Riporto la sintesi di un’intervista al Professor Pascal
Salin, economista francese della Scuola Austriaca. Il video integrale
dell’intervista, in inglese, può essere trovato QUI.
Origine della crisi.
La crisi è stata prodotta dal fatto che per molto tempo i
governi europei, e in particolare quelli dei paesi oggi maggiormente esposti
(Grecia, Spagna, Italia, Portogallo, Irlanda e, aggiunge il Professor Salin,
Francia) hanno speso molto di più di quello che potevano permettersi. La crisi
è adesso peggiorata per due ragioni. In primo luogo, la recessione economica ha
ridotto le entrate fiscali. In secondo luogo, molti governi, adottando
politiche keynesiane, hanno reagito alla crisi spendendo di più, non di meno:
in altre parole, essi hanno reagito al problema aumentando il ricorso
all’interventismo economico che ha creato il problema.
È giusto parlare di “crisi dell’euro”?
Quella che viene comunemente chiamata “crisi dell’euro” non
è quindi una crisi dell’euro, ma piuttosto una crisi dei debiti pubblici e
quindi dei governi che li hanno prodotti. Non solo, ma “in linea di principio,
non c’è nessuna ragione per cui questa crisi dei debiti pubblici sia collegata
all’euro”. Salin fa l’esempio degli Stati Uniti (che però sono, a differenza
dell’Europa, un unico paese, per quanto federale): “quando c’è un problema in
uno stato americano (come l’anno scorso è accaduto per esempio nello stato del
Minnesota che non è stato capace di rimborsare il proprio debito) nessuno parla
di un problema del dollaro. Perché allora, quando c’è una crisi prodotta dal
fatto che alcuni paesi come la Grecia, l’Italia, la Francia e così via hanno un
debito pubblico insostenibile, generalmente si dice che questa è una crisi
dell’euro?” La ragione per Salin è puramente politica: questa situazione di
crisi dei debiti pubblici di alcuni paesi viene vista come un pretesto per
rinforzare il processo di centralizzazione politica ed economica di cui l’euro
era uno dei primi passi.
Se un paese in crisi ritornasse alla valuta nazionale e
la svalutasse, questa sarebbe una soluzione al problema?
Nel lungo periodo no in quanto la svalutazione non
consentirebbe di correggere la radice del problema, ovvero le distorsioni del
mercato prodotte dall’interventismo economico dello stato (Salin spiega la
teoria del ciclo economico della Scuola Austriaca, la quale, per quanto
trascurata dall’usuale contrapposizione fra keynesiani e monetaristi, a suo
parere “è l’unica scuola di pensiero in grado di dare una spiegazione
soddisfacente di cosa sia accaduto”). Per quanto corretta nell’esito, la
previsione dei monetaristi, e di Friedman in particolare, secondo cui l’unione
monetaria sarebbe entrata in crisi, era fondata secondo Salin su una teoria
contraddetta dall’esperienza storica. La teoria è quella secondo la quale
l’unione monetaria fra paesi in situazioni economiche diverse (oppure
inizialmente in situazioni economiche simili ma poi, in seguito a crisi
asimmetriche, venutisi a trovare in situazioni economiche diverse) non può
funzionare in quanto toglierebbe ai paesi in crisi la possibilità di svalutare
e quindi di fare ciò che fa normalmente un’azienda in crisi: abbassare i prezzi
dei suoi prodotti o servizi. Questa teoria secondo Salin è contraddetta da vari
esempi storici (oltre che dalla teoria della Scuola Austriaca): in primo luogo
quello degli Stati Uniti ma poi anche quello della “zona del franco” che univa
paesi diversissimi fra loro come la Francia e alcuni paesi africani. Quando le
crisi economiche sono prodotte dall’interventismo economico nel lungo periodo
la svalutazione non è un rimedio. L’unico possibile rimedio è lasciare che il
mercato libero faccia il suo corso: solo così le distorsioni prodotte dai
governi e dalle loro politiche keynesiane potranno essere corrette e la crisi
potrà rientrare.
Eurobond & Co.: potrebbero essere una soluzione?
No: nessuna delle misure proposte o attuate a livello
europeo (come i cosiddetti ‘eurobond’, i ‘project bond’, la ricapitalizzazione
della European Investment Bank, l’unione bancaria, ecc.) potrebbe essere una
soluzione: “queste cosiddette ‘soluzioni europee’ sarebbero una soluzione al
desiderio di centralizzazione dei politici” e a quello di
deresponsabilizzazione dei governi nazionali in relazione al debito da loro
creato “ma non sarebbero una soluzione ai problemi economici” perché, come
detto prima, esse insistono su ciò che ha prodotto la crisi: l’interventismo
economico e la centralizzazione delle decisioni e dell’uso della conoscenza che
questo presuppone.
