Nell’aprile di quest’anno il Vaticano, che aveva a suo tempo perseguitato Pasolini e ne aveva appoggiato una condanna per blasfemia, ha definito il suo capolavoro, “Il Vangelo secondo San Matteo”, «il miglior film mai realizzato su Gesù Cristo». Questa espressione della fede radicale di Pasolini dipinge Gesù come un rivoluzionario “Messia rosso”, secondo la dottrina francescana della santa povertà, che ha una parziale influenza sull’attuale pontefice Francesco.
Ma l’attenzione ossessiva per la sua morte è meno spiegabile: nel 2010 l’ex sindaco di Roma e leader del Partito Democratico di centro-sinistra Walter Veltroni chiese che il caso venisse riaperto sulla base di un insieme di strane circostanze convergenti e politicamente rilevanti.
Pasolini venne ucciso il giorno dopo il suo ritorno da Stoccolma, dove aveva incontrato Ingmar Bergman e altri dell’avanguardia cinematografica svedese, e aveva rilasciato un’esplosiva intervista al settimanale “L’Espresso”, in cui aveva esplicitato il suo argomento preferito: «Ritengo che il consumismo sia una forma di fascismo peggiore delle versioni classiche».
La visione di Pasolini di un nuovo totalitarismo, in cui l’ipermaterialismo distrugge la cultura italiana, può essere considerata un’acuta previsione di ciò che è avvenuto in tutto il mondo nell’era di Internet.
Ma la sua critica era stata, per molti mesi prima dell’assassinio, più specifica. Aveva accusato la televisione di esercitare un’influenza estremamente pericolosa, prevedendo con grande anticipo l’emergere e la presa del potere di un soggetto come il magnate mediatico e primo ministro Silvio Berlusconi.
Ancor più nello specifico, aveva scritto una serie di articoli per il “Corriere della Sera” di denuncia della dirigenza del partito al potere, la Democrazia Cristiana, come pervasa dall’influenza della mafia, prefigurando gli scandali della cosiddetta Tangentopoli di 15 anni dopo, quando un’intera classe politica venne messa agli arresti nei primi anni ’90.
Nei suoi articoli, Pasolini affermava che la dirigenza democristiana doveva essere processata non solo per corruzione, ma per associazione con il terrorismo neofascista, come le bombe sui treni e i fatti di Milano.
Un ulteriore elemento agghiacciante: quelli erano i cosiddetti “anni di piombo” in Italia, culminati nella bomba alla stazione di Bologna cinque anni dopo la morte di Pasolini, per mano di neofascisti in collaborazione coi servizi segreti, che uccise 82 persone.
Io ero uno studente nella turbolenta Firenze del 1973, dove ritornai da allora ogni anno, e militante in un’organizzazione radicale chiamata Lotta Continua; e ricordo bene che il giornale “Lotta Continua” riceveva contributi da Pasolini, benché il suo rapporto con i movimenti radicali nati nel 1968 fosse ambiguo. Lui si identificava con i poliziotti contro gli studenti che manifestavano, perché, diceva, loro erano “figli dei poveri” attaccati dai borghesi “figli di papà”.
Sta di fatto che al momento dell’omicidio nel 1975, le persone vicine a Pasolini videro la mano del potere dietro al suo assassinio. Non sarebbe stato il primo caso: eminenti personaggi della sinistra furono spesso aggrediti o uccisi; la femminista Franca Rame, che avrebbe sposato l’artista anarchico Dario Fo, venne rapita da neofascisti appoggiati dai carabinieri.
Membri della famiglia di Pasolini, il giro dei suoi amici, e gli scrittori Oriana Fallaci e Enzo Siciliano evidenziarono possibili motivi politici per l’assassinio e fornirono prove che contraddicevano la confessione di Pelosi, come un maglione verde ritrovato nella macchina che non apparteneva né a Pasolini né a Pelosi, e un’impronta insanguinata della mano di Pasolini sul tetto (c’era appena qualche macchia di sangue su Pelosi). Dei motociclisti ed un’altra macchina furono visti seguire l’Alfa Romeo.
