Scrittori, giornalisti e artisti: erano molti quelli che volevano collaborare alla rivista fondata nel 1940 da Giuseppe Bottai, gerarca illuminato ma anche il più feroce sostenitore delle leggi razziali
In quegli anni, Bottai poté contare sulla fervida collaborazione del
meglio della cultura italiana: Giorgio Vecchietti (condirettore), Nicola
Abbagnano, Mario Alicata, Corrado Alvaro, Cesare Angelini, Giulio Carlo Argan,
Riccardo Bacchelli, Piero Bargellini, Arrigo Benedetti, Carlo Betocchi, Romano
Bilenchi, Walter Binni, Alessandro Bonsanti, Vitaliano Brancati, Dino Buzzati,
Enzo Carli, Emilio Cecchi, Luigi Chiarini, Giovanni Comisso, Gianfranco
Contini, Galvano Della Volpe, Giuseppe Dessì, Enrico Emanuelli, Enrico Falqui,
Francesco Flora, Carlo Emilio Gadda, Alfonso Gatto, Mario Luzi, Bruno
Migliorini, Paolo Monelli, Eugenio Montale, Carlo Muscetta, Piermaria
Pasinetti, Cesare Pavese, Giaime Pintor, Vasco Pratolini, Salvatore Quasimodo,
Vittorio G. Rossi, Luigi Russo, Luigi Salvatorelli, Sergio Solmi, Ugo Spirito,
Bonaventura Tecchi, Giovanni Titta Rosa, Giuseppe Ungaretti, Nino Valeri,
Manara Valgimigli, Giorgio Vigolo, Cesare Zavattini. Musicisti come Luigi
Dallapiccola e Gianandrea Gavazzeni. Artisti come Amerigo Bartoli, Domenico
Cantatore, Pericle Fazzini, Renato Guttuso, Mino Maccari, Mario Mafai, Camillo
Pellizzi, Aligi Sassu, Orfeo Tamburi.
GIUSEPPE UNGARETTI
Una crisi di coscienza colse Giuseppe Ungaretti. Il poeta notò
durante il regime che «tutti gli italiani amano e venerano il loro Duce come un
fratello maggiore» e si definì «fascista in eterno», firmando documenti e
appelli per sostenere il fascismo. Salvo firmarne di uguali e contrari alla
fine della guerra come alfiere dell'antifascismo, tanto da meritare una grande
accoglienza a Mosca da parte di Nikita Kruscev.
NORBERTO BOBBIO
Norberto Bobbio da studente si era iscritto al Guf, l'organismo
universitario fascista, e poi aveva mantenuto la tessera del partito,
indispensabile per insegnare. Colpito per frequentazioni non sempre ortodosse
da una lieve sanzione che avrebbe potuto comprometterne la carriera, Bobbio
cercò ovunque raccomandazioni per emendarsi. Suo padre Luigi si rivolse al
Duce, lo zio al quadrumviro De Bono, lo stesso giovane docente a Bottai («con
devota fascistica osservanza»). Fu interessato anche Giovanni Gentile, che
intervenne con successo presso Mussolini. Alla fine, Norberto ebbe la cattedra
tanto desiderata. Nel dopoguerra, Bobbio diventò un maître à penser della
sinistra riformista italiana. Ma il tarlo del passato lo consumò fino a una
clamorosa intervista liberatoria rilasciata il 12 novembre 1999 a Pietrangelo
Buttafuoco per Il Foglio : «Noi il fascismo l'abbiamo rimosso perché ce ne
ver-go-gna-va-mo. Ce ne ver-go-gna-va-mo. Io che ho vissuto la gioventù fascista tra gli
antifascisti mi vergognavo prima di tutto di fronte al me stesso di dopo, e poi
davanti a chi faceva otto anni di prigione, mi vergognavo di fronte a quelli
che diversamente da me non se l'erano cavata».
INDRO MONTANELLI
Montanelli non ha fatto mai mistero di essere stato fascista. (Fu,
anzi, un fascista entusiasta). «Sono stato fascista, come tutte le persone
della mia generazione», ammise nella sua Stanza sul Corriere
della Sera nel 1996. «Non perdo occasione per ricordarlo, ma neanche di
ripetere che non chiedo scusa a nessuno». Anche nella più sfacciata adulazione
del Duce, Montanelli scriveva pezzi di bravura come questo del 1936: «Quando
Mussolini ti guarda, non puoi che essere nudo dinanzi a Lui. Ma anche Lui sta,
nudo, dinanzi a noi. Il Suo volto e il Suo torso di bronzo sono ribelli ai
panneggi e alle bardature. Ansiosi e sofferenti, noi stessi glieli strappiamo
di dosso, mirando solo alla inimitabile essenzialità di questo Uomo, che è un
vibrare e pulsare formidabilmente umani. Dobbiamo amarlo ma non desiderare di
essere le favorite di un harem».
GIORGIO BOCCA
«Quando cominciò il nostro antifascismo? Difficile dirlo...».
Dev'essere cominciato tardi, quello di Giorgio Bocca, se è vero quanto egli
stesso scrive nel racconto «La sberla
e la bestia» pubblicato l'8
gennaio 1943 su La provincia granda , foglio d'ordini settimanale della
federazione fascista di Cuneo. Il 5 gennaio Bocca aveva incontrato in treno
sulla linea Cuneo-Torino l'industriale Paolo Berardi, il quale diceva ad alcuni
reduci dalla Russia e dalla Francia che la guerra era ormai perduta. Bocca
ascoltò, poi gli diede un ceffone e lo denunciò alla polizia per disfattismo.
