di
tutti e cercava sempre di dare una mano al prossimo. «I m'ha vendemià, tuti me
gh'ha sempre vendemià», brontolava. Come il vino buono, che lasciato in cantina
dà il meglio di sé, ora Sergio riposa. Stappatelo fra vent'anni e sarà ancora un
Saviane d'annata. Un controsenso, dal punto di vista enologico, perché lui
prediligeva i vini giovani. Non è più uva da spremere, il santo Saviane.
Ce n'erano di giornalisti, e io fra questi, che andavano a
torchiarlo con la scusa d'intervistarlo, sicuri di poter distillare ogni volta
aneddoti scintillanti, identikit lombrosiani e pareri "staffilosi",
come li chiamava lui. «Almeno io rubo in casa mia, copio da me stesso», fingeva
di arrabbiarsi. Però a un collega famoso, veneto come noi due, che andava a
vendemmiarlo senza poi mettere l'etichetta sulla bottiglia, aveva chiuso per
sempre le porte di casa.
Era adirato con Giampaolo Pansa, suo ex collega nel
settimanale di via Po: «Dopo avermi sempre vendemmiato dalla testa ai piedi,
scrive sull'Espresso che Walter Veltroni è il Madonno Pellegrino. Eh no, ostia!
È Lolito Sgarbi il Madonno Pellegrino. Se la usi, usala bene, almeno». Era
furibondo con Roberto D'Agostino, quando ancora non esisteva Dagospia: «L'ho
ribattezzato Dagoberto, come il re dei Merovingi. Ma è un soprannome
immeritato, perché mi frega pezzi interi, tagliati col coltello».
Leo Longanesi diceva che l'intervista è un articolo rubato.
Aveva ragione. L'ultimo lo rubai a Sergio due mesi e mezzo prima che morisse,
il 14 maggio 2001, a urne appena chiuse: il giorno prima s'erano svolte le
elezioni politiche. Forza Italia stava al 29 per cento, i Democratici di
sinistra al 16, la Margherita al 14, Alleanza nazionale al 12, Rifondazione
comunista al 5, la Lega e l'Italia dei valori al 4 scarso, il Ccd-Cdu al 3, ma
il clima che si respirava in casa Saviane era quello del primo atto di
Rigoletto: «Questa o quella per me pari sono». «Destra... sinistra... Ma dai,
Stefanelo! Còssa vuto che ghe ne importa a quei lì de ti, de Savianelo, de
noialtri? Qua no' cambia niente».
Si sentiva prigioniero «nell'Italia governata dalle cosche».
Io non capivo: intendi le cosche mafiose? «Ma quale mafia d'Egitto! I partiti,
quelli sono le cosche». L'aveva scritto già trent'anni prima sull'Espresso:
«Mariavergine, s'aprirono le cateratte del Nilo. Questo xe mato! Ma còssa
dìselo? La barba di Scalfari vibrava di sdegno democratico. Cosche? Come si fa
a chiamare cosche i partiti nati dalla Resistenza? Be', guardali stasera,
vincitori e vinti. Dimmi tu se non sono una cosca». Guardateli adesso, passata
un'altra decina d'anni.
Era inebetito, «ma più dal cortisone che da quei quattro
mona che vedo agitarsi in televisione: mi fanno schifo». Però aveva votato lo
stesso: «Toccava. Ho fatto mucchio su Francesco Rutelli, che altro dovevo fare?
Piuttosto di peggio, è meglio piuttosto. Lo sai bene che il nanetto di Arcore
mi sta sulle palle. Solo che Montanelli per votare Rutelli s'è turato solo il
naso, mentre io mi sono dovuto turare anche qualcos'altro». Che cosa? «Va' là
che hai capito, can da l'ostia! Potevano metterci chiunque come candidato
premier, ma non Rutelli. Siamo seri. Io lo conosco bene, è mio amico. Eravamo
entrambi radicali. Me lo ricordo bambino. Ora dimmi tu che affidamento si può
fare su un tóso che ieri si batteva per il divorzio, l'aborto, lo spinello
libero e oggi va a genuflettersi in piazza San Pietro, corre ogni domenica dal
Papa a prendere la comunione con la lingua di fuori».
Lo indignava che l'ex enfant prodige di Marco Pannella fosse
andato persino in pellegrinaggio sulla tomba di padre Pio a San Giovanni
Rotondo per cercare di raggranellare voti fra i cattolici. «Figùrati, sparavo
sul frate di Pietrelcina quand'era ancora in vita. Feci un'inchiesta di cinque
puntate sui suoi presunti miracoli. Infatti neanche a Rutelli ha fatto la
grazia».
Saviane aveva un'interessante teoria sul motivo per cui la
sinistra perdeva le elezioni: «Non hanno mai lavorato in vita loro. Rutelli per
primo. In Veneto diciamo che sono nati con la canéta de vero, la spina dorsale
di vetro. Se curvano la schiena, gli si spezza. Ha fatto bene il Berlusca a
dirgli che li manda tutti a lavorare. Via, in miniera! Così imparano a stare al
mondo. Giocavano a fare i ministri. Si sentivano arrivati, inamovibili. Sono
mascheroni. Il cittadino è stato espropriato, non ha più potere. Qualsiasi cosa
diciamo, loro se ne impipano, restano impassibili come maschere».
