di MURRAY N. ROTHBARD
Il nostro Paese è assediato da un gran numero di miti
economici che distorcono il pensiero della società sui problemi importanti
e ci portano ad accettare politiche di governo sbagliate e pericolose. Ecco
dieci dei più pericolosi di questi miti e un’analisi di ciò che è in loro
fallace.
MITO 1: I DEFICIT SONO LA CAUSA
DI INFLAZIONE, I DEFICIT NON HANNO NULLA A CHE FARE CON L’INFLAZIONE.
Negli ultimi decenni abbiamo sempre avuto deficit
federali. La risposta invariabile del partito all’opposizione, qualunque
esso sia, è stata quella di denunciare quei deficit come causa di inflazione
perpetua. E la risposta invariabile di qualunque partito al potere è stata
quella di sostenere che i deficit non hanno nulla a che fare con l’inflazione.
Entrambe le opposte affermazioni sono dei miti.
I deficit significano che il governo federale sta
spendendo più di quello che sta prendendo in tasse. Tali deficit possono
essere finanziati in due modi. Se essi sono finanziati con la vendita di buoni
del Tesoro alla società, allora i deficit non sono inflazionistici. Nessuna
nuova liquidità viene creata, le persone e le istituzioni semplicemente usano i
loro depositi bancari per pagare le obbligazioni e il Tesoro spende quei soldi.
Il denaro è stato semplicemente trasferito dalla società al Tesoro, poi il
denaro viene speso per gli altri membri del pubblico.
D’altra parte, il deficit può essere finanziato con la
vendita di obbligazioni al sistema bancario. In tal caso, le banche creano
nuova moneta con la creazione di nuovi depositi bancari e li utilizzano per
comprare le obbligazioni. Il nuovo denaro, sotto forma di depositi bancari è
speso dal Tesoro, e quindi entra definitivamente nel flusso della spesa
dell’economia, aumentando i prezzi e provocando inflazione. Con un processo
complesso, la Federal Reserve consente alle banche di creare il nuovo denaro
generando riserve bancarie di un decimo di quella cifra. Così, se le banche
comprano 100 miliardi di dollari di nuovi prestiti obbligazionari per
finanziare il deficit, la Fed acquista circa 10 miliardi di dollari di vecchi
buoni del Tesoro. Questo acquisto aumenta le riserve bancarie di 10 miliardi di
dollari e consente alla piramide bancaria la creazione di nuovi depositi
bancari o di denaro per dieci volte tale importo. In breve, il governo e il
sistema bancario controllano di fatto la “stampa” di nuovo denaro per pagare il
deficit federale.
Così, i deficit sono inflazionistici nella misura in cui
essi sono finanziati dal sistema bancario, non sono inflazionistici nella
misura in cui sono sottoscritti dal pubblico. Alcuni politici citano il periodo
1982-1983, quando i deficit sono aumentati e l’inflazione è iniziata a scendere
come una “prova” statistica che deficit ed inflazione non hanno alcuna
relazione tra di loro. Questa non è una prova valida. Variazioni dei prezzi
generali sono determinati da due fattori: l’offerta e la domanda di moneta.
Durante il 1982-1983 la Fed ha creato nuovo denaro ad un tasso molto elevato,
circa il 15% annuo. Molto di questo è andato a finanziare il deficit in
espansione. Ma d’altra parte, la grave depressione di questi due anni ha
aumentato la domanda di moneta (cioè ha abbassato il desiderio di spendere
soldi in beni) in risposta alle gravi perdite aziendali. Questo temporaneo
aumento compensato nella domanda di moneta non ha reso il deficit meno
inflazionistico. In realtà, come processo di salvataggio, l’aumento della spesa
ha fatto scendere la domanda di moneta, e la spesa di nuova moneta ha
accelerato l’inflazione.
MITO 2: I DEFICIT NON HANNO UN
EFFETTO DISTORSIVO SUGLI INVESTIMENTI PRIVATI.
Negli ultimi anni ci sono state preoccupazioni
comprensibili sul basso tasso di risparmio e di investimento negli Stati Uniti.
Una delle preoccupazioni è che l’enorme deficit federale dirotti il risparmio
verso la spesa pubblica improduttiva e quindi distorca gli investimenti
produttivi, generando sempre maggiori problemi di lungo periodo in futuro nel
livello di vita dei cittadini.