Due anni prima, sullo stesso settimanale, il giovane giornalista aveva scritto
un lungo articolo su I protocolli dei Savi di Sion , che si sarebbero rivelati
poi (ma lui, ovviamente, non lo sapeva) il falso più clamoroso della propaganda
antisemita. Le prime righe dell'articolo recitano: «Sono i Protocolli dei Savi
di Sion un documento dell'Internazionale ebraica contenente i piani attraverso
cui il popolo Ebreo intende giungere al dominio del mondo...». E le ultime:
«Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità
ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell'Europa ariana al
tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù».
DARIO FO
Dario Fo si arruolò a 18 anni come volontario prima nel battaglione
Azzurro di Tradate (contraerea) e poi tra i paracadutisti del battaglione
Mazzarini della Repubblica sociale italiana. Il 9 giugno 1977, quando Fo era
ormai da anni celebre per il suo lavoro teatrale Mistero buffo , un piccolo
giornale di Borgomanero (Novara), Il Nord , pubblicò una lettera di Angelo
Fornara che ne raccontava i trascorsi repubblichini. Fo sporse querela con
ampia facoltà di prova, ma il processo non ebbe l'esito da lui sperato. Secondo
quanto riferì Il Giorno (8 febbraio 1978), l'attore disse in aula che il suo
«arruolamento era una questione di metodi di lotta partigiana» per coprire
l'azione antifascista della sua famiglia. Ma le testimonianze furono
implacabili. Il suo istruttore tra i parà, Carlo Maria Milani, mise a verbale:
«L'allievo paracadutista Dario Fo era con me durante un rastrellamento nella Val
Cannobina per la conquista dell'Ossola, il suo compito era di armiere porta
bombe». E l'ex comandante partigiano Giacinto Lazzarini lo inchiodò: «Se Dario
Fo si arruolò nei paracadutisti repubblichini per consiglio di un capo
partigiano, perché non l'ha detto subito, all'indomani della Liberazione?
Perché tenere celato per tanti anni un episodio che va a suo merito?». Una
testimone, Ercolina Milanesi, lo ricorda «tronfio come un gallo per la divisa
che portava e ci tacciò di pavidi per non esserci arruolati come lui. L'avremmo
fatto, ma avevamo quindici anni...». L'11 marzo 1978, mentre il processo contro
gli accusatori di Fo era in pieno svolgimento, Luciano Garibaldi pubblicò sul
settimanale Gente una foto dell'attore in divisa della Repubblica sociale (altissimo,
magrissimo come è sempre stato) e un suo disegno dove appaiono alcuni camerati
con le anime dei partigiani uccisi che escono dalle canne dei mitra («Sono
apocrife e aggiunte da altri», si difenderà). Il 7 marzo 1980 il tribunale di
Varese stabilì che «è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e
rastrellatore di partigiani». Il futuro premio Nobel non ricorse in appello e
la sentenza divenne definitiva.
VITTORIO GORRESIO
Vittorio Gorresio, una delle firme più brillanti della sinistra
riformista del dopoguerra, scriveva cose impegnative sulla gioventù hitleriana:
«Così pregano gli ariani piccoli, ora che, dissipato il fumo del rogo ove furon
arsi i venticinquemila volumi infetti di semitismo, l'atmosfera tedesca è più
limpida e chiara». E nel 1936 sulla Stampa, il giornale di cui sarebbe
diventato negli anni Sessanta la prima firma politica, confessava: «Ringrazio
Dio perché ci ha fatto nascere italiani ed è con gli occhi lucidi che si sente
nell'animo la gratitudine del Duce».
EUGENIO SCALFARI
Nonostante la giovane età, Scalfari era riuscito a far pubblicare
alcuni scritti di Calvino su Roma fascista, era diventato amico di Bottai, che
chiamava «il mio Peppino», e fino alla caduta del fascismo sostenne con
convinzione l'economia corporativa. Ma va ascritto a suo merito di aver sempre
parlato nel dopoguerra di «quaranta milioni di fascisti che scoprirono di
essere antifascisti», non nascondendo mai le sue ferme convinzioni giovanili.
ENZO BIAGI
Montanelli collaborò a Primato come Enzo Biagi, che nel dopoguerra
non ha negato i suoi trascorsi (scrisse anche per la rivista fascista bolognese
Architrave ) e la gratitudine per Bottai. Ma i suoi avversari, spulciando negli
archivi, hanno scovato altri episodi. Secondo il racconto di Nazario Sauro
Onofri in I giornali bolognesi nel ventennio fascista, nel 1941 Biagi, allora
ventunenne, recensì il film Süss l'ebreo , formidabile strumento della
propaganda antisemita di Himmler, sul foglio della federazione fascista
bolognese L'assalto , scrivendo che il pubblico «era trascinato verso
l'entusiasmo» e «molta gente apprende che cosa è l'ebraismo e ne capisce i
moventi della battaglia che lo combatte». (Biagi era in buona compagnia, perché
sullo stesso giornale, fortemente antisemita, si scatenava anche il
giovanissimo Giovanni Spadolini, mentre una lusinghiera recensione allo stesso
film fu firmata dal regista Carlo Lizzani). Biagi restò al Resto del Carlino,
controllato dai fascisti e ormai anche dai nazisti, fino alla tarda primavera
del 1944, ricevendo - come tutta la redazione - generosi sussidi economici dal
ministero della Cultura popolare (il Minculpop). Dieci mesi dopo entrava a
Bologna con le truppe americane.
Fonte: da il Giornale.it del
6 novemnre 2014
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