Paolo dal Pozzo Toscanelli (Firenze,
1397–1482) è stato un matematico, astronomo e cartografo italiano. Grazie alle
sue competenze in materia si prese un giorno la briga di inviare una lettera a Cristoforo
Colombo, con la quale lo esortava vivacemente a mettersi in viaggio per
raggiungere le Indie tramite la traversata dell’oceano Atlantico. Le sue carte
geografiche non erano certo impeccabili, perché includevano molti degli
errori di calcolo e di misura caratteristici dell’impostazione tolemaica e
geocentrica del mondo, ma erano quanto di meglio si poteva trovare all’epoca.
Lo stesso fratello di Cristoforo, Bartolomeo Colombo, era un abile
cartografo e diede diverse dritte al fratello in vista del suo primo memorabile
viaggio nelle sconosciute Americhe del 1492. Pochi anni dopo questa incredibile
e rivoluzionaria scoperta, in Italia si sviluppò una vera e propria scuola
di cartografia, che vide come massimi esponenti Giacomo Gastaldi, Ignazio
Danti e Mercatore.
In generale il Rinascimento Italiano fu
uno dei periodi più prosperi e floridi dal punto di vista economico, culturale,
artistico della nostra storia e forse, senza peccare di presunzione,
dell’intera storia dell’uomo. Mai in nessuna epoca precedente o successiva ci
fu un pullulare così fecondo di nuove idee, invenzioni, visioni, opere d’arte
universali di valore inestimabile.
Dalle
piccole botteghe artigiane gestite dalle maestranze locali uscirono fuori
artisti del calibro di Michelangelo, Leonardo da Vinci, Raffaello,
e poi architetti come Brunelleschi o Palladio, il quale aveva in
mente dei progetti spesso mai realizzati per costruire città ideali e
organicamente collegate che oggi farebbero impallidire di vergogna i promotori
della mobilità sostenibile, delle zone a traffico limitato, delle targhe
alterne.
I mercanti veneziani avevano in pratica
tutto il controllo degli scambi marittimi nel Mediterraneo, e le nostre
pregiate stoffe, confezionate a Firenze e dintorni, venivano commerciate
dall’Olanda fino alla Turchia.
E poi i banchieri di Genova, e ancora i
cantieri navali di Pisa, Amalfi, Napoli, Palermo.
Dalle diversità culturali, caratteriali e ambientali della nostra penisola si
era riusciti a costruire un mosaico quasi perfetto di comuni e città che faceva
della nostra penisola un centro di snodo fondamentale per tutti i popoli
del mondo conosciuto. Senza sbilanciarci troppo con gli ordini di grandezza, a
quel tempo il mondo parlava italiano.
Ma cosa c’entra il Rinascimento con i nostri
disgraziati Stati Uniti d’Europa odierni? C’entra, c’entra, eccome se
c’entra. Fermatevi un momento a riflettere sulle analogie e differenze e
capirete subito quanti insegnamenti si possono trarre dal passato.
Oggi l’Europa sta andando in una direzione
diametralmente opposta a quella dell’Italia del Rinascimento, che se non fosse
stata funestata dalle continue invasioni dei popoli stranieri avrebbe
sicuramente raggiunto in breve tempo una sua graduale e armoniosa unità.
Le premesse per ambire ad un progetto unitario
partendo dal basso, dalle particolarità locali, erano ottime: una stessa
lingua volgare, la protezione naturale delle Alpi e del mare, nuove infrastrutture
di collegamento, necessità di intensificare e favorire gli scambi
commerciali e gli spostamenti da una città all’altra e da una
regione del sud ad una del nord. Senza la scocciatura degli spagnoli, dei
francesi, degli austriaci e dei lanzichenecchi vari, l’Italia non avrebbe avuto
bisogno di Garibaldi per essere una ed indivisibile, perché possedeva già in
germe da secoli se non millenni una sua precisa identità etnica, storica ed
ambientale.
In Europa invece in questi giorni, e molto
probabilmente per tutti i prossimi mesi, si sta tentando di imporre dall'alto
una forzatura culturale, politica ed economica che non ha precedenti
nella storia dell’uomo: popoli dalle lingue, dalle abitudini, dalle
tradizioni, dallo spirito, dal clima, dal colore della terra e del cielo
completamente diversi devono essere con bieca ostinazione obbligati a stare
insieme per massimizzare i profitti privati di una risicata minoranza e socializzare
le perdite pubbliche, che per forza di cose sono ingentissime e
generalizzate, alla stragrande maggioranza della popolazione.
Nemmeno l’Impero Romano era mai arrivato
fino a tanto con l’ambizione e la follia di dominio, perché oltre ad un console
ed un’agguerrita guarnigione di soldati che avevano il compito specifico di
riscuotere i tributi, ai popoli dei territori conquistati veniva lasciata ampia
libertà di mantenere le proprie lingue, le proprie tradizioni, le proprie
monete, le proprie culture ancestrali: dividi et impera era il
motto dei saggi romani, non unisci e distruggi (sottinteso, la convivenza
pacifica fra i vari popoli).
A nessun imperatore romano, nemmeno al più
squinternato dei Caligola o spietato dei Nerone, era mai venuto in mente di
imporre la lingua, la cultura, e persino le leggi promulgate dal senato romano
in Gallia, o in Tracia, o in Palestina. Sarebbe stato come gettarsi la zappa
sui piedi, fomentando tensioni o ribellioni inutili laddove invece doveva
regnare l’ordine e la disciplina dell’Impero, per consentire ai popoli
conquistati di lavorare e produrre profitti per i conquistatori.
