giovedì 11 aprile 2013

VECCHI E NUOVI SCHIAVI, UNA STORIA CHE VIENE DA LONTANO




di GIUSEPPE ISIDORO VIO

Il 13 di maggio del 1888 la principessa Isabella firmò la Legge Aurea decretando l’abolizione della schiavitù nell’ultimo paese al mondo in cui era ancora in vigore, il Brasile. Moltitudini di afrobrasiliani furono liberate dalla schiavitù, dal lavoro forzato nelle piantagioni dei fazendeiros, i grandi latifondisti brasiliani che fino allora avevano basato tutta la loro economia sullo schiavismo. Ciò che caratterizzava i proprietari di schiavi era di essere i portatori dell’ideale di non lavorare, la cui traduzione economica emblematica era la persona che, vivendo di rendita, si dedicava all’ozio e quasi sempre era favorita dalle decisioni economiche.

Questa logica, valorizzando chi non lavorava, fu incorporata dagli stessi schiavi al momento della loro liberazione. Per la maggior parte d’essi, il passaggio dalla condizione di presi a quella di cittadini significò soprattutto fare quello che prima non gli era permesso e che caratterizzava gli unici uomini liberi che conoscessero: non lavorare e dedicarsi all’ozio o almeno ad attività intellettuali, creative e ricreative. E’ evidente che la gran parte d’essi non avevano di fatto questa possibilità. Dovevano guadagnarsi da vivere e non c’era nessuno che lavorasse per essi, ma questo non impedì loro di essere contaminati dall’ideale secolare che permeava tutta la società brasiliana.

In altri termini nella loro ingenuità e semplicità possiamo dire che avevano stabilito un’equazione ben chiara che equiparava la schiavitù con il lavoro salariato, soprattutto se manuale e a prescindere dal salario percepito. Lavorare dalla mattina alla sera nei campi per percepire un salario che avrebbero rapidamente speso per il mantenimento proprio e dei famigliari o comunque sperperato in altre forme era forse peggio che essere mantenuti e accuditi come schiavi dai fazenderos dei quali costituivano tutto sommato un capitale imprescindibile che andava ben alimentato, curato dalle malattie e fatto prolificare negli anni. L’unica differenza con la schiavitù era che adesso potevano piantare tutto in asso e andarsene senza preoccuparsi del capataz che li avrebbe inseguiti e catturati per riportarli alla fazenda ed è questo che, di fatto, fecero.

Iniziò così l’esodo di queste masse di ex-schiavi verso le città, fino a quel tempo poco popolose, in cui intendevano cercare fortuna lasciandosi alle spalle la vita dei campi per iniziare una nuova vita nella capitale. Nacquero così tendopoli e baraccopoli ai margini delle capitali che si ampliarono sempre più dando origine al fenomeno delle favelas. La maggior parte d’essi dovettero comunque adattarsi a lavori autonomi di ripiego, al piccolo commercio e alcuni ai furti e alla delinquenza. Contemporaneamente, per rimpiazzare la manodopera persa, i governi locali diedero il via in Europa a campagne pubblicitarie che invitano la gente a emigrare in Brasile per incrementare e rafforzare un’immigrazione che già era in corso da un decennio. La colonia italiana costituì il maggior contingente di immigranti, seguiti in numero da portoghesi, spagnoli e tedeschi.

Questi immigranti erano già assuefatti alla realtà del lavoro libero e salariato e taluni già indottrinati nell’ideologia marxista, per cui non ebbero difficoltà a sostituire nei campi gli schiavi reclamando con forza per se stessi anche condizioni di lavoro e salario più soddisfacenti. Oggi, alla luce di tutti i cambiamenti che nel frattempo sono avvenuti nel modo, come il fallimento del comunismo, la crisi del capitalismo, la globalizzazione e la reazione a essa con i movimenti no global, la decrescita sostenibile e felice e l’ideale di una società che combini libertà individuale e creatività, siamo proprio sicuri che non avessero ragione gli ex-schiavi brasiliani a equiparare schiavitù a lavoro salariato e che non sia giunto il momento di abolire anche quest’ultimo?

