Da cosa è fatto il Pil? Dagli stipendi degli
statali? Dalle fabbriche? Dai piccoli imprenditori? Dai lavoratori pubblici
assunti per sostenere magari con i forestali, le famiglie del Sud? O c’è una
categoria, quella della bottega, che ha fatto il Paese e buona parte di questo?
Le ultime cifre della Cgia sulla mortalità
degli artigiani, una moria che sta devastando il tessuto ancora produttivo
delle regioni del Nord, impone una riflessione politica trasversale e oltre gli
schieramenti politici Nord-Sud, destra-sinistra. Perché se quelle serrande si
chiudono, o chiudono per sempre oppure vengono riaperte da chi non rappresenta
necessariamente l’economia più sana del territorio. La colonizzazione è in
corso, si può far finta di non vederla e di diventare ospiti a casa nostra.
Avanti così, che va bene.
Ecco la lettura che l’ufficio studi della Cgia
effettua sul mondo artigianale.
Tra il 2009 e i primi nove mesi del 2014
l’artigianato ha perso oltre 91 mila imprese. Una su due era ubicata al Nord.
Le regioni dove il saldo tra nati e mortalità è stato maggiore sono la
Lombardia (-12.496), l’Emilia Romagna (-11.719), il Veneto (- 10.944) e il
Piemonte (-8.962).
Un quadro, quello fotografato dall’Ufficio
studi della CGIA, che ci descrive una situazione molto pesante, anche se non
mancano alcuni segnali positivi.
“Nonostante la crisi economica abbia cancellato
a livello nazionale ben 91.000 aziende artigiane – dichiara Giuseppe Bortolussi
segretario della CGIA di Mestre – i giovani, soprattutto nel comparto casa, costituiscono
la maggioranza degli addetti. E’ un segnale molto importante che squarcia un
quadro generale molto critico. A nostro avviso ciò è dovuto a due motivi.
Il primo: questi mestieri, legati al mondo
dell’edilizia, impongono una forza e una tenuta fisica che difficilmente
possono essere richiesti a dei lavoratori di una certa età.
Il secondo: il forte aumento del numero dei
diplomati avvenuto in questi ultimi anni nel settore edile, elettrico e
termoidraulico ha favorito l’ingresso di molti ragazzi nel mercato del lavoro.
In generale, malgrado le difficoltà e i
problemi che sta vivendo il nostro settore, i giovani stanno ritornando
all’artigianato, ma non ai vecchi mestieri. Dai nostri dati, ad esempio, gli
artigiani che lavorano il vetro artistico, i calzolai, gli artigiani del cuoio,
delle pelli e quelli e i sarti corrono il rischio, fra qualche decennio, di
estinguersi”.
Ma la forza dell’artigianato, proseguono dalla
CGIA, è ancora viva e capace di traguardare il futuro oltre la crisi.
“In alcuni settori come il tessile, il
calzaturiero, l’agroalimentare, ma anche la meccanica – conclude Bortolussi –
siamo nella condizione di poter gareggiare con chiunque, sia in Italia che
all’estero. Laddove sono necessari eccellenza, intelligenza, creatività,
cultura ed alta specializzazione non abbiamo rivali”.
I settori artigiani che in questi ultimi anni
di crisi hanno subito la contrazione numerica più pesante sono le
costruzioni/installazione impianti (-42.444), le attività manifatturiere (-
31.256), i carrozzieri e le autofficine (- 15.973). Sono in espansione, invece,
i servizi alla persona (parrucchieri, estetiste, massaggiatori, etc.), con un
saldo pari a + 1.405 attività, le gelaterie e le pasticcerie, con +5.579
imprese, e le attività di pulizia/giardinaggio, con + 10.497 aziende
artigiane.
Quali sono le cause della crisi ?
Secondo i dati forniti dall’Ufficio studi della
CGIA, tra il 2008 e il 2013 il costo dell’energia elettrica è aumentato ben
oltre il 21 per cento, quello del gasolio di quasi il 23,5 per cento, mentre la
Pubblica amministrazione ha allungato i tempi di pagamento ai propri fornitori
di ben 35 giorni.
Gli artigiani, come del resto la quasi totalità
delle piccole e micro imprese presenti in Italia, vivono dei consumi delle
famiglie: dal 2008 al 2013 la contrazione di questi ultimi è stata fortissima:
-6,6 per cento.
Sul fronte del credito la situazione è
altrettanto preoccupante: in questi sei anni di crisi economica gli affidamenti
bancari alle imprese con meno di 20 addetti sono diminuiti del 10 per cento. In
termini assoluti alle micro imprese sono stati “tagliati” 17 miliardi di euro
di impieghi.
Infine, le tasse e la burocrazia. Dopo la rivalutazione
del Pil, nel 2013 la pressione fiscale in Italia si è stabilizzata al 43,3 per
cento: picco massimo mai raggiunto in passato, anche se per le micro imprese il
carico fiscale supera abbondantemente il 50 per cento.
Perfino il peso degli adempimenti burocratici
ha assunto un livello non più sopportabile. Secondo i dati della Presidenza del
Consiglio dei Ministri, la burocrazia costa al mondo delle imprese italiane 31
miliardi di euro all’anno. Ciò implica che su ogni impresa grava mediamente un
costo annuo pari a 7 mila euro. A differenza di quelle più grandi, le
piccolissime imprese non possiedono una struttura amministrativa al proprio
interno. Pertanto, sono costrette a rivolgersi a dei professionisti esterni,
subendo dei costi annui ben superiori al dato medio nazionale sopra citato.
Fonte:visto su L’Indipendeza del 31 ottobre 2014
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