Ma possiamo andare ancore oltre, fino alla
religione e ai suoi misteri. Basta invertire il senso di un noto ammonimento
biblico per ritrovare una legge di natura incontestabile: “non osi
unire l’uomo ciò che Dio ha diviso”, perché ci sarà un motivo per cui in
natura esistono ghepardi, gazzelle, cavalli, cammelli, elefanti, tartarughe,
bradipi e i primi non potranno mai unirsi o accoppiarsi con i secondi, i terzi,
gli ultimi.
A parte il mulo o il bardotto (guarda caso
razze sterili), i casi di ibridismo fra gli animali sono veramente rari
e nonostante tutti gli esperimenti di ingegneria genetica, è chiaro che
proseguendo su quella strada l’uomo potrà incorrere soltanto in disastrosi
insuccessi, dato che la natura sa già in anticipo e molto meglio di lui cosa
serve per la sua stessa sopravvivenza. Serve innanzitutto la varietà, la
molteplicità, la biodiversità, perché l’armonia non si crea
dall’unione indistinta e raffazzonata di elementi inconciliabili, ma solo
attraverso lo scontro dinamico e la successiva sintesi di fattori diversi,
opposti e spesso complementari.
Ma veniamo adesso al motivo per cui nel
preambolo di questo articolo si parlava di Rinascimento e di cartografi
italiani in particolare.
Tutte le considerazioni fatte fin qui derivano
dal senso di profonda indignazione e sconcerto provato dopo la lettura
di un’intervista del Sole24ore ad uno
dei maggiori padri fondatori italiani dell’eurozona, Romano Prodi, che
fra una scemenza e l’altra sul progetto mistico e totalitario degli Stati
Uniti d’Europa a cui credono soltanto i fanatici e allampanati militanti
della sinistra, esordiva così: “In questa fase il sostegno più grande
dell'Europa è l'istinto di sopravvivenza. Di sopravvivenza dell'Europa, non dei
singoli Paesi, perché solo l'Europa vuol dire sopravvivenza. Senza Europa
nessuno sopravvive. Siamo come gli Stati italiani del Rinascimento che,
non unendosi tra loro, hanno cancellato l'Italia dalla carta geografica
per secoli.”
Ora a parte, che come abbiamo già detto
l’Italia nel Rinascimento non era affatto scomparsa dalla carta geografica del
mondo ed era anzi un crocevia obbligato, un polo di attrazione culturale e
commerciale di importanza strategica fondamentale, ma come facevamo ad
essere cancellati dalle cartine geografiche se le cartine le disegnavamo noi?
Potevano mai i nostri cartografi, che erano i migliori del mondo, dimenticarsi
di inserire l’Italia nelle loro mappe?
Per chi non avesse ancora capito il senso di
queste domande, tentiamo di spiegarlo così: come fa una nazione, un territorio,
una comunità, una razza a scomparire se ha ancora tutte le risorse umane e
ambientali e le potenzialità necessarie non solo per disegnarsi le proprie
carte geografiche e toponomastiche, ma anche per costruirsi le proprie strade,
gli aeroporti, le darsene, le scuole, le linee digitali, telefoniche, le navi,
le macchine, i campi da coltivare e gli uffici dell’anagrafe.
Quanto idioti bisogna essere per credere che
una nazione possa scomparire solo perché decide di non accettare più un accordo
monetario bislacco e insostenibile? Ma soprattutto quanta malafede e
impudicizia morale ci vuole per mentire così spudoratamente nel tentativo di
spaventare la gente?
Non ci sono parole per descrivere certe
devianze della coscienza umana, ma per necessità bisogna trovarle perché questo
è un attacco frontale alla nostra intelligenza.
Dire che l’Italia rischia di essere tagliata
fuori dal mondo solo perché rifiuta di utilizzare una moneta straniera, l’euro-marco,
all’interno dei propri confini nazionali come unica moneta a corso legale,
è come dire che l’Argentina doveva scomparire dopo avere interrotto
l’aggancio rigido al dollaro nel 2001 oppure che la Cina, un miliardo e
passa di abitanti, si evapora nell’etere tutta intera qualora decidesse un
giorno di sganciarsi anche lei dal dollaro.
Eppure
come tutti sappiamo (o meglio come cercano in tutti i modi di non farci sapere)
l’Argentina è sempre lì con i suoi pozzi petroliferi, la sua banca centrale
pubblica, la sua moneta, le sue piccole cooperative autogestite, i suoi campi
di soia, la sua pampa, la Plaza de Mayo di Buenos Aires. L’Argentina è viva e
vegeta e continua a crescere economicamente e a prosperare grazie ad un aumento
sostenuto della domanda interna, ad una bilancia commerciale con
l’estero in equilibrio, ad una lotta feroce alla povertà e alla
disoccupazione, ad un controllo dell’inflazione giustamente alta
(intorno al 10%, non di più) in un periodo di forte ripresa ed espansione come
questo.
Tutte le decisioni riguardo ai regimi
monetari, in particolare la scelta di adottare un cambio
fisso con una moneta forte straniera, non hanno quasi mai stringenti motivazioni
economiche sottostanti (anzi sono in genere economicamente sconvenienti,
perché limitano in modo drastico l’autonomia e la gestione della propria
politica economica e monetaria), ma sono indirizzate a raggiungere precisi
scopi di carattere politico, come quello di dare un’immagine di maggiore
stabilità finanziaria e disciplina di bilancio agli occhi degli
osservatori internazionali, che potrebbe poi favorire l’arrivo nel breve
periodo di capitali e investimenti esteri. Il paese si mette in
ghingheri e apre le porte agli stranieri, perché ha politicamente deciso di non
potere più andare avanti con le proprie forze.
