di LEONARDO FACCO
Poco fa, mi ha favorevolmente colpito questa notizia:
“Si registra un deflusso allarmante dei capitali dall’Italia, tra agosto e
settembre. Si tratta di 67 miliardi di euro”. Un secondo dopo, un amico mi ha
girato una circolare del prefetto di Genova che lascio leggere a voi, la
trovate nella foto qui sotto a sinistra. Infine, un altro amico mi ha segnalato
che il magistrato Bruno Tinti, imperversa su tutte le tv a far prediche contro
l’evasione. Data la coincidenza temporale nel vedermi apparire sotto gli
occhi i tre fatti di cui sopra, ripubblico un mio vecchio articolo, che elogia
chi ha il coraggio e la forza di salvaguardare il frutto del proprio lavoro!
La campagna di stampa generalizzata contro l’evasione
fiscale ha creato un clima infernale, al punto che le persone bramano dalla
voglia di veder pubblicati i redditi altrui. Le cronache ci hanno raccontato di
persone perseguitate da Equitalia per aver dichiarato 4 centesimi in meno,
altre schernite per strada perché possessori di un Suv o di una Porsche, altre
ancora costrette ad ipotecare l’abitazione in cui vivono causa tasse.
Conseguenza? I capitali fuggono da almeno due anni, i benestanti cercano altri
approdi, il mercato delle auto di lusso è crollato e chi ne possiede una la
vende nei paesi dell’est, nessun investitore straniero porta i suoi soldi
in Italia .
Ha scritto Anthony De Jasay:
“Lo Stato ha sempre svolto la funzione di tutelare la
proprietà dei propri cittadini contro tutte le minacce, tranne quelle poste
dallo Stato stesso. La confisca era una delle prerogative degli Stati più antichi,
sebbene essi tendessero ad avvalersene con discernimento.
Negli Stati moderni, le dittature si sono sentite libere
di confiscare a piacimento i beni dei cittadini, trovando un limite solo
nell’opportunità o meno di procedere.
Gli Stati democratici hanno abbandonato la pratica della
confisca, preferendo espropriare, o meglio, “nazionalizzare” la proprietà dei
cittadini, in cambio di un indennizzo “equo” e “congruo”.
A rigor di logica, si dovrebbe dire che definire “equo”
il prezzo pagato in uno scambio forzato è un ossimoro.
La legislazione, incluso quello che passa per diritto
internazionale, che prescrive in che modo gli Stati sovrani debbano
indennizzare i proprietari espropriati, compresi gli stranieri, è stabilita in
ampia misura dagli stessi espropriatori.
Se volessimo farne una caricatura, potremo immaginare un
congresso di ladri che volesse promulgare delle norme per stabilire come debba
essere condotto un equo ladrocinio”.
Oggi, in Italia guadagnare è diventato sinonimo di rubare.
Cercare di difendere i propri risparmi dalla violenza del Fisco è sinonimo di
mafioso che nasconde i propri soldi all’estero. E’ da qualche anno che il clima
s’è fatto pesante, ricordate il caso di Vaduz, finito sulle pagine di tutti i
quotidiani italiani, con tanto di nomi e cognomi dei possessori di conti
esteri? E la Svizzera? Anziché essere considerata un paese civile per la
vulgata italianista è equiparata al tombino in cui vivono i ratti di fogna che
narcotrafficano e speculano.
Le prediche dei “tassatori per antonomasia”, che sono si
sono sperticati in sermoni moralmente riprovevoli sulla “bellezza e la
giustezza del pagare le imposte”, sono anche economicamente parlando
distruttive.
Ancora De Jasay ci ricorda cosa sia stato in grado di
compiere lo Stato predatore nel secolo scorso:
“Chiunque consideri la sorte della proprietà di nobili e
borghesi russi nel periodo 1917-1919 e dei beni dei contadini una decina d’anni
dopo, o dei beni degli ebrei in Germania dopo il 1934 e nei Paesi occupati dai
nazisti nel corso della guerra, o ancora alla proprietà negli Stati satelliti
dell’Unione Sovietica dopo il 1947, o anche a gran parte delle grandi imprese
industriali e finanziarie nella Gran Bretagna laburista dopo il 1945 e nelle
due ondate di nazionalizzazioni sotto de Gaulle e Mitterrand in Francia,
potrebbe essere indotto a cercare di trasferire almeno parte dei propri beni
mobili in Liechtenstein o in qualche Paese altrettanto ospitale”.