Nel gennaio 2001 uscì un articolo su “La Stampa”, che portava la teoria della cospirazione su un terreno pesante. Si trattava della morte, nel 1962, in un incidente aereo, di Enrico Mattei, presidente del gigante dell’energia Eni, su cui fu girato un famoso film da Francesco Rosi, con cui Pasolini aveva lavorato.
L’autore dell’articolo, Filippo Ceccarelli – uno dei più esperti giornalisti politici italiani – citava le inchieste di un giudice, Vincenzo Calia, sugli intrighi politici interni ad Eni, che rivelarono che l’aereo era stato abbattuto.
Il giudice Calia coinvolse il successore di Mattei, Eugenio Cefis, in connivenza con leaders politici. Il rapporto citava un giornalista, Mauro di Mauro, che aveva lavorato con Rosi per il film “L’affare Mattei”, che fu rapito e di cui si perse ogni traccia.
Molto prima dell’indagine di Calia, pubblicata nel 2003, Pasolini aveva lavorato al volume “Petrolio”, pubblicato postumo, in cui si delineavano le figure, a malapena dissimulate, di Mattei e Cefis, e si mostrava a conoscenza di come lo scandalo Eni e l’assassinio conducessero al cuore del potere e della loggia massonica P2, di cui Cefis era membro fondatore.
«Con 25 anni di anticipo», scrisse Ceccarelli, «lo scrittore Pasolini era consapevole dell’esito di una lunga indagine».
Poi, nel 2005, si ruppero gli argini. Pelosi, intervistato in televisione, ritrattò la confessione, dichiarando che due fratelli e un altro uomo avevano ucciso Pasolini, chiamandolo “pervertito” e “sporco comunista”, mentre lo colpivano a morte. Disse che essi frequentavano la sede tiburtina del partito neofascista Msi. Tre anni dopo, Pelosi fece altri nomi in un saggio dal titolo “Profondo Nero”, pubblicato dall’editore radicale “Chiarelettere”, in cui rivelava connessioni con cellule fasciste ancor più estreme, legate ai servizi segreti, dicendo che non aveva osato parlare prima, a causa di minacce alla sua famiglia.
Uno degli amici più stretti di Pasolini, l’aiuto regista Sergio Citti, uscì allo scoperto dicendo che le sue personali indagini avevano condotto a prove del tutto trascurate: dei pezzi di bastone insanguinati scaricati vicino al campo di calcio, e un testimone, ignorato dall’indagine ufficiale, che aveva visto cinque uomini tirare fuori Pasolini dalla macchina. Citti introdusse un nuovo argomento: il furto delle bobine dell’ultimo film di Pasolini, “Salò”, di cui aveva tentato di negoziare la restituzione.
Venne fuori che la banda di ladri frequentava lo stesso bar del biliardo di Pelosi, e aveva contattato Pasolini l’ultimo giorno della sua vita per combinare un incontro.
Un’altra ricerca dello scrittore Fulvio Abbate collegava gli assassini alla famosa banda criminale della Magliana, che operava nella periferia del litorale romano. Il caso è ormai chiuso, e c’è chi, nella cerchia di Pasolini come nella classe politica, preferisce così.
(Ed Vulliamy, estratto da “Chi ha davvero ucciso Pier Paolo Pasolini?”, articolo pubblicato sul “Guardian” il 24 agosto 2014 e tradotto da “Come Don Chisciotte”, in occasione della presentazione a Venezia del film di Abel Ferrara. Il film ricostruisce la figura del grande intellettuale partendo dalla sua tragica e misteriosa fine, il 1° novembre 1975, nel corso di un’esecuzione in cui risultò dapprima coinvolto il solo Giuseppe “Pino” Pelosi, allora diciassettenne).
Fonte: visto su LIBRE del 8 settembre 2014
CHI HA DAVVERO UCCISO PIER PAOLO PASOLINI?
Becchetti Susanna e Pier Paolo Pasolini Roma 1971
DI ED VULLIAMY
Il film sulle ultime ore di Pier Paolo Pasolini secondo
indiscrezioni vincerà il Leone d’oro alla Biennale di Venezia.