Ripetiamo, è una decisione politica di una classe
dirigente che ha una brutta opinione di se stessa e si reputa altamente
incapace nella conduzione interna del proprio paese e sceglie volontariamente
di legarsi ad un vincolo esterno per autocensurarsi.
Mentre è bastato, come per esempio nel caso
dell’Argentina, cambiare classe dirigente, riprendere il controllo della
propria moneta e della banca centrale per far ripartire la macchina
degli investimenti pubblici e dei centri per l’impiego, e il paese nel giro di
pochi anni ha avuto un riscatto economico senza precedenti.
Il caso dell’Argentina è molto
significativo perché somiglia per diversi aspetti a quello dell’eurozona.
Dopo la scelta presa dalla presidenza Menem,
nella persona del ministro dell’economia Cavallo (foto sopra), di
ancorare nel 1991 il peso argentino al dollaro, con una parità di cambio 1:1,
supportata dal pretesto di combattere l’inflazione galoppante del paese (maggiore
indice della corruzione, dell’incompetenza e dell’incapacità di una classe
dirigente di governare efficacemente le proprie finanze), si ebbe un periodo
di forte espansione economica trainata soprattutto dall’arrivo di capitali e di
investimenti esteri. Questa abbondanza di capitali stranieri a buon mercato
nel paese favorì il ricorso alle importazioni a danno delle esportazioni,
creando un grosso squilibrio nella bilancia commerciale con l’estero e
deprimendo il tessuto produttivo locale, che anno dopo anno cedeva
rapidamente il passo ai mastodontici gruppi multinazionali americani ed
europei che sbarcavano alla spicciolata in terra argentina.
Finché i deficit delle partite correnti
venivano coperti dagli afflussi di nuovi capitali il circolo vizioso che finiva
per indebitare anno dopo anno con l’estero sia il settore pubblico che
privato del paese poteva continuare indisturbato, ma come tutte le cose
instabili ed intrinsecamente squilibrate si arriva sempre ad un punto di
rottura, che per l’Argentina corrisponde pressappoco all’anno 1998.
Da quel momento in poi, a causa del contagio e dello spauracchio della crisi
delle borse asiatiche del 1997, comincia a crollare inesorabilmente la
fiducia degli investitori esteri nella capacità degli argentini di ripagare
tutti i loro debiti e i famosi capitali stranieri, che ancora oggi molti tamburini
della propaganda invocano spesso come soluzioni definitive ai mali di un
paese, prendono la via della fuga.
Nel giro di pochi giorni o settimane si assiste
ad un incremento inarrestabile dei tassi di interesse da corrispondere
ai potenziali acquirenti di titoli pubblici e privati argentini per attirare
nuovi capitali, ma in questo modo si innesca un vorticoso avvitamento del
debito che continua a lievitare invece di diminuire. Il rischio
sistemico di insolvenza del paese comincia a prendere forma ed è in questo
periodo che inizia la cura dell’austerità per limitare le importazioni,
reperire internamente nuovi fondi tramite un aumento sproporzionato della
pressione fiscale e dimostrare agli investitori stranieri la buona volontà del
popolo argentino di rimborsare tutti i debiti contratti in passato.
Ma come ormai abbiamo sperimentato sulla nostra
stessa pelle, l’austerità produce subito un calo dei consumi e degli
investimenti, aumento della disoccupazione, fuga di capitali
esteri e domestici, caduta del prodotto interno lordo, causando in
pratica più danni che reali benefici all’economia del paese. Gli effetti
recessivi inevitabili determinano progressivamente maggiori difficoltà nel
rimborso dei debiti accumulati, maggiore rischio sistemico e interessi sempre
più alti fino a quando il paese è costretto ad alzare bandiera bianca e
dichiarare default
. Questo periodo di profonda recessione e
austerità per l’Argentina è durato ben tre anni, dal 1998 al 2001, anno in cui
venne di fatto reso necessario lo sganciamento del peso dal dollaro e il paese
rinegoziò il debito per porre le prime basi del suo successivo rilancio.
In ogni singolo stato della periferia
dell’eurozona è avvenuto in pratica lo stesso processo di espansione e
accumulazione di debito estero dal 2000 al 2007, che però dopo lo scoppio
della crisi nel 2008 è stato risolto in un modo totalmente diverso, perché a
differenza dell’Argentina queste nazioni fanno parte di un’unione monetaria,
che per quanto anomala e sbilanciata fornisce un grado di tutela superiore
ai singoli stati membri (almeno per quelli strategicamente più influenti):
nei paesi di scarsa rilevanza politica ed economica (Irlanda, Portogallo
e Grecia) sono stati necessari gli aiuti
internazionali di FMI e UE, mentre quando il contagio è arrivato a Spagna
e Italia è intervenuta direttamente la BCE per rifinanziare a
lungo termine le banche in difficoltà di questi paesi (due operazioni
LTRO da circa €1000 miliardi, di cui quasi la metà ad istituti spagnoli ed
italiani).
Non appena è terminato l’effetto delle operazioni
non convenzionali di rifinanziamento della BCE, anche la Spagna ha dovuto
provvedere al salvataggio
in extremis di €100 miliardi delle sue banche tecnicamente
fallite perché le operazioni ordinarie della BCE non bastavano più a
rimarginare la falla della doppia crisi di liquidità e solvibilità.
Tuttavia se la BCE può in un certo senso e fino
ad un certo limite garantire la solvibilità del debito privato denominato in
euro essendo il monopolista di emissione di una moneta ancora forte
a livello internazionale e il prestatore di ultima istanza per tutte le
banche commerciali, nulla può fare invece per statuto per assicurare la sostenibilità
del debito pubblico, sia quello posseduto dagli investitori nazionali che
stranieri.