Brutta roba l’invidia umana. Scrisse Alexis de Tocqueville:
“Le istituzioni democratiche sviluppano un forte
sentimento di invidia nel cuore umano, in quanto risvegliano e lusingano il
desiderio dell’uguaglianza, senza poterlo mai soddisfare interamente”.
E quante stupidaggini celebrano gli invidiosi. Parole di Carlo
Zucchi:
“Pagare tutti per pagare meno, il più falso degli slogan
da sempre usato da politicanti spendaccioni, che coi soldi sottratti ai
presunti evasori non farebbero che spendere di più per aumentare il loro potere
e, di conseguenza, la nostra schiavitù.
Luoghi come il Liechtenstein non vanno condannati, perché
se è vero che consentono a mafiosi e delinquenti di nascondere i frutti dei
loro traffici illeciti, è altrettanto vero che consentono a chi vive in paesi
ad alta oppressione fiscale come il nostro di mettere quanto legittimamente
guadagnato al riparo dalle grinfie di politici disonesti o, peggio ancora, di
statalisti inveterati ai quali il crollo del comunismo e la crisi delle
social-democrazie non ha insegnato nulla.
L’arma di questi ultimi è quella di istillare l’odio e
l’invidia dei poveri contro i ricchi”.
Ma, allora, che lo Stato perseguiti e prevenga i reati di
mafiosi e delinquenti (cosa che non è però in gradi di fare, essendo esso
stesso complice del malaffare), quelli che permettono loro di raggranellare
milioni di euro in maniera illecita. Non il fatto che il bottino lo portino al
sicuro! Non vi pare più logico?
L’errore fondamentale dei socialisti di
destra-centro-sinistra– come ci ha insegnato Carlo Lottieri – è che
essi tendono a ragionare sempre in termini astratti: più interessati ai loro
modelli che alla realtà.
Nel momento in cui predispongono un sistema fiscale
fortemente progressivo (in cui la percentuale di quanto è sottratto cresce a
dismisura con l’aumentare del reddito), essi ritengono che ciò sia sufficiente
a colpire i ceti più abbienti. Falso! Quanti dispongono di notevoli capitali
hanno spesso anche buone opportunità di ottenere dal sistema politico tutta una
serie di aiuti e favori, grazie ad escamotage o grazie agli amici degli amici.
Provate a chiedere al signor Montezemolo, o a Marchionne, quanto paga di tasse?
I paradisi fiscali sono inevitabili ogni volta che le
imposte sono troppo alte, ergo considerate ingiuste. Qualcuno lo spieghi a Di
Pietro, a Fassina, a Tremonti e a quegli apologeti della legalità (sulla carta)
che si rifiutano di capire che i capitali se ne infischiano degli artifizi dei
parlamenti e, come tutto ciò che lotta per sopravvivere e moltiplicarsi,
seguono la dura legge di natura che li porta a rifugiarsi laddove trovano
maggior conforto, miglior accoglienza e maggiori opportunità per riprodursi.
Breve storia del paradiso fiscale
I nazionalisti amano gli Stati forti, quelli che decidono
delle nostre vite sempre e comunque.
I paradisi fiscali rappresentano l’esatto opposto, essi sono
la soluzione moderna alla schiavitù antica dell’uomo sull’uomo. Per ora, sono
perlopiù un eden fiscale, ma in nuce sono un concentrato di libertà
individuale.
In un libro edito da Malatempora, intitolato “paradisi
fiscali”, essi vengono additati come quanto di peggio possa infestare il mondo.
Nel volume, edito una decina d’anni fa, viene riportata la
mappa completa di questi regni tributari e la loro storia, che parte nel XIX
secolo:
“All’origine alcuni di questi territori –si legge – non
erano che dei porti dove potevano trovare rifugio le navi dei grandi imperi
europei, al riparo dalla intemperie e dai pirati”.
Una metafora quanto mai azzeccata, non vi pare? In fondo,
chi mette i propri danari (molto spesso onestamente guadagnati) vuole
semplicemente custodire il frutto del proprio lavoro dalla rapina di Stato,
dalla spoliazione effettuata nel nome di un “bene comune” di cui conosciamo le
nefaste conseguenze. Tutti al riparo dalle intemperie politiche.
Nei Caraibi, tra il 1920 e il 1930, cominciano ad apparire
dei nuovi territori che si specializzano nella formulazione di legislazioni
destinate a sottrarre i patrimoni alle grinfie tributarie. Le Bahamas ad
esempio. Poi, Svizzera e Lussemburgo si specializzano.
