giovedì 11 aprile 2013

L’IMPLACABILE MANODOPERA AL SERVIZIO DELLO STATO LADRO




di LEONARDO FACCO

Ieri, la mia attenzione è stata attirata da due notizie, entrambe aventi attinenza con i dipendenti pubblici, implacabile manodopera dello Stato ladro, in servizio permanente per favorire il declino di questo paese.

Una era sul Manifesto, questa:
“La cura neo-thatcheriana ai costi dello Stato inizia a produrre i suoi effetti: dal 2006 al 2011 i dipendenti pubblici sono passati da 3.627.139 a 3.396.810. Oltre 230mila persone hanno smesso di lavorare per lo stato negli ultimi cinque anni”. 
Ovviamente, al netto della citazione divertentissima della “Lady di Ferro” (qualcuno dovrebbe spiegare ai reduci di Stalin che la spesa pubblica in Italia ha continuato a lievitare), i numeri esposti non tengono conto della pletora di impiegati che sono assunti dal parastato, ovvero dalle decine di migliaia di aziende partecipate, dagli enti sussidiati, dalle pseudo-associazioni di volontariato che vivono di prebende estorte ai contribuenti, nonché dei vari consulenti a piripicchio che ottengono migliaia di euro per incarichi inutili. Quando si cerca di capire quanti siano realmente coloro che vivono di Stato, si finisce sempre con l’imbattersi in una sequela infinita di numeri, perché non è mai dato sapere con certezza chi “magna la pagnotta” a spese dei “productivos”. Le cronache ci raccontano quotidianamente di qualche finto ente privato, cooperativa (tipo il Manifesto), associazione dedita alla canasta, centro studi o fondazione che stanno in piedi grazie ai “soldi degli altri”.

L’altra notizia stava sul Gazzettino:
“Assenze ingiustificate anche di sei ore in una giornata lavorativa di otto. Finte missioni, shopping, visite al mercato settimanale e mille altre occupazioni. Tutto pur di non lavorare. Sono 101, su un totale di 115, i dipendenti assenteisti della sede di Rovigo della Regione Veneto”.
Due giorni fa, più o meno per gli stessi motivi, a Reggio Calabria ne hanno impacchettati 17 e ne hanno messi sotto inchiesta un altro centinaio.

Non ho simpatia per i “travet della burocrazia”, credo di averlo spiegato in più di un’occasione, anche perché oltre a non produrre ricchezza alcuna, il loro lavoro è inutile (qualora fosse utile ci penserebbe il mercato a far incontrare domanda ed offerta) ed è solo d’intralcio a chi ha in animo di intraprendere un’attività.

Il dipendente pubblico, inoltre, rappresenta il“simbolo dello Stato” per antonomasia (ecco perché piace tanto a quelli del Manifesto). Più sono più lo Stato irrompe nelle nostre vite, controllandoci, costringendoci a trasformarci in sudditi da spennare, perché è il controllo, il monopolio della forza, che giustifica l’esistenza stessa dello statale. Sosteneva Max Nordau che
“l’orgia di regolamentazione e il protocollismo non danno alla vita dell’individuo una garanzia maggiore di quella che dà la barbarie con tutta la sua assenza di regolamentazione”.
In Italia, siamo al “mandarinismo”, altro che civiltà, al punto che i dipendenti pubblici sono spesso organizzati in dinastie: il figlio di, il cugino di, il nipote di ottengono un posto di lavoro per cooptazione familiare, alla faccia dei ridicoli concorsi con valore legale e marca da bollo.

Più il sistema pubblico è presente, ed invasivo, nelle nostre vite e più siamo immersi in una sottospecie di “Kampuchea Democratica”.
Come spiegava Nietzsche verso la fine del Diciannovesimo secolo, 
“Il socialismo ambisce a una pienezza di potere statale, quale solo qualche volta il dispotismo ha avuta, anzi esso supera di gran lunga ogni forma analoga del passato, perché aspira espressamente all’annientamento dell’individuo”.
E per farlo ha bisogno di milioni di girapollici a tradimento, ironia della sorte pagati dalle loro stesse vittime sacrificali.
Ci trattano come fossimo dei Fantozzi e pretendono pure che gli si dica… “Come è umano lei…”

Fonte: srs di Leonardo Facco, visto su, l’Indipendenza,  di giovedì 11 aprile 2013

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