“Ti va di fare un giro?”, chiese il poeta e maestro del
cinema italiano al gigolò, secondo la deposizione alla polizia di quest’ultimo:
“ Vieni con me, e ti farò un regalo.”
Così ebbero inizio gli eventi che portarono all’assassinio
di Pier Paolo Pasolini, brillante intellettuale, regista ed omosessuale, la cui
visione politica – basata su una singolare giustapposizione di erotismo, cattolicesimo
e marxismo – prefigurò la storia italiana dopo la sua morte, e la nascita del
consumismo globale. Si trattò di un omicidio che, quattro decenni dopo, rimane
avvolto in una sorta di mistero ed opacità – un giallo, un thriller, in
cui l’Italia è specializzata.
L’incontro avvenne nel caos della calca intorno alla
stazione di Roma Termini alle 22,30 del 1 novembre 1975. Ed è questo il punto
di partenza del film che potrebbe vincere il Leone d’oro alla Biennale di
Venezia questa settimana – Pasolini, con protagonista Willem Defoe e la
regia di Abel Ferrara. Il film si occupa dell’ultima giornata di una vita
straordinaria. Dice Ferrara: “Io so chi ha ucciso Pasolini”, ma non dice il
nome. Però in un’intervista a Il Fatto Quotidiano aggiunge: “Pasolini è la
mia fonte di ispirazione”.
All’una e mezza di notte, tre ore dopo l’appuntamento alla
stazione, una pattuglia dei carabinieri fermò per eccesso di velocità un’Alfa
Romeo sulla strada costiera dell’idroscalo di Ostia, vicino a Roma. Il
conducente, Giuseppe (Pino) Pelosi, di 17 anni, tentò di scappare, venne
arrestato per furto dell’auto, identificata come appartenente a Pasolini. Due
ore dopo, il corpo del regista fu ritrovato – martoriato, coperto di sangue e
gettato dall’auto, dietro un campo di calcio. Intorno c’erano schegge di legno
insanguinato.
Pelosi confessò che lui e Pasolini erano andati in giro, e
lui aveva mangiato in un ristorante che il regista conosceva, il Biondo Tevere,
vicino alla basilica di San Paolo, dove era ben conosciuto. Pino mangiò
spaghetti aglio e olio, e Pasolini bevve una birra. Alle 23.30 si diressero in
macchina verso Ostia, dove Pasolini “richiese qualcosa che io non volevo” –
sodomizzare il ragazzo con un bastone di legno. Pelosi si rifiutò, e Pasolini
lo colpì; Pelosi si mise a correre, raccolse due pezzi di un tavolo, afferrò il
bastone e colpì Pasolini fino ad ucciderlo. Quando fuggì nella macchina, passò
sopra a ciò che pensò fosse una cunetta nella strada. “Ho ucciso Pasolini”,
disse al suo compagno di cella ed alla polizia.
Pelosi fu condannato nel 1976, insieme ad “altri
sconosciuti”. L’esame forense condotto dal Dr. Faustino Durante concluse che
“Pasolini fu vittima di un’aggressione compiuta da più di una persona.”
In appello però gli “altri” furono stralciati dalla
sentenza. Pelosi avrebbe agito da solo ed il maestro sarebbe morto in uno
squallido convegno finito male, e da dimenticare, forse addirittura meritato.
Ma il fascino di Pasolini e dei suoi film (in Italia anche dei suoi scritti) si
accrebbe – come fu anche per i misteri che tuttora circondano le sue ultime
ore.
La fama del suo nome è manifestamente meritata: il Moma di
New York ha allestito una retrospettiva nel 2012, il BFI (British Film
Institute) nel 2013. Nell’aprile di quest’anno il Vaticano, che aveva a suo
tempo perseguitato Pasolini e ne aveva appoggiato una condanna per blasfemia,
ha definito il suo capolavoro, Il Vangelo secondo san Matteo, “il
miglior film mai realizzato su Gesù Cristo”. Questa espressione della fede
radicale di Pasolini dipinge Gesù come un rivoluzionario “Messia rosso”,
secondo la dottrina francescana della santa povertà, che ha una parziale
influenza sull’attuale pontefice Francesco.