Quali politiche dovrebbero essere adottate da parte dei
governi?
Salin sorride, “sono tentato di rispondere nessuna politica”
in quanto l’interventismo economico, e quindi le politiche monetarie e quelle
fiscali, stanno all’origine della crisi finanziaria e di quella economica,
rispettivamente: “queste politiche hanno impedito al mercato di fare il suo
lavoro. Per ristabilire l’equilibrio dobbiamo avere non più interventismo, ma
meno. Quindi quanto meno sarebbe necessario non far nulla. Ma sarebbe ancora
meglio se gli stati decidessero di ridurre la spesa pubblica e, per quanto
paradossale possa sembrare a prima vista, di ridurre le tasse… Lo so che per i
governi è difficile accettare questo fatto, ma essi stanno facendo esattamente
l’opposto: stanno infatti aumentando le tasse, … la quantità di moneta, … le
regolamentazioni”. Solo il mercato, se lasciato lavorare, può risolvere la
crisi economica.
Fra la competizione monetaria di Hayek (in ogni paese,
per esempio europeo, ciascuno può usare la moneta che vuole fra le tante monete
in competizione fra loro le quali sarebbero anche, o preferibilmente solo,
emesse da soggetti privati) e il gold standard puro di Mises, cosa preferisce?
“La competizione è sempre una buona cosa” in quanto
incentiva i competitors ad offrire il prodotto migliore. Ciò che rende una
moneta migliore di un’altra è la sua capacità di mantenere il potere d’acquisto
nel tempo e perfino di aumentarlo. Il fatto che oggi a emettere moneta siano le
banche centrali e che gli stati impongano l’uso di questa moneta di stato ai
cittadini mediante il corso forzoso, crea la possibilità e l’incentivo perché
la quantità di moneta sia aumentata e quindi perché vi sia inflazione. In una
situazione di competizione monetaria, viceversa, ciascuna persona, sotto la sua
responsabilità, sarebbe libera di scegliere la moneta che lei ritiene essere
quella migliore e cioè quella che a suo parere mantiene meglio il potere
d’acquisto o addirittura che lo aumenta. Quindi in una situazione di
competizione monetaria non ci sarebbe inflazione ma stabilità dei prezzi o
addirittura una crescita economica accompagnata da riduzione dei prezzi.
“L’unica vera soluzione di lungo periodo alla crisi finanziaria è la
competizione monetaria”. La competizione monetaria è superiore al gold standard
perché il secondo non è competitivo: potrebbe essere che la moneta migliore sia
quella basata sul gold standard (purché sia un gold standard privato, in cui la
garanzia della corrispondenza fra oro e moneta è data da soggetti privati, non
dalle banche centrali, così che essi, a differenza di queste ultime, non
abbiano la possibilità di svalutare) ma non lo possiamo sapere in anticipo. La
competizione monetaria (intendendo la competizione come processo di scoperta –
come lo è la sperimentazione nella scienza (Hayek) – e non come situazione
corrispondente alla cosiddetta concorrenza perfetta) ci aiuterebbe a scoprirlo.
Quale è la sua opinione sul programma economico del nuovo
Presidente della Repubblica francese, François Hollande?
“Penso che il suo programma economico sia molto pericoloso”
in quanto keynesiano. In teoria ha l’obiettivo di ridurre il debito ma, anche
se ancora non sappiamo i dettagli, lo vuole fare principalmente con l’aumento
delle tasse, il che non solo non risolve i problemi ma li peggiora. “Durante la
campagna elettorale ha proposto di aumentare il livello di tassazione dei
redditi più alti al 75%, il che nei fatti con i contributi e le altre tasse si
traduce in circa il 100%. Il che è veramente folle”. Inoltre ha promesso di
aumentare la patrimoniale e altre tasse. Allo stesso tempo, il suo programma
prevede un aumento della spesa pubblica, per esempio l’aumento del numero degli
insegnanti nelle scuole pubbliche e trasferimenti alle famiglie. Il risultato
di questo programma interventista sarà maggiore debito pubblico e maggiori
regolamentazioni: esattamente l’opposto di ciò che sarebbe necessario per la
crescita.