Alcuni politici, ancora una volta hanno tentato di
confutare questa accusa con le statistiche. Dichiarano che nel 1982-83
i deficit erano elevati e in crescita mentre i tassi di interesse erano scesi,
indicando in tal modo che i deficit non hanno alcun effetto distorsivo. Questo
argomento mostra ancora una volta l’errore di cercare di confutare la logica
con le statistiche. I tassi di interesse sono scesi a causa del calo
dell’indebitamento aziendale in una fase di recessione. I tassi di interesse
“reali” (tassi di interesse meno il tasso di inflazione) sono rimasti elevati
senza precedenti; in parte perché la maggior parte di noi si aspetta una
ripresa dell’inflazione, in parte a causa dell’effetto distorsivo.
In ogni caso, le statistiche non possono confutare la
logica, e la logica ci dice che se risparmi vanno in titoli di Stato, ci sarà
necessariamente meno risparmio disponibile per gli investimenti produttivi,
i tassi di interesse sarebbero più alti in assenza di deficit. Se i deficit
sono finanziati dalla società, allora questo dirottamento del risparmio verso
progetti di governo è diretto e palpabile. Se i deficit sono finanziati
dall’inflazione bancaria, la deviazione è indiretta, la distorsione si sta
svolgendo col nuovo denaro “stampato” dal governo in competizione per le
risorse con il vecchio denaro risparmiato dalla società.
Milton Friedman ha cercato di confutare l’effetto di
distorsione dei deficit, affermando che tutta la spesa del governo, non
solo i deficit, distorcono il risparmio privato e gli investimenti. E’ vero che
i soldi dirottati dalle tasse potrebbero anche essere andati in risparmio
privato e in investimenti, ma i deficit hanno un effetto assai più distorsivo
che la spesa complessiva, in quanto i deficit finanziati dal pubblico
ovviamente toccano il risparmio e solo il risparmio, mentre le imposte riducono
il consumo della società così come il risparmio.
Così i deficit, in qualunque modo li si guardino, causano
gravi problemi economici. Se finanziati dal sistema bancario sono
inflazionistici. Ma anche se sono finanziati dal pubblico causeranno comunque
gravi effetti distorsivi, dirottando il risparmio necessario da investimenti
privati produttivi a progetti governativi dispendiosi. Inoltre maggiore è il
deficit maggiore è la pressione fiscale sul reddito permanente sul popolo
americano al fine di pagare gli interessi crescenti, un problema aggravato
dagli alti tassi di interesse derivanti da deficit inflazionistici.
MITO 3: GLI AUMENTI FISCALI SONO
UNA CURA AL PROBLEMA DEL DEFICIT.
Quelle persone preoccupate per il deficit offrono
purtroppo una soluzione inaccettabile: un aumento delle tasse. Curare un
deficit aumentando le tasse equivale a curare la bronchite di qualcuno
sparandogli. La “cura” è di gran lunga
peggiore della malattia. Uno dei motivi, che molti critici hanno sottolineato,
è che l’aumento delle tasse dà semplicemente al governo più soldi, e così i
politici e i burocrati sono suscettibili di reagire aumentando ulteriormente le
spese. Parkinson nella sua celebre “legge” ha detto: «le spese salgono per
incontrare le entrate». Se il governo è disposto ad avere, ad esempio un
deficit del 20%, gestirà gli elevati ricavi per portare la spesa ancora più in
alto al fine di mantenere la stessa percentuale di deficit.
Ma anche a prescindere da questo giudizio sagace nella
psicologia politica, perché qualcuno dovrebbe credere che una tassa è meglio di
un prezzo più alto? E’ vero che
l’inflazione è una forma di tassazione, in cui il governo e altri primi
ricevitori di nuova moneta sono in grado di espropriare i membri della società
con un loro rapido aumento del reddito in seguito al processo di inflazione. Ma
almeno con l’inflazione la gente sta ancora raccogliendo alcuni dei benefici di
scambio. Se il pane sale a 10 dollari alla pagnotta, questo è un peccato ma
almeno si può ancora mangiare il pane. Ma se le tasse salgono, il vostro denaro
è espropriato a vantaggio dei politici e dei burocrati, i quali non lasciano
nessun servizio o beneficio. L’unico risultato è che i soldi dei produttori è
confiscato a beneficio di una burocrazia che aggiunge alla beffa un danno,
utilizzando una parte di quel denaro confiscato per spingere attorno a sé la
società. No, l’unica vera cura per il deficit è semplice ma praticamente sotto
silenzio: tagliare il bilancio federale. Come e dove? Ovunque e dappertutto.