Il default quindi per gli stati
dell’eurozona può avvenire solo per insolvenza sul debito pubblico e non per
incapacità di rimborsare il debito estero e domestico privato, come è
accaduto all’Argentina, che fra l’altro non avendo pieno controllo della moneta
e della banca centrale poteva rimborsare senza difficoltà solo quella parte di
debito pubblico denominato in valuta nazionale (aprendo però crepe e dubbi
sulla possibilità di convertibilità alla pari con il dollaro), ma non quello
denominato in valuta estera, dato che nella fase più acuta della crisi la banca
centrale aveva già bruciato tutte le sue riserve di moneta straniera.
Nonostante la recessione aggravata dalle
solite peggiorative misure di austerità si sia già abbattuta su tutta la fascia
periferica dell’eurozona, la BCE è riuscita ad allungare fino a quattro anni
(superando quindi il precedente record di tre anni dell’Argentina) l’agonia
del malato terminale, in attesa che gli europeisti indefessi riescano a
trovare un accordo sulle soluzioni politiche da attuare. Soluzioni politiche e
non economiche o monetarie, perché economicamente parlando il progetto
dell’eurozona è già bello che fallito, o meglio era già fallito ancora
prima di iniziare, perché non prevedeva clausole decenti per rispondere ai
cosiddetti shock
asimmetrici permanenti o anche solo temporanei (ovvero
casi in cui un settore produttivo o un intero paese va in crisi e un altro,
vedi la Germania, continua invece ad espandersi e a crescere).
La moneta unica che doveva essere lo strumento
capace di rendere competitiva l’eurozona nei confronti delle grandi potenze
tradizionali o emergenti (Stati Uniti, Giappone, Cina, Brasile, Russia) ha
finito invece per accentuare tutte le fragilità e debolezze interne del
vecchio continente, perché non si può andare in guerra mettendo insieme alla
rinfusa cavalli, elefanti, cammelli, meravigliandoci poi che i cavalli tedeschi
siano rimasti da soli nelle avanguardie, mentre gli elefanti italiani o i
cammelli spagnoli siano isolati indietro nelle retrovie.
Gli sciamannati progettisti dell’eurozona,
fra cui lo stesso Romano Prodi,
dovevano prevedere simili conseguenze, eppure non solo non hanno mai avuto
l’accortezza di stabilire delle contromisure compensative fra i vari
paesi dell’unione monetaria, ma non hanno nemmeno avvisato il popolo sulle
uniche vere soluzioni drastiche alle crisi asimmetriche: l’emigrazione
interna dai paesi in deficit a quelli in surplus (resa complicata dalle
differenze linguistiche e culturali) e la riduzione dei salari e delle
tutele sindacali come unico fattore di rilancio di un’economia martoriata.
Oltre a questi elementi, uniti al solito fatalistico
arrivo dei capitali e investimenti esteri (che sappiamo già quali effetti
devastanti di indebitamento estero provocano se utilizzati oltre un certo
dosaggio), non c’è più nulla che uno stato prima indipendente e autonomo nelle
scelte di politica economica può fare per attenuare le drammatiche e dolorose
contorsioni provocate dalla disoccupazione e dalla recessione.
Lo stato è assente, inerte, perché imbrigliato
ad inseguire inutili e deleterie politiche di disciplina fiscale e pareggio
di bilancio, attraverso affannosi tagli alla spesa e al patrimonio pubblico
e aumenti delle tasse.
In buona sostanza lo stato non può immettere
nell’economia un euro in più rispetto a quello che preleva con le imposte (anzi
è costretto ad accumulare avanzi primari per rimborsare i debiti pregressi) e
pretende però che l’economia riparta da sola tramite la sua stessa capacità
di indebitarsi illimitatamente per produrre reddito e profitti adeguati sia
al rimborso dei debiti che alla remunerazione del capitale investito.
Se esaminiamo l’ultimo decreto sviluppo
presentato la scorsa settimana dal ministro Passera, che secondo le
stime della Ragioneria dello Stato mobiliterà all’incirca €70-80 miliardi,
vedremo che non c’è un euro di stanziamento aggiuntivo da parte della pubblica
amministrazione ma solo apposizioni di garanzie su strumenti finanziari
particolari, i cosiddetti project bond, che servono a finanziare a
debito tramite la raccolta di fondi obbligazionari le piccole e medie imprese,
le infrastrutture, le innovazioni energetiche e digitali, le opere pubbliche ed
edilizie.
Insomma siccome le banche non erogano più
credito all’economia reale a causa delle pessime condizioni e aspettative di
mercato, lo stato si sostituisce alle banche inventandosi degli strumenti
per recuperare risorse e veicolare i risparmi, che in mancanza di un flusso di
cassa degli investimenti sufficiente a coprire le varie scadenze delle
obbligazioni emesse, andranno a gravare sul debito pubblico, ovvero sempre
sulle tasche dei cittadini.
Lo stato in pratica si assume il rischio di
impresa per conto dei cittadini e preleva soldi dai contribuenti per
spostarli nel settore produttivo, sperando poi che i contribuenti recuperino
per magia fiducia, propensione al consumo e soprattutto altri
soldi per acquistare i nuovi beni e servizi prodotti. In caso contrario, sarà
necessario prevedere nuove tasse per rimborsare i project bonds, che faranno
concorrenza ai titoli di stato e saranno indistinguibili da questi ultimi, e
via di corsa verso un’altra spirale recessiva.
Preso atto della comprensibile astenia degli
investimenti privati, lo stato si sta impegnando per smuovere un po’ le
acque e rimettere in moto i pistoni arrugginiti del settore produttivo.