Che differenza c’è tra gli eletti al Parlamento di uno Stato (i cui i cittadini sono come soci paritari di capitale) e gli amministratori di una grande società privatistica (i cui capitali appartengano a un diffuso e piccolo azionariato) se costoro si comportano come fossero, i primi, proprietari dello Stato e, i secondi, dell’impresa, aumentandosi gli emolumenti e le buone uscite a piacimento, indipendentemente dai risultati ottenuti e senza che i veri proprietari possano, di fatto, impedirglielo? In altri termini, non esistono grandi differenze tra statalismo, collettivismo e certe forme di capitalismo che si basano su grandi imprese e masse di salariati obbedienti e curvi ad eseguire lavori preordinati e di routine mentre burocrati o grandi manager ne detengono l’effettivo potere.

Se vogliamo perseguire l’ideale democratico e delle libertà individuali abbinate alla creatività umana, la via è come minimo quella di un’organizzazione statale molto snella e decentrata abbinata a un’economia basata sulla piccola e media impresa, salvo che non si trovi il modo di organizzare la grande impresa in maniera totalmente differente da com’è ora. Sarebbe utile ridurre al minimo i dipendenti pubblici e abolire il lavoro dipendente nel privato. Infatti, l’unificazione del sistema lavoro nel privato, puntando al solo lavoro autonomo e a società di persone o persone e capitale, potrebbe generare un credibile volano propulsivo che porti alla creazione d’innumeri posti di lavoro basati su creatività individuale, corresponsabilità, competitività, meritocrazia e ripartizione degli utili aziendali, rivoluzionando con ciò alla base il mercato del lavoro e il concetto stesso di lavoro. Ma per fare questo bisognerebbe convincere chi ancora preferisce rinunciare a parte della sua libertà in cambio di un lavoro garantito e ben retribuito per quanto ripetitivo e alienante, alla pari del cittadino che in uno stato centralista lontano e statalista, tende delegare ai politici la partecipazione democratica in cambio del benessere puramente materiale.

Purtroppo ora in Italia vi è una lampante sperequazione a favore dei lavoratori pubblici e dei salariati iper garantiti soprattutto della grande industria. I primi non possono essere licenziati mentre i secondi usufruiscono di ammortizzatori sociali, come la cassa integrazione in deroga. Questa è pagata dalla fiscalità generale cui contribuiscono pertanto anche lavoratori autonomi, artigiani, commercianti, micro e piccoli imprenditori pesantemente tassati, perseguiti da Equitalia e colpiti dalla crisi, che non possono delocalizzare non avendo capitali neanche per emigrare da questo paese ingiusto, e condannati a un destino paragonabile a quello di schiavi che col loro lavoro forzato e grazie a un prelievo fiscale assurdo mantengono altri cittadini privilegiati. L’abolizione del lavoro salariato sarebbe il modo radicale per eliminare le troppe anomalie per cui in alcuni casi esso equivale a schiavitù mentre in altre esso diventa un’odiosa forma di sfruttamento nei confronti di altri lavoratori.

In conclusione, si tratta dirimere la solita questione: è meglio fare un lavoro alienante per vivere o vivere per fare un lavoro esaltante. La risposta è ovvia, ma esiste una terza scelta, moralmente discutibile: vivere alle spalle di qualcun altro o di rendita, che di solito coincidono. Se un giorno, l’umanità troverà una fonte d’energia inesauribile e a portata di mano, le persone avranno infine anche la possibilità di dedicarsi a ciò che a loro piace e interessa realmente, senza che ciò debba per forza coincidere con qualcosa di economicamente utile e produttivo e allora nella costituzione italiana sarà finalmente scritto: «L’Italia è una repubblica democratica fondata sulla libertà e la felicità dei cittadini».

Fonte: srs di GIUSEPPE ISIDORO VIO, da L’indipendenza di giovedì 11 aprile 2012


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