La Seconda guerra mondiale è decisiva per lo sviluppo dei
paradisi. I territori sotto il dominio europeo non ricevono dopo la guerra gli
aiuti economici sperati e vengono tagliati fuori dal piano Marshall. No
assistenzialismo? No party! Alcuni territori così, invece di continuare a
produrre materie prime che non garantiscono più la stabilità economica, si
specializzano nell’accoglienza di flotte cui forniscono una bandiera ombra, e
nell’offrire ai detentori di capitali un asilo sicuro istituendo il segreto
bancario (chissà perché le varie leggi sulla privacy se ne infischiano di
questo diritto) e l’assenza di tassazione.
Tra il 1960 e il 1970, un nuovo trampolino di lancio per
l’attività dei paradisi fiscali viene fornito dall’emergere del mercato degli
eurodollari negli anni ‘60 e dei petrodollari negli anni ‘70.
Le grandi banche, le grandi imprese ela Citydi Londra, che
attira tutte le principali società finanziarie, appoggiano lo sviluppo di
queste strutture, avendo tutte da guadagnare nel poter disporre di zone con
debolissima imposizione fiscale. Il Liechtenstein, le Isole del Canale, le
Isole Cayman, Bermuda, Panama sono tutte figlie di questa meravigliosa decade.
Tra il 1980 e il 2000, grazie alla liberalizzazione
finanziaria che ha incoraggiato l’assenza di controllo sui movimenti di
capitale su scala internazionale, il numero dei paradisi fiscali cresce
vertiginosamente. I movimenti di capitale, alla faccia dei Capanna, trovano nei
paradisi un singolare luogo di convergenza.
Ne ha approfittato anche la criminalità? Senza dubbio, ma i
loro reati stanno eventualmente a monte dei depositi bancari off-shore e
solo questi dovrebbero essere perseguiti dalla giustizia.
L’attività dei paradisi fiscali è oggi caratterizzata da un
giro di affari stimato in 2000 miliardi di dollari l’anno, circa. Nei soli
paradisi europei sono registrate più o meno 700.000 società. E se i soldi dei
piccoli risparmiatori, spesso investiti in fondi, fruttano qualcosa a capitale
garantito è solo perché ci sono società che grazie ai paradisi fiscali li fanno
rendere.
Lo Stato è specializzato solo in truffe tipo “Bond argentini
o greci
Duecento isole felici
Su, alzi la mano chi è felice di pagare le tasse! A parte
qualche pazzoide, tutti immobili vero? Ed è giusto che sia così, dato che gran
parte delle tasse che ci obbligano a versare finiscono per alimentare sperperi
e inefficienze pubbliche. Ergo, chi non può evadere cerca di eludere il fisco.
Per fare un esempio di elusione assolutamente legale esiste
uno schema di assicurazione, inventato da delle banche elvetiche ma che si
applica in Italia, in cui si mette dentro qualunque tipo di investimento sotto
forma di gestione in una polizza vita, rimandando così anche di 20 anni, le
tasse sui capital gain in modo che possiate accumulare i guadagni
esentasse per anni. Solo quando liquiderete la polizza pagherete l’aliquota. Un
bel risparmio.
Esiste un’industria enorme che lavora a tempo pieno per
assicurare che chi ha tanti soldini paghi poche tasse.
Qualunque aumento di aliquota si voti in parlamento lo paga
solo la classe media e i lavoratori dipendenti. Dai Bono ai Ferrero alle
Guzzanti e Riondino (che speravano nel Maddoff dei Parioli), dallo sportivo
medio a quello più blasonato tutti vanno alla ricerca di paesi in cui pagare
meno balzelli. E giusto così? No, ecco perché il paradiso fiscale deve essere
per tutti. Non va abolito dunque, o “armonizzato” (come piacerebbe ai Monti di
scuola prodiana), ma va aperto ad ogni poverocristo!
In un focus scritto tempo fa dall’IBL si legge:
“È tesi assai diffusa che i piccoli Stati, avendo scelto
la strada della bassa tassazione, ostacolino lo sviluppo di politiche
economiche autonome in Germania o in Italia. I nostri sistemi di welfare,
infatti, non sono veramente in condizione di fissare i loro obiettivi
(tassazione, spesa pubblica, regolamentazione, ecc.) a causa della mobilità dei
capitali.