MITO 4: OGNI VOLTA CHE LA FED
DIMINUISCE L’OFFERTA DI MONETA, I TASSI D’INTERESSE AUMENTANO (O SCENDONO);
OGNI VOLTA CHE LA FED ESPANDE L’OFFERTA DI MONETA, I TASSI DI INTERESSE SALGONO
(O SCENDONO).
La stampa finanziaria ora ne sa abbastanza di economia
per guardare i dati settimanali di approvvigionamento di denaro come falchi, ma
inevitabilmente interpretano questi dati in modo caotico. Se l’offerta di
moneta aumenta questo viene interpretato come l’abbassamento dei tassi di
interesse ed inflazionari, ma è anche spesso interpretato nello stesso articolo
come l’aumento dei tassi di interesse. E viceversa, se la Fed stringe la
crescita della moneta viene interpretato sia come un aumento dei tassi di
interesse che come loro taglio. A volte sembra che tutte le azioni della Fed,
non importa quanto contraddittorie, debbano risultare un aumento dei tassi di
interesse. Chiaramente c’è qualcosa di molto sbagliato qui.
Il problema è che, come nel caso dei livelli di prezzo,
ci sono diversi fattori causali operanti sui tassi di interesse ed in direzioni
diverse. Se la Fed amplia l’offerta di moneta, lo fa generando più riserve
bancarie e ampliando in tal modo l’offerta di credito bancario e di depositi
bancari. L’espansione del credito significa necessariamente un aumento
dell’offerta nel mercato del credito e, quindi, un abbassamento del prezzo del
credito o tasso di interesse. D’altra parte, se la Fed limita l’offerta di
credito e la crescita dell’offerta di moneta, questo significa che l’offerta
cala sul mercato del credito, e dovrebbe significare un aumento dei tassi di
interesse.
E questo è precisamente ciò che accade nel primo decennio
o due di inflazione cronica. L’espansione voluta dalla Fed abbassa i tassi
di interesse; un loro inasprimento da parte della Fed li solleva. Ma dopo
questo periodo, la società e il mercato cominciano a prendere coscienza di ciò
che sta accadendo. Cominciano a rendersi conto che l’inflazione è cronica a
causa dell’espansione sistemica dell’offerta di moneta. Quando si rendono conto
di questo dato di fatto, essi dovranno anche comprendere che l’inflazione
cancella il creditore a favore del debitore. Così, se qualcuno concede un
prestito al 5% per un anno e vi è l’inflazione al 7% in quell’anno, il
creditore ci perde e non guadagna. Perde il 2% dal momento che viene pagato di
nuovo in dollari che ora valgono il 7% in meno del loro potere di acquisto. Viceversa,
il debitore guadagna dall’inflazione. Non appena i creditori cominciano a
capire questo, pongono un premio di inflazione sul tasso di interesse che i
debitori saranno disposti a pagare.
Quindi, nel lungo periodo nulla più alimenta le
aspettative di inflazione che l’aumento dei premi sui tassi di interesse a
fronte dell’inflazione, e nulla smorza di più le aspettative che
l’abbassamento di quei premi. Pertanto, un inasprimento della Fed tenderà ora a
smorzare le aspettative di inflazione con tassi di interesse più bassi, una
espansione da parte della Fed accende di nuovo quelle aspettative di crescita.
Ci sono due opposte tendenze causali al lavoro. E così l’espansione o la
contrazione operata dalla Fed possono sia aumentare o diminuire i tassi di interesse
a seconda di quale tendenza causale sia più forte. Quale sarà la più forte? Non
c’è modo di saperlo con certezza. Nei primi decenni di inflazione non vi è
alcun premio d’inflazione; nei decenni successivi, come siamo ora, vi è. La
forza relativa e i tempi di reazione dipendono dalle aspettative soggettive
della società e queste non possono essere previste con certezza. Questo è uno
dei motivi per cui le previsioni economiche non possono mai essere fatte con
certezza.