Ma l’attenzione ossessiva per la sua morte è meno
spiegabile: nel 2010 l’ex sindaco di Roma e leader del Partito Democratico di
centro-sinistra Walter Veltroni chiese che il caso venisse riaperto sulla base
di un insieme di strane circostanze convergenti e politicamente rilevanti.
Pasolini venne ucciso il giorno dopo il suo ritorno da
Stoccolma, dove aveva incontrato Ingmar Bergman ed altri dell’avanguardia
cinematografica svedese, ed aveva rilasciato un’esplosiva intervista al
settimanale L’Espresso, in cui aveva esplicitato il suo argomento preferito:
“Ritengo che il consumismo sia una forma di fascismo peggiore delle versioni
classiche”.
La visione di Pasolini di un nuovo totalitarismo, in cui
l’ipermaterialismo distrugge la cultura italiana può essere considerata
un’acuta previsione di ciò che è avvenuto in tutto il mondo nell’era di
internet. Ma la sua critica era stata, per molti mesi prima dell’assassinio,
più specifica. Aveva accusato la televisione di esercitare un’influenza
estremamente pericolosa, prevedendo con grande anticipo l’emergere e la presa
del potere di un soggetto come il magnate mediatico primo ministro Silvio
Berlusconi. Ancor più nello specifico, aveva scritto una serie di articoli per
il Corriere dellaSera di denuncia della dirigenza del partito al potere
Democrazia Cristiana come pervasa dall’influenza della mafia, prefigurando gli
scandali della cosiddetta tangentopoli di 15 anni dopo, quando un’intera
classe politica venne messa agli arresti nei primi anni ’90. Nei suoi articoli,
Pasolini affermava che la dirigenza democristiana doveva essere processata non
solo per corruzione, ma per associazione con il terrorismo neo-fascista, come
le bombe sui treni e i fatti di Milano.
Un ulteriore elemento agghiacciante: quelli erano i
cosiddetti “anni di piombo” in Italia, culminati nella bomba alla stazione di
Bologna cinque anni dopo la morte di Pasolini, per mano di neo-fascisti in
collaborazione coi servizi segreti, che uccise 82 persone.
Io ero uno studente nella turbolenta Firenze del 1973, dove
ritornai da allora ogni anno, e militante in un’organizzazione radicale
chiamata Lotta Continua; e ricordo bene che il giornale Lotta Continua riceveva
contributi da Pasolini, benché il suo rapporto con i movimenti radicali nati
nel 1968 fosse ambiguo. Lui si identificava con i poliziotti contro gli
studenti che manifestavano, perché, diceva, loro erano “figli dei poveri”
attaccati dai borghesi “figli di papà”.
Sta di fatto che al momento dell’omicidio nel 1975, le
persone vicine a Pasolini videro la mano del potere dietro al suo assassinio.
Non sarebbe stato il primo caso: eminenti personaggi della sinistra furono
spesso aggrediti o uccisi; la femminista Franca Rame, che avrebbe sposato
l’artista anarchico Dario Fo, venne rapita da neofascisti appoggiati dai
carabinieri.
Membri della famiglia di Pasolini, il giro dei suoi amici, e
gli scrittori Oriana Fallaci e Enzo Siciliano evidenziarono possibili motivi
politici per l’assassinio e fornirono prove che contraddicevano la confessione
di Pelosi, come un maglione verde ritrovato nella macchina che non apparteneva
né a Pasolini né a Pelosi, ed un’impronta insanguinata della mano di Pasolini
sul tetto (c’era appena qualche macchia di sangue su Pelosi). Dei motociclisti
ed un’altra macchina furono visti seguire l’Alfa Romeo.