Mario Monti ha affermato che intende rilanciare la
crescita attraverso spesa pubblica in “investimenti pubblici veri e genuini”;
il suo governo ha varato una ‘riforma’ del mercato del lavoro che continua a
rendere estremamente difficile e costoso (quando non impossibile) ai datori di
lavoro di licenziare i lavoratori; obbligato dalla crisi economica, finanziaria
e dei debiti pubblici a scegliere fra ridurre lo stato e aumentare le tasse ha
scelto in gran parte la seconda soluzione. Sarebbe corretto considerare Monti
un liberale?
Qui devo ammettere una certa sorpresa, infatti il Professor
Salin, pur riconoscendo che ce ne è di strada da fare, ha riconosciuto che,
anche se a piccoli passi, Monti sta andando “nella giusta direzione (nella
direzione liberale)”, e fra gli esempi cita proprio il mercato del lavoro: “mi
sembra infatti che ci siano state delle leggere modifiche alla legislazione del
lavoro e in altre regolamentazioni. … Devo dire che preferisco questo a quello
che abbiamo in Francia, in cui è chiaro che stiamo andando nella direzione
opposta”.
Lo guardo un po’ confuso: gli ricordo che la ‘riforma’ del
lavoro varata dal governo Monti (che già nella sua prima versione rendeva
estremamente difficile e costoso licenziare una persona) era stata talmente
annacquata che il Wall Street Journal, un giorno dopo aver elogiato Monti, ha
dovuto auto-censurarsi e fare un errata corrige. Salin ammette che in effetti
non sapeva delle due versioni della proposta e che non conosce i dettagli delle
manovre del governo Monti. Riconosce che quelli fatti da Monti sono sicuramente
dei piccoli cambiamenti e che l’Italia è ancora un paese illiberale. E aggiunge
che “se Monti decidesse di ricorrere a politiche keynesiane questo sicuramente
non sarebbe liberale”: ma questo è appunto esattamente quello che pare Monti
abbia intenzione di fare, in quanto ciò che distingue le politiche keynesiane è
l’idea di produrre crescita tramite spesa pubblica, anche in investimenti
pubblici ‘veri e genuini’.
L’evasione fiscale è immorale?
Altra sorpresa dall’autore di Liberalismo e di La
Tirannia Fiscale. In sintesi, egli afferma che da un lato l’evasione
fiscale non è immorale in quanto è una forma di resistenza contro una
coercizione che, per il modo in cui è imposta e per la sua quantità, è
illegittima. In altre parole, è una forma di “autodifesa contro un attacco da
parte dello stato”.
Dall’altro lato, tuttavia, pur riconoscendo che l’evasione
fiscale è un incentivo al governo ad abbassare le tasse, Salin afferma che essa
è moralmente eccepibile in quanto scarica un peso maggiore di tasse, e cioè di
“schiavitù”, su coloro che non possono evadere. Quindi “io credo che non ci sia
una singola risposta a questa domanda … Ci sono molti casi in cui a un problema
morale c’è una risposta chiara e univoca. Io non credo che questo sia il caso
per l’evasione fiscale”.
Obiezione: immaginiamo che ci sia un rapitore che abbia
sequestrato, riducendole in schiavitù, 10 persone e che una di queste dieci
persone riesca a scappare. È chiaro che la fuga di questa persona peggiorerà la
situazione delle altre nove persone, ma questo basterebbe per qualificare la
fuga di questa persona come immorale?
“Si, credo che il suo esempio sia molto buono. Questo
significa che fra le due possibili risposte citate, la prima, quella in base
alla quale l’evasione fiscale sarebbe morale in quanto sarebbe una forma di
legittima fuga dallo schiavismo fiscale, sarebbe la risposta giusta”.
Cosa ne pensa di Ron Paul?
Il volto di Salin si illumina. “Ron Paul è molto vicino alla
Scuola Austriaca. Ho avuto l’opportunità di incontrarlo al Mises Institute: è
fantastico vedere un uomo politico di questa importanza prendere tre giorni di
tempo per discutere questioni economiche con accademici da una prospettiva
della Scuola Austriaca. Ron Paul davvero conosce la teoria economica della
Scuola Austriaca e la difende”. Mi fa vedere un paper che ha appena ricevuto di
Ron Paul sulla concorrenza fra monete.
Da un lato il Professor Salin si dice pessimista sullo
sviluppo della crisi, soprattutto per come questa viene gestita in Europa.
D’altro canto, il sorprendente, seppur insufficiente, successo di Ron Paul alle
primarie repubblicane negli Stati Uniti, soprattutto fra le nuove generazioni,
gli dà la speranza che un giorno non troppo lontano sia possibile, almeno in
qualche paese dell’occidente, invertire la marcia e cominciare il cammino
dell’economia di mercato.
Fonte: visto su MOVIMENTO LIBERTARIO del 20 luglio 2014
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