giovedì 13 novembre 2014

LA “MAGGISTRATURA” È LO SPECCHIO DELL’ITALIANITÀ, STORIA DI “SINISTRE CARRIERE”






di GILBERTO ONETO


Si fa un gran discutere attorno al cattivo funzionamento e alla politicizzazione della maggistratura.
Gran parte della polemica ruota attorno alle vicende di Berlusconi e soci: un argomento piuttosto ambiguo che non aiuta a fare chiarezza.
Alla gente comune poco interessa delle questioni di Ruby e delle tasse della Fininvest. La gente comune un suo giudizio sulla magistratura se l’è fatto indipendentemente da queste porcherie, se l’è fatto leggendo le cronache giudiziarie e – soprattutto – sulla propria pelle.
A chi – anche la persona più tranquilla e onesta – non è capitato almeno una volta nella vita di avere a che fare con un tribunale italiano, come imputato, testimone o parte lesa? L’esperienza è tale da formare una solida e devastante opinione anche senza le cronache delle grandi vicende politiche.
Varcare una soglia di Palazzo di giustizia è come scendere di un paio di paralleli, è come entrare in un film di Totò, è traversare un portale spazio-temporale e vivere una esperienza extracorporea, surreale e da incubo. Lo scandire del tempo si misura su parametri diversi che rasentano la ricerca dell’eternità, vigono regole e rituali che ai comuni mortali sfuggono, per i padani è un viaggio esotico in cui si spera di fare un salvifico incontro con Lawrence d’Arabia.

La prima impressione è proprio di un appiccicoso crogiolo di profonda italianità in cui gli indigeni vivono un imbarazzante senso di estraneità che nessuno degli altri cerca ovviamente di mitigare. Anzi.
Nei tribunali si respira l’aria di Little Italy o di Broccolino. Quasi tutti parlano, si muovono e vestono allo stesso modo: toghe appoggiate sulle spalle con nochalance come scialli di Salomè, capelli arricciati sul collo, alitate di caffè e tutto il resto dell’ambaradan antropologico e patriottico che accompagna la più profonda identità italiana.
I padani sono una minoranza emarginata fra avvocati e magistrati, dove sono circa un quarto del totale ma con magre prospettive di carriera: sono praticamente assenti ai piani alti, al Csm, nella Corte costituzionale. I nati sopra la Linea Gotica sono davvero rari fra poliziotti e colpevoli: meritano l’assistenza del WWF.
Per mitigare la statistica si ricorre all’imbroglio: sui giornali i rei sono classificati spesso per residenza e non per origine (in questi giorni il Gagliano è rubricato come savonese).
Gli autoctoni veri li si trova praticamente solo – tanti – fra le vittime. Sono degli estranei che non meritano alcuna considerazione, dei pirla che si fanno fregare e poi pagano il conto.
Chi non è del giro viene stritolato: una ragazzotta americana (non si saprà mai se colpevole o innocente) viene trattata come fosse la reincarnazione del male, Rosa e Olindo sono rinchiusi a vita senza uno straccio di prova.
Non si chiamano Ligresti e sicuramente la Cancellieri non perderà tempo a far loro una telefonatina. Ci sarebbe anche un problema di comunicazione linguistica.

Poi c’è la storia della politica. Non basta essere italiani: per contare serve anche essere un po’ comunisti.
La “compagneria” è il solo modo sicuro che i nordisti hanno di fare un po’ di carriera: se uno è padano e poco sinistro probabilmente si occuperà di multe per tutta la vita in un sottoscala di cancelleria. Così risulta che se un imputato appartiene a qualche tribù rossa se la cava sempre, trova comprensione, vagonate di garantismo, codicilli ed eccezioni: è pur sempre “un compagno che sbaglia” che diamine! Gli altri no: gli altri portano il marchio lombrosiano della reità nel sangue.
Se poi sono leghisti o indipendentisti non hanno vie d’uscita. Sindaci, cittadini che si difendono dai malfattori, gente che esprime opinioni poco ortodosse su strolighi, stranieri o italianissimi incorre nei rapidissimi rigori dello Stato: Dura lex, sed lex. Tradotto: l’è düra per num, per i àlter l’è lèss.




Fonte:  visto su TERMOMETRO POLITICO del  24 dicembre 2013
Fonte: da Miglioverde






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