Nel gennaio 2001 uscì un articolo su La Stampa, che
portava la teoria della cospirazione su un terreno pesante. Si trattava della
morte, nel 1962, in un incidente aereo, di Enrico Mattei, presidente del
gigante dell’energia ENI, su cui fu girato un famoso film da Francesco Rosi,
con cui Pasolini aveva lavorato.
L’autore dell’articolo, Filippo Ceccarelli – uno dei più
esperti giornalisti politici italiani – citava le inchieste di un giudice,
Vincenzo Calia, sugli intrighi politici interni ad ENI, che rivelarono che
l’aereo era stato abbattuto. Il giudice Calia coinvolse il successore di
Mattei, Eugenio Cefis, in connivenza con leaders politici. Il rapporto citava
un giornalista, Mauro di Mauro, che aveva lavorato con Rosi per il film L’affare
Mattei, che fu rapito e di cui si perse ogni traccia.
Molto prima dell’indagine di Calia, pubblicata nel 2003,
Pasolini aveva lavorato al volume Petrolio, pubblicato postumo, in cui
si delineavano le figure, a malapena dissimulate, di Mattei e Cefis, e si
mostrava conoscenza di come lo scandalo ENI e l’assassinio conducessero al
cuore del potere e della loggia massonica P2, di cui Cefis era membro
fondatore. “Con 25 anni di anticipo, scrisse Ceccarelli, lo scrittore Pasolini
era consapevole dell’esito di una lunga indagine”.
Poi, nel 2005, si ruppero gli argini. Pelosi, intervistato
in televisione, ritrattò la confessione, dichiarando che due fratelli ed un
altro uomo avevano ucciso Pasolini, chiamandolo “pervertito” e “sporco
comunista”, mentre lo colpivano a morte. Disse che essi frequentavano la sede
tiburtina del partito neofascista MSI. Tre anni dopo, Pelosi fece altri nomi in
un saggio dal titolo “Profondo Nero”, pubblicato dall’editore radicale
Chiarelettere, in cui rivelava connessioni con cellule fasciste ancor più
estreme, legate ai servizi segreti, dicendo che non aveva osato parlare prima,
a causa di minacce alla sua famiglia.
Uno degli amici più stretti di Pasolini, l’aiuto regista
Sergio Citti, uscì allo scoperto dicendo che le sue personali indagini avevano
condotto a prove del tutto trascurate: dei pezzi di bastone insanguinati
scaricati vicino al campo di calcio, ed un testimone, ignorato dall’indagine
ufficiale, che aveva visto cinque uomini tirare fuori Pasolini dalla macchina.
Citti introdusse un nuovo argomento: il furto delle bobine
dell’ultimo film di Pasolini, Salò, di cui aveva tentato di negoziare la
restituzione. Venne fuori che la banda di ladri frequentava lo stesso bar del
biliardo di Pelosi, e aveva contattato Pasolini l’ultimo giorno della sua vita
per combinare un incontro. Un’altra ricerca dello scrittore Fulvio Abbate
collegava gli assassini alla famosa banda criminale della Magliana, che operava
nella periferia del litorale romano.
Il caso è ormai chiuso, e c’è chi, nella cerchia di Pasolini
come nella classe politica, preferisce così.
Lo scrittore Edoardo Sanguineti definisce quella morte “un
suicidio delegato” da un sado-masochista votato all’autodistruzione. Il cugino
di Pasolini Nico Naldini – anch’egli un poeta omosessuale – scrisse nel pezzo
dall’ambiguo titolo “La breve vita di Pasolini” dei “rituali feticisti”
del regista e della sua “attrazione per ragazzi che gli facevano perdere il
senso del pericolo”.
Pasolini è morto, così dice la storia, come in una scena di
uno dei suoi film. “E’ solo in punto di morte, aveva detto Pasolini nel 1967,
che la nostra vita, fino a quel momento ambigua, indecifrabile, sospesa,
acquista un senso.”
Ed Vulliamy
Fonte: www.theguardian.com
24.08.2014
Traduzione per www.comedonchisciotte.org
a cura di CRISTIANA CAVAGNA
Fonte: visto su Come
Don Chisciotte del 5 settembre 2014
Nessun commento:
Posta un commento