MITO 5: GLI ECONOMISTI, UTILIZZANDO
GRAFICI O MODELLI DI COMPUTER AD ALTA VELOCITÀ, SONO IN GRADO DI PREVEDERE CON
PRECISIONE IL FUTURO.
Il problema della previsione sui tassi d’interesse
illustra le insidie di porre previsioni in generale. Le persone sono
maledettamente spaventate di tale comportamento, e grazie al cielo non si può
prevedere con precisione. I loro valori, le idee, le aspettative e le
conoscenze cambiano continuamente, e cambiano in modo imprevedibile. Quale
economista, per esempio, avrebbe potuto prevedere (o ha previsto) la Cabbage
Patch Kid mania nel Natale del 1983? Ogni quantità economica, ogni prezzo,
acquisto o reddito è l’incarnazione di migliaia, addirittura milioni, di scelte
imprevedibili da parte di individui.
Molti studi, formali ed informali sono stati fatti
registrando le previsioni degli economisti, i quali hanno dato risultati
costantemente abissali. I futurologi spesso si lamentano che non possono
fare abbastanza bene finché le tendenze attuali sono continue, ciò che hanno
difficoltà a fare è il cogliere i cambiamenti di tendenza. Ma naturalmente non
c’è una scorciatoia che permetta di estrapolare le tendenze attuali in un
prossimo futuro. Non hai bisogno di sofisticati modelli computerizzati per fare
questo, si può fare meglio e molto più a buon mercato utilizzando un righello.
Il vero trucco sta proprio nel far credere di poter prevedere quando e come un
trend cambierà, e i previsori notoriamente fanno male questo compito. Nessun
economista ha previsto la gravità della depressione del 1981-1982 e nessuno ne
ha predetto la sua permanenza nel 1983. La prossima volta che siete influenzati
dal gergo o dalla competenza apparente di questi previsori economici, ponetevi
questa domanda: se può realmente prevedere il futuro così bene, perché sta
sprecando il suo tempo a mandare newsletter o fare consulenze quando egli
stesso potrebbe fare migliaia di miliardi di dollari nelle Borse merci e
valori?.
MITO 6: ESISTE UN COMPROMESSO TRA
DISOCCUPAZIONE ED INFLAZIONE.
Ogni volta che qualcuno chiede al governo di abbandonare
le sue politiche inflattive, economisti e politici delle istituzioni avvertono
che il risultato può essere solo un aggravamento della disoccupazione.
Siamo quindi intrappolati nell’avere inflazione contro alta disoccupazione,
diventando persuasi che dobbiamo accettare entrambe. Questa tesi è la posizione
di ripiego dei keynesiani. In origine, i keynesiani ci hanno promesso che,
manipolando per bene i deficit e la spesa pubblica, ci avrebbero portato la
prosperità permanente e la piena occupazione senza inflazione. Poi, quando
l’inflazione è diventata cronica e sempre più alta, hanno cambiato la loro
melodia avvertendoci della necessità di un compromesso, il tutto al fine di non
esercitare ogni possibile pressione sul governo per fermare la sua creazione
inflazionistica di nuova moneta.
La dottrina del compromesso si basa sulla presunta “curva
di Phillips”, una curva inventata molti anni fa dall’economista britannico A.
W. Phillips. Phillips ha correlato il tasso di incremento salariale con la
disoccupazione, e ha poi affermato che i due si muovono inversamente: maggiore
è l’aumento dei salari, minore è la disoccupazione. Questa però è una tesi
particolare, dal momento che viaggia al di là della logica e del senso comune.
La teoria ci dice che maggiore è la retribuzione, maggiore è il tasso di
disoccupazione, e viceversa. Se ognuno andasse domani dal suo datore di lavoro
e insistesse su un aumento doppio o triplo del suo salario, molti di noi
sarebbero prontamente senza lavoro. Eppure questo risultato bizzarro è stato
accettato come il Vangelo dall’istituzione economica keynesiana.
