Giulietto Chiesa
La tradizione comunista e socialista, dopo la disfatta
dell’esperimento sovietico, non è stata capace di produrre nulla di alternativo
in grado di contrastare il pensiero unico, che infatti ha vinto. Gli epigoni di
quell’esperienza sono ormai – come scriveva acutamente Alexadr Herzen, pur
riferendosi alla generazione del 1848 – «stranieri del tempo loro» e non
capiscono di essersi lasciati «sfuggire il presente e il futuro», mentre
continuano a «lottare contro il loro stesso passato». Non è questione di
“tradimenti”; questi ci sono stati, ma sono stati piuttosto l’effetto che la
causa. Il fatto è c’era un buco nella teoria, anzi una voragine. Marx non
poteva averla vista, perché quella voragine si aprì dopo di lui, sebbene
qualche importante intuizione lui e Friedrich Engels la ebbero. I loro epigoni,
invece, ci cascarono dentro.
Le sinistre in generale furono debellate nel corso della
rivoluzione neoliberista, in primo luogo perché rimasero ferme nella
contemplazione di strutture – quelle individuate dall’analisi marxiana – che
venivano progressivamente erose e demolite da una “distruzione creatrice” di
impressionante potenza, che andava molto oltre quella descritta dall’economista
Joseph Schumpeter nei primi anni del XX secolo. Oggi gran parte di quella
configurazione economica, sociale, di classe, è in rovina, dunque non è a essa
che si può fare riferimento per organizzare una risposta democratica e
popolare. Con il crollo dell’Unione Sovietica e del cosiddetto “campo
socialista”, venne a mancare un’ipotesi alternativa. Quell’ipotesi, in realtà,
non era alternativa nella sostanza, in quanto anch’essa era fondata
sull’ipotesi di una crescita infinita. Ma fu vista e vissuta come tale per
settant’anni, da milioni di individui. Ciò la trasformò in un possente baluardo
difensivo.
La sua fine parve a molti, in entrambi i campi contrapposti
della guerra fredda, come la prova definitiva dell’impossibilità di un modello
alternativo a quello capitalista, uscito vittorioso dallo scontro. Che infatti
non fu più cercato. Da una parte – quella delle classi dominanti dell’Occidente
imperiale – cessò la paura e crebbe la tracotanza. Dall’altra ci furono la
smobilitazione graduale di tutti gli strumenti di lotta, la resa all’ideologia
dominante, la rinuncia allo studio e all’analisi della crisi molteplice e
inedita che si veniva delineando.
Questa crisi, quella attuale di cui stiamo discutendo, fu
infatti individuata, prevista e analizzata non dalle sinistre, ma all’interno
dei centri di ricerca del capitalismo più colto e lungimirante. Mi riferisco in
primo luogo al Club di Roma, che all’inizio degli anni ’70 del XX secolo
disegnò a grandi linee i “limiti dello sviluppo” e implicitamente avvertì il
mondo circa l’inevitabilità di una svolta epocale.
Ho già accennato al fatto che l’idea stessa dei “limiti” fu
respinta con scandalo, esecrazione e infine irrisione dal potente apparato
informativo-comunicativo che si stava costruendo in quegli anni nei centri
motori di quel capitalismo finanziario di nuovo tipo che oggi è diventato il
padrone assoluto delle nostre menti. Ma essa fu respinta all’unanimità anche
dai residui istituti e centri politici sia delle socialdemocrazie sia delle
correnti più radicali del marxismo. In tal modo, alle classi subalterne veniva
imposta la camicia di forza dello sviluppo senza fine, con la partecipazione
attiva delle loro ormai obsolete organizzazioni politiche al conseguente
delirio sviluppista. Inoltre, l’assenza di un’analisi critica delle
trasformazioni in corso – quelle promosse dalle classi dominanti – rendeva
impossibile la definizione delle lotte che sarebbero state necessarie per
l’instaurazione di nuovi rapporti di forza, meno sfavorevoli per le classi
subalterne.
Le sinistre si trovarono completamente avulse dalla
battaglia: credevano di combattere ma erano “altrove”, mentre i cambiamenti
avvenivano nelle forme e ai ritmi che i dominanti dettavano, sul terreno scelto
da loro. L’idea sostanzialmente deterministica che prevedeva uno sviluppo
lineare della contrattazione tra capitale e lavoro, fino al punto di rottura
della transizione rivoluzionaria al socialismo, era stata smentita dai fatti.
Perché? La quantità gigantesca di ricchezze prodotta dallo sviluppo
capitalistico nel periodo tra l’accumulazione primitiva e la maturità delle
società industriali fu tale da permettere alle classi dominanti proprietarie di
usarne una parte per attenuare gradualmente il conflitto (altrimenti
inconciliabile nelle condizioni date) tra gli attori della produzione, cioè tra
capitalisti e lavoratori.