Ma come
sempre accade nella prassi neoliberista tanto cara agli eurocrati di
nuova o vecchia generazione, si lavora solo sul versante dell’offerta ma
mai su quello della domanda: se da un lato si creano le condizioni per
aumentare la quantità dei beni e servizi offerti, dall’altro non ci si chiede
mai chi, come, quando potrà assorbire questo nuovo incremento produttivo,
lasciando eventualmente alle scorte di magazzino il gravoso compito di
rispondere a questa scottante domanda.
Una visione ovviamente miope tipica dei
banchieri e non degli imprenditori e non a caso gli esponenti del nostro
attuale governo provengono quasi tutti dal mondo della finanza, a cui bene o
male andranno a finire i proventi derivanti da questo metodo raccapricciante
di curare la malattia del debito formando altro debito. Sempre a spese dei
contribuenti, ovviamente.
Ma cosa si può fare dunque per uscire dalla
spirale recessiva? La sinistra italiana, influenzata dai soliti
volponi neoliberisti vicini agli ambienti della finanza come Prodi, D’Alema,
Bersani, Fassino e corroborata dalla stampa di regime (Repubblica, Corriere,
Stampa e Sole24ore), non ha dubbi: bisogna creare gli Stati Uniti d’Europa.
L’eldorado, lo shangri-la, il mondo dei sogni,
l’utopia. Ogni volta che ai farlocchi militanti di sinistra viene ripetuta
meccanicamente questa prospettiva, gli occhi si illuminano di gioia, i brividi
attraversano tutta la schiena, una vibrante energia tonifica il corpo. Saremo
tutti fratelli, balleremo intorno ai falò intonando le musiche degli
Intillimani, vivremo nella pace e nella solidarietà universale insieme ai
compagni tedeschi, francesi, spagnoli: niente più guerre, niente più
sfruttamento, niente più povertà. Non ci saranno più confini, bandiere,
differenze di razza, religione, civiltà. Parleremo tutti la stessa lingua,
leggeremo gli stessi giornali, guarderemo gli stessi programmi televisivi.
Avremo tutti gli occhi azzurri, i capelli biondi e saremo alti più di un metro
e ottanta. Benvenuti nel futuro. Questi sono gli Stati Uniti d’Europa.
Peccato però che i navigati politici di
Botteghe Oscure non raccontano tutto il resto, il lato oscuro della luna,
ai loro fedeli seguaci, allo zoccolo duro dell’elettorato che vota ciecamente sinistra senza mai chiedersi cosa significa votare
sinistra, e PD in particolare, oggi in Italia. Non dicono mai che a pagare
i costi di questo ulteriore passo in avanti nel fallimentare progetto
europeista saranno proprio loro, la classe operaia, i dipendenti pubblici, gli
insegnanti, i professori, i pensionati che dovranno accettare riduzione di
salari, diritti, tutele, tagli alla spesa pubblica e sociale, aumento della
tassazione, mobilità, licenziamenti.
E tutto questo perché? Perché la nostra classe
dirigente è indecente, incompetente e corrotta, come quella dell’Argentina
ai tempi di Menem e de la Rua, e non vuole farsi carico di governare il nostro
paese per il benessere diffuso della cittadinanza, ma preferisce di gran lunga
attaccarsi al vincolo esterno, della moneta unica prima e degli Stati Uniti
d’Europa adesso (che in estrema sintesi non sono altro che le istituzioni
sovranazionali e non democraticamente legittimate che hanno sede a Bruxelles),
per lasciarsi guidare e vivere di rendita.
Ma perché mai un D’Alema o un Bersani dovrebbe
prendersi la responsabilità di traghettare l’Italia fuori dall’eurozona,
passando per i marosi della svalutazione (20% circa) e dell’instabilità
politica e sociale? Non è meglio tenersi ben stretti i privilegi della
moneta forte, lasciando pagare i costi agli stolti elettori?
Elementare, Watson. Nessun politico sano di mente, a meno che non
sia animato da un amor di patria integerrimo e da uno spirito di servizio
inossidabile, sarebbe disposto ad accollarsi gli oneri del difficile governo di
una nazione, quando in alternativa gli si offre sul piatto d’argento la
possibilità di speculare alti profitti senza muovere un dito (o meglio,
utilizzando il dito soltanto per premere i pulsanti degli scranni del
parlamento al passaggio di nuovi decreti legge o ratifiche di direttive
europee).
Che siano i tecnocrati, i burocrati,
i banchieri a governare, tanto loro sanno meglio di tutti come far
fruttare i soldi per il benessere della casta e il danno della moltitudine di
oppressi.
Il ruolo del politico, oggi come oggi, è solo
quello di inventare nuove illusioni e buttare fumo negli occhi di coloro che
sono più disposti a farsi turlupinare.
Ieri il ritornello diceva che con la moneta
unica gli italiani sarebbero diventati efficienti come i tedeschi e oggi,
invece si è fatto un salto acrobatico di fantasia, perché con gli Stati
Uniti d’Europa, gli italiani saranno essi stessi tedeschi, francesi,
spagnoli, europei. Punto.
Ma quali sono i passaggi concreti per
arrivare a questi fantomatici Stati Uniti d’Europa? Fondamentalmente due: ampliare
i poteri della BCE per farla diventare come la Federal Reserve americana e introdurre
gli eurobonds per socializzare il debito pubblico europeo.
Con il
primo passaggio si eliminerebbe il difetto d’origine dell’eurozona rendendo
solvibile il debito pubblico e con il secondo si cercherebbe di equiparare i
rendimenti dello stesso debito pubblico fra i paesi in surplus che pagano bassi
interessi e i paesi in deficit che sono invece strozzati dagli alti interessi.