Gli Stati ad alta tassazione – la Germania, ad esempio –
ritengono anti-concorrenziale il comportamento delle piccole istituzioni
politiche a bassa tassazione – il Liechtenstein, ad esempio – ma tale modo di
ragionare è indifendibile. Sarebbe come se un produttore di camice costose e di
bassa qualità si lamentasse dell’esistenza di altri produttori più efficienti.
Come ha scritto Samuel Gregg, “Il Liechtenstein rappresenta quello che potrebbe
essere una società europea libera, integrata, prospera, favorevole al mercato e
con basse imposte”; ed è proprio questo l’esito più prezioso della concorrenza
sviluppata dalle piccole istituzioni politiche. In realtà, se non dovessero
fare i conti con la competizione dei regimi giuridici e fiscali vicini, i
governanti delle classi politiche europee dilaterebbero ancor più il loro
controllo sulla società civile.
In assenza di Liechtenstein e Monaco (così come senza
l’Austria o la Svizzera, e più in generale senza quella varietà di sistemi
giuridici e fiscali che è la particolarità dell’Europa), i governanti dei
maggiori paesi del continente avrebbero trovato assai meno ostacoli nella loro
espansione della spesa e della tassazione, come pure nell’elaborazione di norme
sempre più minuziose e capaci di menomare sempre più la libertà di iniziativa
dei singoli.
Se le nostre economie non sono compiutamente statizzate,
questo si deve al fatto che perfino Vincenzo Visco comprende che in presenza di
paradisi fiscali molti capitali possono facilmente lasciarsi alle spalle i loro
inferni fiscali d’origine.
L’esistenza di
legislazioni tributarie differenti e spesso assai più moderate di quelle
proprie dei regimi socialdemocratici europei (tra cui l’Italia) ha fino ad ora
offerto un freno all’ambizione di colpire sempre più la proprietà privata ed estendere
l’area dell’intervento pubblico”.
Per tenere sotto controllo la voracità dei politici e dei
burocrati evviva la concorrenza, anche quella tassatoria, rispetto alla quale i
paradisi fiscali rappresentano l’avanguardia.
Da qui, qualche suggerimento utile anche per chi – senza
essere milionario – ha voglia di provare il piacere di non vedersi sgraffignare
i soldi dai governi.
“Il biglietto di andata per i paradisi fiscali – si
legge nel sito http://www.paradisi-fiscali.com/content/51-Paradisi-fiscali-un-viaggio-in-classe-economica costa
2 mila euro. È questo il prezzo medio per dare il via libera alla costituzione
di uno schema societario in paesi offshore. In molti stati con giurisdizioni
fiscali di favore poi è possibile aprire delle società con 2 euro di capitale,
non tenere le scritture contabili e addirittura, se uno dei problemi principali
è la tutela della privacy dei servizi bancari, con meno di 30 mila euro, è
possibile fondare un proprio istituto di credito”.
Un invito dunque a dedicarvi al turismo economico:
Andorra, Liechtenstein, San Marino, Irlanda, Malta, Cipro, Gibilterra,
Lussemburgo, Montecarlo, Guernsney, Isole del Canale. Ovviamente sono più o
meno tutte nella lista nera dell’OCSE, i burocrati di Bruxelles.
Attualmente esistono oltre 200 giurisdizioni nel mondo che
offrono uno o più incentivi agli investitori non residenti. Ma anche un
viaggetto nella vicina Svizzera è un’idea che consigliamo di percorrere. Sennò,
per i frequentatori della Rete, suggeriamo di digitare in un qualsiasi motore
di ricerca le parole “paradiso” e “fiscale”, oppure “soluzioni” e “off-shore”,
così giusto per iniziare un viaggio verso la libertà e la difesa del vostro
patrimonio, anche se piccolo. Evitate accuratamente i siti che ne parlano solo
per denigrare questi paesi come riciclatori di denari sporchi.
Alla domanda se sia legale o meno una società off-shore, il
dottor Giovanni Caporaso, già CEO della OPM CORPORATION di Panama, impresa che
dal 1992 offre servizi legali e bancari sul tema, non ha dubbi: “100% legale”!
Si fugge dall’Italia, e non solo, semplicemente per proteggere i propri
capitali e ridurre il carico fiscale. E nel rispetto della vera privacy, le
società offshore offrono l´anonimato dei soci.
Oltre cent’anni fa, Frédéric Bastiat ammoniva:
“Private l’uomo della sua proprietà e lo priverete della sua
libertà, della sua individualità e della sua personalità”. E che a me risulti,
nessuno ha mai trovato incentivante vivere negli inferni statali.
Fonte: visto su MIGLIOVERDE
ottobre 2014
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