Fu una serie di processi oggettivi a produrre tale esito,
non un piano. Ma a esso contribuì indubbiamente la qualità intellettuale delle
più avvertite élite capitaliste dell’epoca.
Il keynesismo fu la chiave di volta per indurre i
capitalisti a prelevare una parte significativa e crescente di risorse dal
processo di accumulazione e riproduzione del capitale, per destinarla al
processo di “stabilizzazione” del sistema. A questo processo contribuirono diverse
componenti: la distribuzione della ricchezza su strati sociali diversificati
attraverso aumenti salariali, il miglioramento delle condizioni di vita
attraverso la politica del “welfare state” che fu assunta dai governi, la
formazione di sistemi politici atti a contenere e assorbire le spinte sociali
al miglioramento, incanalandole in direzioni compatibili con l’esistenza del
sistema dato di rapporti sociali. Una parte di risorse, anch’essa ingente, fu
poi indirizzata alla creazione di un efficiente e articolato sistema di
repressione.
Questa strategia portò a una forte differenziazione sociale
all’interno dei paesi industriali, con la creazione di una classe media (la più
privilegiata delle classi subalterne) che divenne l’asse portante, lo strumento
decisivo della creazione del consenso sociale. Naturalmente, tutto ciò poté
essere realizzato in condizioni di generale rapina delle risorse a vantaggio
del Nord del pianeta e a scapito delle immense masse del Sud: dell’Asia,
dell’Africa e dell’America latina. Il “fallout” dei resti abbondanti della
tavola imbandita dei potenti, che stavano depredando il resto del mondo, fu
largamente sufficiente a tenere a bada le classi lavoratrici dell’Occidente e a
consolidare la stratificazione sociale che lo stesso sistema aveva
prudentemente incoraggiato. Se ne ricava che la classe operaia del Nord poté –
certo combattendo, perché nulla fu regalato – in larga misura elevare la
propria condizione, come sottoprodotto del progetto keynesiano di
stabilizzazione del sistema capitalistico.
Questa fu la sostanza. Dentro la quale poterono convivere
lotte e forme di solidarietà tra gli sfruttati del Nord e i depredati del Sud
del mondo. Ma la demolizione spirituale e di classe passò in Occidente con poca
o nulla resistenza.
Delle verità così impopolari non potevano essere dette agli
operai dei paesi industrialmente avanzati, e infatti non furono dette. Neanche le organizzazioni politiche e
sindacali dei lavoratori furono capaci di dirle.
In queste condizioni, «il punto di non ritorno non è stato
raggiunto in quanto si è parzialmente tolto dallo scacchiere il presunto
protagonista della transizione», cioè la classe operaia “rivoluzionaria” (Guido
Cosenza, “La transizione”, Feltrinelli). L’aggettivo “presunto” è ferocemente sarcastico.
Nel corso di gran parte del XX secolo, l’idea dominante a sinistra rimase
appesa alla certezza che la classe operaia fosse di per sé rivoluzionaria e che
sarebbe stata la protagonista della futura transizione. All’inizio del XXI
secolo quella certezza si rivela totalmente infondata. Ma nella confusa
galassia delle posizioni radical-marxiste questa certezza resta immutata. A
riprova che un’analisi errata delle forze in campo produce, prima ancora che
sconfitte, un dilagare di stupidità.
Era evidente che, alla lunga, ciò avrebbe prodotto
modificazioni radicali nelle dinamiche dello scontro sociale. La contraddizione
cruciale tra capitale e lavoro veniva spostata in avanti nel tempo e si perdeva
alla vista in un tempo indeterminato. In parallelo, veniva rivoluzionata la
geografia sociale dei paesi industrialmente avanzati, sconvolgendo i rapporti
di forza. In terzo luogo, l’irrompere delle nuove tecnologie
dell’informazione-comunicazione modificava le forme organizzative delle parti
sociali, cancellando in pochi decenni tutto il patrimonio di casematte
difensive costruito dalle classi lavoratrici nel corso del XX secolo. Più in
generale ancora, il rapporto stesso tra struttura e sovrastruttura veniva
radicalmente modificato, con l’ingresso nella struttura di elementi – come
l’informazione, la comunicazione, lo spettacolo, la pubblicità – che
storicamente non ne facevano parte.