In questo modo sia i tecnocrati che i politici
di professione si assicurerebbero ancora qualche anno in più di vita agiata, ma
poco o nulla invece verrebbe fatto a livello centralizzato per consentire ai paesi
in deficit di recuperare competitività nei confronti di quelli in surplus,
perché gli squilibri macroeconomici (differenziali di inflazione, scarsa
mobilità dei lavoratori, movimenti pro-ciclici dei capitali privati, che
abbondano nei periodi di espansione e fuggono in quelli di contrazione) che in
soli dieci anni hanno causato questa disparità di condizione fra i paesi del
centro e quelli della periferia rimarrebbero tali e quali.
E come potrebbero altrimenti? Come
potrebbe un cavallo tedesco diventare un elefante italiano e viceversa?
Semplicemente non può e quindi tanto vale concentrarsi ad alleggerire gli
effetti finali della crisi ed ignorare le cause iniziali che
condanneranno l’intera eurozona per tutto il tempo che rimarrà in piedi
(speriamo poco) a passare da una crisi, ad un’espansione, ad una nuova crisi
senza soluzione di continuità.
Se con i nuovi più severi parametri di
unificazione, incluso il passaggio della gestione dei bilanci pubblici
nazionali a livello sovranazionale per garantire il rispetto della regola
aurea del pareggio di bilancio, si ristabilirà sui mercati quel senso di
fiducia che aveva favorito l’afflusso massiccio di capitali in Europa sia
dall’interno che dall’esterno, niente esclude che presto o tardi si ricreeranno
le condizioni per avere di nuovo sbilanciamenti strutturali fra paesi in
surplus e paesi in deficit delle partite correnti, che dovranno affrontare
ancora una volta la gogna della recessione, della disoccupazione cronica e dei
piani di salvataggio internazionali per rimborsare i debiti esteri
accumulati.
La BCE potrà pure impedire con i suoi più ampi
poteri di prestatore di ultima istanza i problemi di insolvenza sia per il
settore pubblico che privato, ma questi debiti prima o dopo andrebbero pagati e
sarebbero sempre le fasce più deboli della popolazione a sobbarcarsi l’onere
del rimborso.
Fino a prova contraria, in tutti gli sproloqui
che si fanno al giorno d’oggi intorno agli Stati Uniti d’Europa, si parla
sempre poco dell’unica misura che renderebbe più sostenibile e meno dolorosa
per la cittadinanza la costruzione del progetto unitario: un meccanismo
automatico e permanente di trasferimento dei capitali pubblici dai paesi in
surplus a quelli in deficit, così come avviene fra gli stati americani, fra il
nord e sud Italia, fra i lander tedeschi e così via.
Ma perché non se ne parla mai? Perché
non dobbiamo mai dimenticare che l’eurozona è stato un progetto voluto,
caldeggiato e sponsorizzato dai grandi banchieri e imprenditori europei a
loro personale uso e consumo, e questi ultimi i soldi li fanno indebitando la
gente e le nazioni, sfruttando le loro risorse umane e naturali, accaparrandosi
i loro patrimoni pubblici attraverso svendite all’ingrosso (a proposito, si
guardi l’ultima grande operazione di saldi di fine stagione del governo
Monti che ha messo in vendita le sue partecipazioni in Fintecna, Sace e
Simest), ed evitando con cura l’introduzione di strumenti di movimentazione
indolore di capitali e meccanismi di redistribuzione dei redditi
all’interno di una specifica area monetaria, che limitino in qualche modo il
ricorso all’indebitamento di massa.
I grandi profitti si fanno laddove
esistono grandi squilibri, elevate fluttuazioni di rendimento,
condizioni di stress finanziario, bolle speculative, arbitraggio, forti
espansioni e contrazioni, precariato diffuso della manodopera, massicce
concentrazioni di capitali e di posizioni dominanti monopolistiche e non quando
si creano le premesse di una duratura ed equilibrata stabilità, che non prevede
fiammate improvvise o spericolate decelerazioni.
Lasciare, come è accaduto nell’eurozona, che
siano soltanto i capitali privati ad orientare gli investimenti e
neutralizzare la capacità anti-ciclica di spesa a deficit dello stato,
significa rassegnarsi all’instabilità eterna, alle oscillazioni catastrofiche
del valore dei beni reali e finanziari, all’inesorabile alternanza fra periodi
di incredibile espansione artificiale e lunghe trafile di profonda recessione
reale. Questo volevano da sempre gli eurocrati e grazie alla complicità della
politica, della stampa, della massa stolta, il loro progetto di ammassare
alla rinfusa tutti i popoli europei per creare un clima di tensione
sociale e conflitto perenne è giunto oggi ad un ottimo stato di avanzamento.
Nel mondo ideale che non esiste e non esisterà
mai i cavalli dovrebbero invece fare i cavalli, sfruttando la loro velocità,
gli elefanti dovrebbero puntare sulla possanza e i cammelli sulla resistenza.
Se cavalli, elefanti e cammelli decidono per una strampalata idea di mettersi
d’accordo per fare gruppo e procedere insieme, è chiaro che i cavalli dovranno
sacrificare parte della loro velocità, gli elefanti devono sveltire il passo e
i cammelli dovranno aspettare gli altri quando questi ultimi saranno stanchi.
Mentre se i cavalli pretendono che elefanti e cammelli siano rapidi e scattanti
come loro, è chiaro che nasceranno subito attriti e frizioni all’interno del
gruppo e lo spirito di squadra andrà a farsi benedire. Con buona pace di
chi pensa che si debba per forza preferire la compattezza monolitica
dell’unità, rispetto all’armoniosa composizione di note e andature
diverse da cui scaturisce il vero miracolo della natura e il
capolavoro sinfonico dell’universo.