A questo punto, dovrebbe essere chiaro che questo
risultato statistico nega i fatti così come la teoria logica. Durante il
corso degli anni ’50 (del XX° secolo, n.d.t), l’inflazione era solo circa
l’1-2% annuo, e la disoccupazione si aggirava intorno al 3-4%, in seguito il
tasso di disoccupazione era compreso tra l’8-11%, e l’inflazione tra il 5% e il
13%. In breve, negli ultimi due o tre decenni sia l’inflazione che la
disoccupazione sono aumentati bruscamente e severamente. Semmai abbiamo avuto
una curva inversa di Phillips. Vi è tutt’altro che un compromesso tra
inflazione-disoccupazione.
Ma gli ideologi raramente lasciano il posto ai fatti,
anche se dicono continuamente di “testare” le loro teorie coi fatti. Per
salvare il concetto, hanno semplicemente concluso che la curva di Phillips
rimane ancora un compromesso tra inflazione-disoccupazione, salvo che la curva
ha inspiegabilmente “virato” per una nuova serie di presunti compromessi.
Ovviamente dinnanzi a questo tipo di mentalità, nessuno mai potrebbe confutare
qualsiasi teoria.
In realtà, l’inflazione corrente anche se riduce la
disoccupazione nel breve periodo, inducendo i prezzi ed aumentando i tassi salariali
(in modo da ridurre i salari reali), creerà solo più disoccupazione nel lungo
periodo. Alla fine, i tassi salariali aumentati con l’inflazione e
l’inflazione stessa portano alla recessione e alla disoccupazione
inevitabilmente quale esito. Dopo più di due decenni di inflazione ora stiamo
vivendo in quel “lungo periodo”.
MITO 7: LA DEFLAZIONE (O CALO DEI
PREZZI) È IMPENSABILE, E POTREBBE CAUSARE UNA DEPRESSIONE CATASTROFICA.
La memoria della gente è corta. Ci dimentichiamo che,
dall’inizio della rivoluzione industriale a metà del XVIII° secolo fino
all’inizio della seconda guerra mondiale, i prezzi in generale sono diminuiti
anno dopo anno. Questo perché è continuamente aumentata la produttività e
la produzione di beni generati col libero mercato causando un crollo dei
prezzi. Non c’era però la depressione, poiché i costi sono scesi con i prezzi
di vendita. Di solito i salari sono rimasti costanti mentre il costo della vita
è sceso, in modo che i salari “reali” o lo standard di vita di ciascuno di noi
aumentasse costantemente.
Praticamente l’unico momento in cui i prezzi sono
aumentati in più di due secoli è stato nei periodi di guerra (guerra
del 1812, guerra civile, prima guerra mondiale), quando i governi belligeranti
hanno gonfiato l’offerta di moneta così pesantemente per pagare la guerra, come
e più che nel compensare i continui guadagni della produttività. Possiamo
vedere come il capitalismo di libero mercato funzioni in assenza di inflazione
da parte di un banca governativa o centrale se guardiamo a quanto è successo in
questi ultimi anni coi prezzi dei computer. Un semplice computer usato costava
inizialmente una enormità, milioni di dollari. Ora, con un notevole aumento
della produttività indotta dalla rivoluzione dei microchip, i computer stanno
calando nel prezzo anche mentre scrivo. Le aziende di computer ci sono
riuscite, nonostante il calo dei prezzi, perché i loro costi sono in calo
mentre è in aumento la loro produttività.
In realtà questi costi in diminuzione e nei prezzi hanno permesso
loro di toccare un caratteristico mercato di massa con una crescita dinamica
del capitalismo di libero mercato. La “deflazione” non ha portato a nessun
disastro in questa industria. Lo stesso è valso per altri settori ad alta
crescita: dei calcolatori elettronici, della plastica, dei televisori e dei
videoregistratori. La deflazione, lungi dal portare alla catastrofe, è il segno
distintivo di una crescita economica sana e dinamica.
MITO 8: LA MIGLIORE TASSA È UNA
TASSA “PIATTA” SUL REDDITO, PROPORZIONATA AL REDDITO A TUTTO CAMPO SENZA
ECCEZIONI O DEDUZIONI.
Di solito è proposto dai sostenitori della flat tax, che
l’eliminazione di alcune esenzioni consentirebbe al governo federale di ridurre
l’aliquota fiscale vigente in modo sostanziale. Ma questa visione assume,
per dirne una, che le deduzioni dall’imposta sul reddito attuali siano
sovvenzioni immorali o “scappatoie” che dovrebbero essere terminate per il bene
di tutti. Una detrazione o l’esenzione è solo una “scappatoia” se si assume che
il governo detenga il 100% del reddito di tutti e che permetta ad alcuni di
tali redditi di rimanere tassati, e che questo costituisca una irritante
“scappatoia”.