Certo che la classe operaia, in quanto insieme di individui
che producono plusvalore, non è sparita. Essa si è persino smisuratamente
accresciuta su scala mondiale. basti pensare alle centinaia di milioni di
operai che sono apparsi in India, in Cina, in Brasile, in Turchia. Né si può
certo dire che la classe operaia non esista più in Occidente, negli Stati
Uniti, in Europa. Ma in quest’ultima area è “sparita la coscienza
dell’appartenenza a una classe”, sostituita da una scala di valori fondata
sull’individualismo assoluto e su una serie massiccia, onnipresente, di spinte
al consumo senza limiti, all’indebitamento, alla soggezione alle merci, a
un’ascesa sociale presentata come accessibile a tutti, seppure in forme
rigorosamente dettate dalle regole della massificazione. La carota
permanentemente sotto il naso, ma sempre irraggiungibile, di cui ha parlato
Michael Moore. E le moltitudini operaie della Cina, dell’India e dell’ex terzo
mondo si trovano nello stadio di una forma di accumulazione primitiva così
selvaggia che non ci consente di prevedere una loro influenza nei tempi brevi,
cioè nel corso di questa crisi. Arriveranno anch’esse sulla scena, se vi
arriveranno, molto più tardi. Fuori tempo massimo.
Quando si pone la questione in questi termini, ecco che da
sinistra fioccano obiezioni, quando non addirittura furibonde accuse di eresia:
ma allora voi sostenete che la lotta di classe non esiste più? Naturalmente la
lotta di classe continua a esistere, e se qualcuno lo avesse dimenticato
basterebbe a ricordarglielo la già citata battuta sprezzante di Warren Buffett.
Tuttavia è fondamentale capire che, da un lato, occorre ora rifare tutti i
calcoli dei rapporti di forza, e dall’altro è indispensabile conoscere con
precisione come sono cambiate le classi sociali. E non solo in termini
numerici, ma anche in termini psicologici, di “coscienza per sé”. Di più: non
si può progettare un qualsivoglia combattimento senza aver esaminato le
condizioni del terreno e gli strumenti di offesa e di difesa di cui si dispone.
Sotto questo profilo, la terminologia militare risulta
utilissima ai fini del programma politico che ci si pone. Chi ha in mano oggi,
per esempio, gli strumenti per l’organizzazione delle masse? Nel XX secolo,
come sappiamo, ci fu una fase, quella delle rivoluzioni socialiste, in cui le
classi povere e sfruttate elaborarono potenti strumenti di organizzazione (il
partito di tipo nuovo, il partito di massa) e le condussero alla vittoria su
una larga parte del globo, in Asia soprattutto. Ma adesso è l’avversario a
dominare su tutto il campo. Almeno per quanto riguarda l’Europa e gli Stati
Uniti, vale a dire il “miliardo d’oro”, il più ricco e il meglio armato del
pianeta. Forse ancora per poco: ma sarà in questo “poco” che, con ogni
probabilità, si giocheranno le mosse decisive.
Infine la dilazione temporale che è stata impressa alla
battaglia tra ricchi e poveri ha introdotto fattori completamente nuovi che non
erano presenti nella teoria rivoluzionaria del XX secolo. La lotta tra le
classi esiste e si è estesa a dismisura, ma esiste ora, al primissimo posto per
urgenza e drammaticità, anche la lotta tra l’Uomo e la Natura. Una lotta
inedita, come abbiamo già rilevato, che richiede una strumentazione del tutto
diversa, sulla cui costruzione stiamo appena cominciando a interrogarci. Una
lotta contro un “avversario” (sono costretto a chiamarlo in questo modo, per quanto
paradossale possa essere tutto ciò) – la Natura, appunto – che non negozia con
noi e che è in grado, in qualunque momento, di presentarci il conto.
Su tutto questo arco di problemi, il vuoto a sinistra è
completo: sia sul versante rosaceo, riformista, sia su quello che ama
considerarsi radicale, antagonista. Peggio: non vi sono, da quella parte,
segnali di resipiscenza. Dove emergono, rimangono episodici e marginali. Dunque
non è da quel versante che potranno venire contributi per la costruzione
dell’alternativa alla sconfitta politica e sociale e alla catastrofe
ambientale.
Uno dei compiti da affrontare è studiare come si siano
determinati questi cambiamenti e come sia possibile – sempre che lo sia –
invertire il corso delle cose. Cioè bisogna determinare con precisione cosa
abbia deviato il corso della crisi dello sviluppo capitalistico e come il
capitalismo abbia fronteggiato la sua crisi, procrastinandola e modificandosi.
E perché il capitalismo, ormai divenuto sostanzialmente finanziario, stia
organizzando esso stesso una rivoluzione epocale che è destinata a cancellare
gran parte dei parametri sulla base dei quali la società occidentale ha
dominato il pianeta. E’ il capitalismo finanziario che sta rovesciando la
scacchiera, non i popoli, non le classi subalterne. Agli pseudo-rivoluzionari
del tempo presente occorrerà ricordare ancora una volta che non c’è generale
più imbelle di colui che pensa di stare all’attacco mentre in realtà è
costretto a difendersi.
(Giulietto Chiesa, estratti dal capitolo “La convergenza dei
punti critici”, del libro “Invece della catastrofe”, Piemme, 291 pagine, euro
17,50).
Fonte: visto su LIBRE del 20 agosto 2013
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