Riportando questa immagine alla sfera
macroeconomica, è evidente che l’unico modo per evitare tragici scontri fra
popoli e culture diverse sia quello di lasciare che ogni paese si sviluppi
seguendo i propri ritmi produttivi, sfruttando le risorse e potenzialità
del proprio territorio, valorizzando le caratteristiche e competenze
acquisite dei propri abitanti e applicando scelte discrezionali di
politica economica che meglio si adattino all’andamento congiunturale dei
propri indici di prestazione (in particolare inflazione, disoccupazione, saldo
delle partite correnti con l’estero).
Inutile ripetere che l’unico modo per
raggiungere meglio e gradualmente questi obiettivi sia quello di tenersi ben
strette sia la propria moneta
sovrana che la proprietà
pubblica della banca centrale, in quanto la libera fluttuazione
di cambio della moneta sui mercati permette di compensare automaticamente,
tramite gli spontanei processi di apprezzamento e deprezzamento, eventuali
squilibri della bilancia dei pagamenti con l’estero senza procedere a
difficoltosi aggiustamenti di salari e prezzi domestici (svalutazione
interna), mentre il controllo statale della banca centrale di emissione
e della politica monetaria consente al governo di agire con un ampio spettro di
possibilità nella stesura di piani pluriennali di investimento in
infrastrutture e formazione, programmi di piena occupazione, efficaci
ed eque politiche di spesa e tassazione, progetti di sviluppo
sostenibile, speranze di migliore redistribuzione dei redditi.
Stiamo parlando ovviamente di un mondo ideale
guidato da una classe dirigente illuminata e non del mondo reale di oggi
in cui affaristi, faccendieri e cialtroni di tutte le nazionalità (italiani,
greci, tedeschi, spagnoli etc) si divertono a vendere ai poveri sventurati e
allocchi che ancora li stanno a sentire illusioni di eldorado magnifici che
vanno contro i loro stessi interessi di lavoratori e cittadini e nascondono
spesso goffamente evidenti tendenze autoritarie e antidemocratiche.
Il re è nudo, ma i sudditi preferiscono
ammirare le stelle o volgere lo sguardo altrove per paura delle ritorsioni.
Questi sono gli Stati Uniti d’Europa:
accomodatevi gente, e mettetevi in fila ordinata per la tosatura e per la
marchiatura, perché il gregge deve rimanere unito, compatto e ben riconoscibile
agli occhi del pastore. Se qualcuno scalpita e alza la testa per farsi sentire,
abbiamo bastoni e carote all’occorrenza e i fedeli cani sentinella della
propaganda di regime che faranno la voce grossa a comando per zittirli.
Se pensate che questo mostro giuridico in cui
siamo stati imprigionati sia stato costruito allo scopo di farci vivere sereni
e tranquilli, in pace ed armonia, vi sbagliate di grosso, perché l’obiettivo è
esattamente il contrario: i tedeschi devono odiare gli italiani, i portoghesi
devono sentirsi in competizione con gli spagnoli, i greci devono fare
concorrenza agli irlandesi. Solo così riusciranno a spremerci per bene fino
all’ultima goccia.
Agli ultimi fessi che credono ancora nel sogno
di fratellanza universale (bellissimo, per carità, ma impossibile da
raggiungere con la dittatura economica e politica a cui siamo stati
sottomessi), consiglio di leggere con attenzione i commenti dei
lettori tedeschi alla lettera
aperta inviata dal direttore del Sole24ore Roberto
Napoletano ad Angela Merkel, per spiegargli le meraviglie degli
Stati Uniti d’Europa verso cui l’inflessibile cancelliera più volte si è
mostrata riluttante, per paura di essere linciata dal proprio elettorato. Ecco
un breve saggio dei commenti, che sono stati recuperati prima di essere
cancellati e censurati dal sito del Sole24ore, perché contrari allo spirito
unitario di propaganda con cui si muove la stampa italiana oggi:
“A guardare l'insolenza con cui si assegna
alla Germania una responsabilità rispetto alla cattiva gestione economica e
alle montagne di debiti di altri Paesi, dovrebbe diventare chiaro anche
all'ultimo euroromantico, che la fuoriuscita della Germania da questa
euroillusione non ha alternative”.
“Caro italiano! Minacce ed estorsioni non
possono fornire alcun fondamento all'Europa. Non avete più alcun orgoglio, voi
meridionali? Mentire, mendicare, minacciare… nient'altro sapete fare. Che ne
direste invece di pagare le tasse e lavorare?”
“Gli italiani hanno accumulato un patrimonio
privato del 175 % del Pil, i tedeschi "solo" del 125%. Bisognerebbe
guardare a casa propria prima di rivolgersi al vicino per aiuto. Incomincio ad
averne abbastanza dell'Europa.”
“A quanto pare l'Euro da fondamento di pace
si sta trasformando in strumento guerrafondaio! Quei Paesi che hanno
affastellato debiti su debiti stanno ora sfacciatamente chiedendo che la
Germania gentilmente si comporti in maniera "solidale". Quanta
solidarietà vorrebbero? Che SFACCIATAGGINE!”
“Bisogna fare saltare in aria l'euro, con
tutto quel che si scatena. Sono per un'Europa di Stati sovrani, ognuno con le
sue ricchezze e i suoi debiti”
Alla faccia della fratellanza. E
soprattutto alla faccia dell’opinione pubblica europea, che non c’è, non
c’è mai stata e non ci sarà mai.
Malgrado siamo stati tragicamente impelagati
nella stessa sorte, dobbiamo renderci conto che le classi dirigenti di ogni
paese continueranno a seguire le indicazioni dei propri organi di
informazione e propaganda, secondo quelle che sono le convenienze nazionali
del momento.