Permettere a qualcuno di mantenere un po’ del suo reddito
non è né una scappatoia né una sovvenzione. Abbassando le imposte
complessiva abolendo le detrazioni per le cure mediche, per i pagamenti di
interessi, o per le perdite non assicurate, semplicemente si abbassano le tasse
a un gruppo di persone (quelle che hanno poco interesse a pagare le spese
mediche o le perdite non assicurate), a spese di crescerle per coloro che hanno
sostenuto tali spese.
Non vi è inoltre alcuna garanzia né probabilità che, una
volta che le esenzioni e le deduzioni siano sicure, il governo mantenga la sua
aliquota fiscale al livello più basso. Guardando il record dei governi
passati e presenti ci sono tutte le ragioni per ritenere che il nostro denaro
venga preso dal governo riaumentando il tasso di sicurezza fiscale (almeno) al
vecchio livello, con un conseguente maggiore drenaggio dai produttori alla
burocrazia.
Si suppone che il sistema fiscale debba essere analogo ai
prezzi o ai redditi sul mercato, ma il prezzo di mercato non è proporzionale al
reddito. Sarebbe un mondo strano, se per esempio, Rockefeller fossero
costretti a pagare 1.000 dollari per un pezzo di pane, ovvero un pagamento
proporzionale al suo reddito rispetto alla media. Ciò significherebbe un mondo
in cui l’uguaglianza dei redditi è stata applicata in modo particolarmente
bizzarro ed inefficiente. Se una tassa fosse applicata come un prezzo di
mercato, sarebbe pari ad ogni “cliente”, non proporzionato al reddito di
ciascun cliente.
MITO 9: UN TAGLIO DELLE IMPOSTE
SUL REDDITO AIUTA TUTTI, NON SOLO IL CONTRIBUENTE MA ANCHE IL GOVERNO, IL QUALE
NE POTREBBE BENEFICIARE DAL MOMENTO CHE LE ENTRATE FISCALI AUMENTEREBBERO
QUANDO IL TASSO DI PRESSIONE FISCALE VIENE TAGLIATO.
Questa è la cosiddetta “curva di Laffer”, stabilita
dall’economista californiano Arthur Laffer. E’ stata avanzata come un
mezzo per consentire ai politici di quadrare il cerchio, riuscendo ad operare i
tagli fiscali mantenendo la spesa al livello attuale e il pareggio del
bilancio, tutto allo stesso tempo. In questo modo, la società avrebbe goduto
del taglio delle tasse, felice del pareggio di bilancio, continuando a ricevere
lo stesso livello di sussidi da parte del governo.
E’ vero che se le aliquote fiscali sono al 99%, e sono
tagliate a 95%, il gettito fiscale salirà, ma non c’è motivo di ritenere
tali semplici connessioni come valide in qualsiasi altro momento.
In realtà, questo rapporto funziona molto meglio per una accisa locale che per
una imposta sul reddito nazionale. Alcuni anni fa, il governo del Distretto di
Columbia decise di procurarsi un po’ di entrate aumentando bruscamente la tassa
sulla benzina nel Distretto, ma gli automobilisti sarebbero semplicemente
andati oltre il confine in Virginia o Maryland a fare il pieno a un prezzo
molto più economico. Con grande dispiacere e confusione i burocrati di D.C.
hanno poi dovuto abrogare la tassa.
Ma questo non è probabile che accada con l’imposta sul
reddito. Le persone non stanno andando a smettere di lavorare o
abbandonando il Paese a causa di un relativamente piccolo aumento delle tasse,
oppure facendo il contrario a causa di un taglio delle tasse. Ci sono alcuni
altri problemi con la curva di Laffer. La quantità di tempo che dovrebbe
servire affinché avvenga l’effetto Laffer non viene mai specificato. Ma cosa
ancora più importante: Laffer presuppone che ciò che tutti noi vogliamo sia
quello di massimizzare le entrate fiscali verso il governo. Se per ipotesi
fossimo veramente alla metà superiore della curva di Laffer, dovremmo quindi
tutti quanti voler impostare le aliquote fiscali a quel punto “ottimale”. Ma
perché? Perché dovrebbe essere l’obiettivo di tutti noi al fine di massimizzare
le entrate del governo? Perché dirottare al massimo la quota di prodotto
privato verso le attività di governo? Piuttosto dovremmo pensare ad essere più
interessati a ridurre al minimo le entrate del governo, spingendo le aliquote
fiscali molto, molto al di sotto di qualunque “ottimo lafferiano”.
