di DAVIDE LOVAT
La laicità
dello Stato non coincide con il concetto di “laicismo” di matrice giacobina e
non significa che lo Stato debba essere ateo, perché se lo Stato fosse ateo
smetterebbe di essere laico in quanto farebbe una precisa scelta, l’ateismo, in
rapporto alla religione. Va detto anche che la “aconfessionalità” delle istituzioni, ammesso e non concesso che sia
necessaria, non obbliga a una legislazione che tratti tutte le religioni allo
stesso modo.
La separazione fra sfera spirituale e sfera temporale è connaturata
alla civiltà cristiana, essendo stato addirittura Gesù di Nazareth a
proclamarla per primo nella storia dell’umanità, durante il processo al
cospetto di Pilato, narrato nel Vangelo di Giovanni. Fu quello, e solo quello,
il momento originario del concetto puro di laicità delle istituzioni; non, come
taluni erroneamente credono, quello della disputata questione circa la
legittimità del tributo a Cesare, perché chiunque abbia studiato la dottrina
patristica sa che quel passo evangelico ha tutt’altra portata e si collega bene
alle istanze indipendentiste, tanto che la riflessione su quel brano è
attualissima e opportuna per capire le differenze tra autonomismo e
indipendentismo. Ragioniamoci sopra attualizzando, con anche un po’ d’ironia
francescana nell’esegesi testuale del Vangelo.
Il popolo d’Israele si
lamentava dell’occupazione di Roma ladrona, da cui voleva rendersi
indipendente, ma era diviso in troppe fazioni che non facevano sintesi e si
delegittimavano reciprocamente; chi era per la trattativa con Roma per avere
concessioni, come i sadducei, chi
voleva l’indipendenza ma consigliava prudenza per lo squilibrio militare, come
i farisei, chi era per la lotta
armata, come gli zeloti. Tutti
concordavano solo sul fatto che le tasse fossero eccessive: “basta schei a Roma, basta tasse, Roma
ladrona, secessione, indipendenza”.
Vedendo Gesù che trovava favore crescente presso il popolo, vollero
metterlo alla prova chiedendogli se fosse legittimo il pagamento del tributo a
Cesare, per delegittimarlo: se avesse detto sì, lo avrebbero definito un
collaborazionista; se avesse detto no, lo avrebbero denunciato come
cospiratore. Sappiamo come Gesù risolse la questione: fattasi consegnare una
moneta, chiese di chi fosse l’effigie ivi raffigurata e, saputo che apparteneva
a Cesare, sentenziò: “Sia dato a Cesare
quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”
Qual è l’insegnamento, allora, per noi indipendentisti? Finché la
questione sarà posta in termini di denaro, tasse, amministrazione, gestione
delle risorse, non se ne uscirà mai. Non è una questione di soldi quella che
può legittimare le istanze indipendentiste per la libertà. Le questioni di
soldi si risolvono in termini di autonomia, rimanendo però soggetti a Roma.
L’autonomia difatti si risolve in una mai definita linea di contrattazione tra
potere centrale originario e potere locale derivato, sempre revocabile. Ma per
poter reclamare invece l’indipendenza, bisogna saper dimostrare l’assoluta
specificità e diversità di un popolo, residente storicamente su un preciso territorio,
rispetto allo Stato che esercita la sovranità su di esso.
Facciamo un esempio concreto e mi si perdonerà se uso quello che gli
italiani chiamano Nordest o Triveneto, mentre per me è e resta, da sempre, la
Venetia già conosciuta dagli antichi Romani o, meglio ancora, la Repubblica di
San Marco. Il motivo è che si tratta di un caso che si presta a fare da esempio
di scuola.
Se le lamentele dei Veneti dipendessero dall’uso dissennato delle
risorse fiscali da parte di “Roma ladrona”, la questione dovrebbe risolversi
sulla base di alcune concessioni da ottenersi con la rappresentanza politica,
organizzata in partiti che rivendichino al centro le ragioni della periferia;
ma sarebbe assurdo, oltre che illegittimo da ogni punto di vista, primo tra
tutti il Diritto Naturale, chiedere l’indipendenza per una questione di soldi.
La libertà non è un valore economico, né la Patria è qualcosa che sta bene
soltanto finché si ha la panza piena…
L’indipendenza invece è un diritto quando a un popolo non viene
permesso di “dare a Dio quel che è di
Dio”, cioè vivere secondo i propri
usi, costumi, consuetudini, valori etici, sociali, religiosi, politici ed
economici; quando cioè Cesare, lo Stato, vuole prendersi anche l’anima del
popolo che governa.