Se i miserabili politicanti e scribacchini
greci, spagnoli, italiani puntano tutto sugli Stati Uniti d’Europa perché
incapaci di governare e smaniosi di tenersi in tasca e in cassaforte la loro
bella moneta forte, i tedeschi vanno in tutt’altra direzione, perché
sono consapevoli di potere continuare a camminare sulle loro gambe e contrari a
cedere parte dei benefici acquisiti con la cancellazione dei meccanismi di
aggiustamento di cambio della moneta.
Le uniche vere speranze per assistere alla
fine dell’incubo dell’euro sono riposte quindi sulla Germania,
mentre poco o nulla può arrivare dalla Grecia, la cui capacità di
influenza a livello comunitario è zero e fra l’altro ha già optato come
facilmente prevedibile per un nuovo governo pro-euro.
I miserabili una volta che hanno conosciuto un
barlume di ricchezza vivono nel panico di poterla perdere e preferiscono andare
incontro ad umiliazioni e sofferenze atroci piuttosto che ritornare alla
miseria certa del passato, che paradossalmente è l’unico viatico obbligato per
sperare in un pronto riscatto. Mentre i ricchi, abituati da anni ad un tenore
di vita agiato e dignitoso, non ci pensano neppure a rinunciare ad alcuno dei
propri privilegi e sono disposti a cambiare le carte in tavola in qualsiasi
momento pur di mantenere intatta la propria ricchezza.
Il futuro dell’euro si gioca dunque in
Germania, mentre in Italia così come in Spagna o in Grecia possiamo
tranquillamente trastullarci con le panzane illusorie da quattro soldi degli
Stati Uniti d’Europa, che ci cantiamo e suoniamo da soli.
Tutti sanno che è così, direttori di giornale,
ministri, segretari di partito, sindacalisti, persino Prodi sa che la sua
stessa faccia e credibilità dipende dai tedeschi e in ogni occasione
disponibile si affanna per spiegare che l’euro ha apportato e apporterà
vantaggi solo alla Germania, mentre non ha mai speso una parola sui costi
(molti) e benefici (pochi) che ha arrecato agli italiani:
“Bisogna spiegare alla Germania che anche un
euro a due velocità non converrebbe all'export di Berlino. L'euro tedesco
avrebbe un tasso di cambio rispetto all'euro italiano non a 1,20, ma a 2,20: si
innescherebbe una competizione feroce nelle esportazioni fuori Europa e la
Germania perderebbe immediatamente competitività nelle esportazioni verso di
noi. I tedeschi devono persuadersi che l'Europa è un vantaggio anche per loro.”
Memorabile anche il video di ecodellarete
riportato sotto in cui il professore di economia, laureato in giurisprudenza,
illustrava davanti ad una platea allibita di giornalisti in che modo i tedeschi
sono riusciti ad accumulare surplus commerciali e ricchezza con la moneta unica
sulle spalle dei paesi più deboli della periferia, Italia compresa, che prima
potevano contare sulla svalutazione della moneta nazionale per essere più
competitivi mentre adesso sono praticamente spacciati.
Come lo
spiega Prodi di avere fregato tutto il popolo italiano con la frettolosa
operazione di ingresso nell’euro ad esclusivo vantaggio dei tedeschi non lo
spiega nessuno, perché nessuno in verità può illustrare la scena di un
crimine meglio del criminale stesso.
E che Prodi sia un criminale, al pari se
non più del suo compagno di merende milionarie confezionate dalla Goldman Sachs
Monti, non sarò certo io il primo o l’ultimo a dirlo, ma è già la storia a
confermarlo.
Per la cronaca, il professore Prodi tiene
attualmente regolari lezioni di economia ai quadri dirigenti del partito
comunista cinese, a conferma ulteriore che la sua indole è quella del mercenario,
senza patria e senza valori, a parte il prezzo a cui di volta in volta decide
di vendersi al migliore offerente.
Se veramente il suo obiettivo politico era
quello di far entrare l’Italia in un consesso più importante per renderla in
grado di competere economicamente con la Cina, non si spiegherebbe il motivo
per cui adesso si sia messo ad insegnare al nostro ipotetico nemico i segreti
per annientarci.
Non sarà forse che il suo vero obiettivo non
era né l’uno né l’altro?
Forse Prodi è un uomo interessato soltanto ai
soldi e tutto il resto per lui sono dettagli?
Forse solo la inqualificabile sinistra italiana
può credere alle illusioni vendute da quest’uomo indegno perché essendo
incapace di comprendere come realmente funzionano le cose nel mondo è
patologicamente dipendente dalle illusioni?
Forse Prodi e la cricca di briganti alloggiata
a Botteghe Oscure conoscono a menadito le debolezze del proprio elettorato e
sanno perfettamente su quali tasti insistere per abbattere le loro difese?
Diceva lo scrittore americano Mark Twain:
“Non separatevi dalle vostre illusioni; quando esse sono scomparse, potete
continuare a esistere, ma avete cessato di vivere”.
Chissà quante volte questa frase sarà
rimbalzata nei salotti buoni radical chic della sinistra, chissà quante
volta sarà passata di bocca in bocca fra i militanti del PD durante i cortei, i
congressi, le manifestazioni. Chissà quante volte il compagno sognatore, amante
delle musiche degli Intillimani e delle danze attorno ai falò bagnate dal vino,
si sarà addormentato ripassando a memoria queste dolci parole.
Le illusioni sono importanti certo, ma ci sono
illusioni e illusioni e pure coloro che fin dalla nascita sono stati immersi in
un impalpabile stato onirico di dormiveglia, devono ricordarsi che il sonno
della ragione crea mostri.
Gli Stati Uniti d’Europa è uno di questi
mostri.
Fonte: da TEMPESTA PERFETTA del 18 giugno 2012
Nessun commento:
Posta un commento