MITO 10: LE IMPORTAZIONI DA PAESI
DOVE LA MANODOPERA È A BASSO COSTO CAUSA LA DISOCCUPAZIONE NEGLI STATI UNITI.
Uno dei molti problemi con questa tesi è che si ignora la
domanda: perché sono bassi i salari in un Paese straniero ed alti negli Stati
Uniti? Si inizia con questi tassi salariali come ultimo dato ma non si
persegue la domanda perché quelli lo siano. In sostanza sono alti negli Stati
Uniti perché la produttività del lavoro è alto, perché qui i lavoratori sono
aiutati da una grande quantità di beni strumentali tecnologicamente avanzati. I
salari sono bassi in molti Paesi stranieri perché i beni strumentali sono
minori e tecnologicamente primitivi. Senza l’aiuto di un capitale, la
produttività dei lavoratori è di gran lunga inferiore a quella degli Stati
Uniti.
I salari in tutti i paesi sono determinati dalla
produttività dei lavoratori in quel Paese. Quindi, gli alti salari negli
Stati Uniti non sono una minaccia permanente alla prosperità americana ma sono
il risultato di tale prosperità. Ma ciò nonostante, perché certe industrie
negli Stati Uniti si lamentano ad alta voce e cronicamente per la concorrenza
“sleale” di prodotti da Paesi a bassi salari? Dobbiamo renderci conto che i
salari in ogni Paese sono interconnessi a un settore e con l’occupazione di
un’altra regione. Tutti i lavoratori sono in concorrenza tra loro e se i salari
nel settore A sono molto più bassi che in altri settori, i lavoratori, specie i
giovani lavoratori che iniziano la loro carriera, lascerebbero o si
rifiuterebbero di entrare nell’industria A, preferendo altre imprese o settori
in cui il tasso di salario è maggiore.
I salari nelle industrie che si lamentano sono alti
perché vi è un’offerta elevata da parte delle industrie presenti negli Stati
Uniti. Se le industrie siderurgiche e tessili negli Stati Uniti hanno
difficoltà a competere con i loro omologhi all’estero non è perché le imprese
straniere stanno pagando bassi salari, ma a causa di altre industrie americane
che hanno spinto in alto i salari americani ad un livello tale che le altre
industrie dell’acciaio e del tessile non possono permettersi di pagare. In
breve, ciò che sta realmente accadendo è che le industrie dell’acciaio e
tessili o altre imprese, stanno utilizzando la manodopera in modo inefficiente
rispetto ad altre industrie americane.
Le tariffe o le quote di importazione per mantenere le
imprese inefficienti o le industrie in funzione fanno male a tutti, in ogni
Paese, in chi non è in quel settore. Esse danneggiano tutti i consumatori
americani mantenendo i prezzi alti e tenendo la qualità e la concorrenza bassa,
distorcendo la produzione. Una tariffa o una quota di importazione equivale a
tagliare una ferrovia o distruggere una compagnia aerea al solo scopo di
rendere il trasporto internazionale artificialmente più costoso.
Le tariffe e le quote di importazione colpiscono anche le
altre industrie americane efficienti dall’impegnare risorse che altrimenti
avrebbero usi più efficienti. Nel lungo periodo, le tariffe e le quote,
come ogni sorta di monopolio di privilegio conferito dal governo, sono una
manna per le imprese protette e sovvenzionate. Poiché, come abbiamo visto nel
caso di ferrovie e compagnie aeree, le industrie godono del monopolio
conferitogli dal governo (sia per mezzo di tariffe o regolamenti) alla fine
queste diventano così inefficienti che perdono soldi in ogni caso, e questo
sempre più comporta nuovi salvataggi per assolvere ad una loro perpetua
espansione privilegiata al riparo dalla libera concorrenza.
Fonte: da L’INDIPENDENZA del
19-20 aprile 2013
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