di LEONARDO FACCO
Ieri, la mia attenzione è stata attirata da due notizie,
entrambe aventi attinenza con i dipendenti pubblici, implacabile manodopera
dello Stato ladro, in servizio permanente per favorire il declino di questo
paese.
Una era sul Manifesto, questa:
“La cura neo-thatcheriana ai costi dello Stato inizia a
produrre i suoi effetti: dal 2006 al 2011 i dipendenti pubblici sono passati da
3.627.139 a 3.396.810. Oltre 230mila persone hanno smesso di lavorare per lo
stato negli ultimi cinque anni”.
Ovviamente, al netto della citazione divertentissima della
“Lady di Ferro” (qualcuno dovrebbe spiegare ai reduci di Stalin che la spesa
pubblica in Italia ha continuato a lievitare), i numeri esposti non tengono
conto della pletora di impiegati che sono assunti dal parastato, ovvero dalle
decine di migliaia di aziende partecipate, dagli enti sussidiati, dalle
pseudo-associazioni di volontariato che vivono di prebende estorte ai
contribuenti, nonché dei vari consulenti a piripicchio che ottengono migliaia
di euro per incarichi inutili. Quando si cerca di capire quanti siano realmente
coloro che vivono di Stato, si finisce sempre con l’imbattersi in una sequela
infinita di numeri, perché non è mai dato sapere con certezza chi “magna la
pagnotta” a spese dei “productivos”. Le cronache ci raccontano quotidianamente
di qualche finto ente privato, cooperativa (tipo il Manifesto), associazione
dedita alla canasta, centro studi o fondazione che stanno in piedi grazie ai
“soldi degli altri”.
L’altra notizia stava sul Gazzettino:
“Assenze ingiustificate anche di sei ore in una giornata
lavorativa di otto. Finte missioni, shopping, visite al mercato settimanale e
mille altre occupazioni. Tutto pur di non lavorare. Sono 101, su un totale di
115, i dipendenti assenteisti della sede di Rovigo della Regione Veneto”.
Due giorni fa, più o meno per gli stessi motivi, a Reggio
Calabria ne hanno impacchettati 17 e ne hanno messi sotto inchiesta un altro
centinaio.
Non ho simpatia per i “travet della burocrazia”, credo di
averlo spiegato in più di un’occasione, anche perché oltre a non produrre
ricchezza alcuna, il loro lavoro è inutile (qualora fosse utile ci penserebbe
il mercato a far incontrare domanda ed offerta) ed è solo d’intralcio a chi ha
in animo di intraprendere un’attività.
Il dipendente pubblico, inoltre, rappresenta il“simbolo
dello Stato” per antonomasia (ecco perché piace tanto a quelli del
Manifesto). Più sono più lo Stato irrompe nelle nostre vite, controllandoci,
costringendoci a trasformarci in sudditi da spennare, perché è il controllo, il
monopolio della forza, che giustifica l’esistenza stessa dello statale.
Sosteneva Max Nordau che
“l’orgia di regolamentazione e il protocollismo non danno
alla vita dell’individuo una garanzia maggiore di quella che dà la barbarie con
tutta la sua assenza di regolamentazione”.
In Italia, siamo al “mandarinismo”, altro che civiltà, al
punto che i dipendenti pubblici sono spesso organizzati in dinastie: il figlio
di, il cugino di, il nipote di ottengono un posto di lavoro per cooptazione
familiare, alla faccia dei ridicoli concorsi con valore legale e marca da
bollo.
Più il sistema pubblico è presente, ed invasivo, nelle
nostre vite e più siamo immersi in una sottospecie di “Kampuchea Democratica”.
Come spiegava Nietzsche verso la fine del Diciannovesimo
secolo,
“Il socialismo ambisce a una pienezza di potere statale,
quale solo qualche volta il dispotismo ha avuta, anzi esso supera di gran lunga
ogni forma analoga del passato, perché aspira espressamente all’annientamento
dell’individuo”.
E per farlo ha bisogno di milioni di girapollici a
tradimento, ironia della sorte pagati dalle loro stesse vittime sacrificali.
Ci trattano come fossimo dei Fantozzi e pretendono pure che
gli si dica… “Come è umano lei…”
Fonte: srs di Leonardo Facco, visto su, l’Indipendenza, di giovedì 11 aprile 2013
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