In un caso del genere, da dimostrare ovviamente, il diritto
all’autodeterminazione è tanto automatico quanto sacrosanto. Esistono queste
condizioni in Veneto (e, mutatis mutandis, magari anche in Nordovest, o Padania
che dir si voglia)? Cioè: se avvenisse la secessione, la Costituzione del nuovo
Stato sarebbe completamente diversa nei valori di fondo rispetto a quella
italiana? Solo se la risposta fosse sì, allora il ragionamento potrebbe
continuare; e io lo farò seguendo tale ipotesi, limitandomi a 3 principi
costituzionali cardinali per la convivenza associata: la famiglia, la
proprietà, la religione.
La Repubblica Italiana si fonda su valori illuministici che stridono
con i valori del popolo di San Marco e nei tempi recenti, con la presa netta
del potere da parte del Partito (che è espressione del Centro Italia marxista),
la corda si sta tendendo oltre ogni limite accettabile.
Primo, l’attacco all’istituto
matrimoniale e alla famiglia tradizionale attraverso l’introduzione del
divorzio breve, della fecondazione assistita anche eterologa (leggi adulterio
legalizzato) e la promozione della sodomia di Stato attraverso il
riconoscimento di diritti economici a unioni non coniugali, è già una ragione
antropologica sufficiente a rifiutare la sovranità di un popolo straniero sulla
propria terra.
Secondo, la tassazione della prima casa è un delitto contro il
diritto naturale alla proprietà dell’abitazione e dei mezzi minimi di
autosostentamento del nucleo familiare, e questo è un motivo socioeconomico
sufficiente a protestare l’indipendenza.
Terzo, la parificazione di tutte le religioni, comprese quelle che
contrastano con l’art.8 della Costituzione o che incitano alla conquista
militare, alla sottomissione (“islam” è parola che in arabo significa
“sottomissione”) del mondo, può andar bene a tutti, ma non al popolo di San
Marco che continua a celebrare la Festa del Redentore Gesù Cristo e ha memoria
di migliaia di suoi martiri nel contrasto a queste che, per noi, sono eresie.
Avere il coraggio di affermare che “l’ateismo è un fatto privato e lo Stato è laico nelle istituzioni, ma
il popolo della Repubblica è di tradizioni e cultura forgiate dalla fede
cristiana” te lo hanno fatto sembrare un anacronismo o una follia bigotta,
ma era sostanzialmente così nello Statuto Albertino fino al 1946 (articolo 1,
peraltro) ed è il modo migliore con il quale proclamare l’incompatibilità
territoriale con moschee, pratiche alimentari inaccettabili, pretese smisurate,
abusi contro le donne, immigrazione incontrollata.
Non ha forse fatto così, in fin dei conti, l’ex capo del KGB
sovietico, W. Putin, con la confessione ortodossa del cristianesimo, incentivandone
la riaffermazione in Russia? Putin, ne sono certo, a casa sua o nel suo cuore
continua a essere la stessa persona che comandava il KGB, ma, come insegnava
Macchiavelli su questa materia, ha capito che la religione è un ottimo
“instrumentum regni” quando i suoi valori tradizionali incontrano il favore
della netta maggioranza della popolazione. Poi, in privato, ognuno pensi ciò
che vuole.
In Svizzera, come è noto, hanno bloccato definitivamente la
costruzione di moschee con un referendum relativo all’incompatibilità dei
minareti con il paesaggio alpino; ma è stato possibile perché la Costituzione
Elvetica ha un rapporto molto diverso con la religione rispetto a quello della
Repubblica Italiana.
In breve, solo rompendo radicalmente con i valori dello Stato
occupante, solo se si vuole edificare uno Stato completamente, o fortemente,
diverso da quello da cui ci si stacca, può legittimarsi la rivendicazione
indipendentista. Si deve giungere a dire “meglio avere le pezze al culo da
indipendenti che nuotare nell’oro da concittadini”, perché non sono i soldi la
questione essenziale del patto di convivenza civile.
Vale per il sentimento indipendentista della Repubblica di San
Marco, vale per eventuali simili desideri in Padania, ma vale anche
nell’edificazione dell’Europa politica, dove all’efficienza economica va
preferita la libertà e l’effettivo esercizio della sovranità dei popoli che,
per essere riconosciuti come tali, devono avere un comune sentire fatto di
memorie, sentimenti, usi e costumi, credenze e altare, ethos (i valori morali)
ed ethnos (l’ascendenza, l’appartenenza e la discendenza), lingua e radicamento
nel territorio, nell’ambiente, nella venerazione dei morti, il tutto riunito in
una simbologia a tutti riconoscibile, fatta di feste e riti comunitari. Fuori
da queste caratteristiche un popolo non è tale.
Per esserlo, deve saper sostituire i simboli dello Stato occupante
con simboli propri e diversi, perché un popolo senza simboli non è un popolo,
ma solo un’accozzaglia di individui dispersi, senza dignità né nome.
Fonte: visto su L’Indipendenza del
24 agosto 2014
Nessun commento:
Posta un commento