Fosse dipeso da lui, per rassegnazione avrebbe puntato su
Romano Prodi: «Subito l'avevo snobbato. Ma poi ho capito che non è per niente
mona. Altro che Mortadella! Le mosse giuste le aveva azzeccate: l'olivella, il
pullman, l'euro... Mona sono coloro che l'hanno cacciato per mettere al posto
suo Massimo D'Alema, quella testa di...» Al vertice dei congiurati collocava
Francesco Cossiga: «Non lo voglio neppure nominare. Traditore e spia.
Dovrebbero copàrlo col flit dietro la ferrovia. Sai cos'è il flit, vero? Il
Ddt». Ma perché dietro la ferrovia? «E me lo chiedi? Così non se ne accorge
nessuno. Sul retro della stazione manco troverebbero la salma. Tanto, è una
vecchia traversina».
A Rutelli riconosceva il titolo di campione assoluto della
disfatta elettorale. «Ma hai visto che cos'ha fatto prima del voto? È andato a
trovare quel grifagno di Norberto Bobbio e si sono messi a trillare che
parevano due wandeosiris. "Maestro, chi vincerà le elezioni?" Bobbio:
"Chi non le perderà". "Come vede il futuro?" Bobbio:
"In arrivo dopo il presente". "Le piace Brahms?" Bobbio:
"Non è Beethoven". Ma santa madòna! E gliele hanno anche pubblicate
sul giornale dell'Avvocato, queste puttanate». Si riferiva alla Stampa. «Mi
pare impossibile che la Barbara non abbia chiesto a suo marito: Francesco,
sacramento, ma che trogliate sei andato a dire a casa di Bobbio?»
Anche di Barbara Palombelli, la consorte di Cicciobello, era
stato molto amico. «Veniva sempre da me al cesso, quand'ero all'Espresso.
Cesso, cameretta, ufficio, chiamalo come vuoi. Però era proprio un cesso. Con
tanto di oblò nell'angolo di destra». Oblò? «Eh, ma allora sei proprio tardo.
Oblò, orinatoio. Mi avevano confinato in una stanzetta con la scrivania accanto
al vespasiano. Ogni tanto entrava Arrigo Benedetti, il direttore, oppure Manlio
Cancogni, o Scalfari, già con la mano sulla patta dei calzoni. Ridevo, che
cos'altro potevo fare? Loro pisciavano e io ridevo. Per non piangere. Ho
sopportato questa tortura per anni. D'altronde era l'unico cesso al pianterreno
di via Po. Un giorno arriva la Barbara, una pariolina molto carina. Si siede
davanti a me e comincia a guardarmi con l'occhietto sifolino, hai presente la
tendina che le cala sull'occhio? Voleva fare la giornalista. Stava lì a
osservarmi per ore».
Ti faceva la corte? «Ma no, e nemmeno io la facevo a lei,
però credo che subisse il fascino del giornalista pazzo. Rimaneva lì adorante,
senza parlare. È andata avanti così per mesi. Un bel giorno mi consegna un
foglio a quadretti scritto a mano. Eh no, ostia, non si fa così! Si avvisa
prima. Per non demoralizzarla, mi metto a leggere. Un testo ignobile,
spaventoso. Più rivista. Poi scrisse sulla Repubblica che io non volli
assumerla all'Espresso. Ma benedèta fióla! Ti pare che era mio L'Espresso?».
Intervistando Saviane, la bella figura era garantita.
Articoli rubati, appunto. Ancor oggi sento che l'attenuante d'aver sempre
indicato la fonte non basta ad assolvermi nel foro della mia coscienza, se non
altro perché da Sergio ho avuto molto più di quanto potessi dargli. Né posso
far valere come risarcimento postumo la circostanza d'aver partecipato al suo
funerale con pochi altri colleghi, fra i quali ricordo Giorgio Lago, che poi ci
avrebbe lasciato prematuramente, e Alberto Statera, ma nessuno di quelli che lo
avevano vendemmiato; o d'aver accettato di tenere l'orazione pubblica nel terzo
anniversario della sua scomparsa, quando il Comune di Castelfranco Veneto gli
intitolò una piazzetta.
Ho cercato senza successo di far ripubblicare i suoi libri,
un'opera omnia savianea che partendo dall'ultimo, Il miliardario, attraverso
L'Espresso desnudo, Moravia desnudo e il suo primo romanzo Festa di laurea,
risalisse fino all'inchiesta sui delitti di Alleghe, la località dolomitica da
lui ribattezzata «la Montelepre del Nord»; una faida con otto morti ammazzati,
fatta di amori segreti, figli illegittimi e contese ereditarie, da cui mossero
le indagini che squarciarono vent'anni di omertà e spedirono all'ergastolo due
degli assassini. Mi è stato spiegato che si tratta di scritti troppo datati,
che oggi non interessano più a nessuno. A Scalfari i Meridiani, a Saviane
l'oblio. C'è da stupirsene?
Ogni tanto torno davanti a casa sua, più vuota e più
abbandonata che mai. Mi soffermo nell'attigua chiesetta, sempre aperta, che ha
solo quattro banchi. E mi pare di udire una domanda portata dal vento:
«Stefanelo, ma còssa feto qua?»
Dal libro "Hic sunt leones" di Stefano
Lorenzetto (Marsilio Editori, 332 pagine, 18 euro)
Fonte: dagospia 22 aprile 2013
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