Grassi, sale e zucchero. Sono i tre ingredienti base che
l’industria alimentare usa nelle merende e in altri prodotti di largo
consumo, che creano dipendenza e danneggiano la salute. Un libro appena
uscito negli Stati Uniti denuncia le responsabilità delle grandi multinazionali
Il sacchetto si apre con un fruscìo. L’aroma di carne affumicata
sale nel naso. Ed eccole, le allettanti patatine: sottilissime, vaporose,
spolverizzate di rosso. Appena la prima tocca la lingua, in bocca si diffonde
un piacevole gusto salato, che però svanisce rapidamente. Cric, croc. Si scioglie in bocca, e in un attimo è già
finita. Resta solo un leggero retrogusto. E la voglia di mangiarne ancora. La
mano corre di nuovo al sacchetto. Milioni e milioni di persone ogni giorno cedono
alla tentazione degli snack a base di patate. Ma nessuna ha idea di quanti
studi si nascondano dietro a questa semplice esperienza, a cui spesso non
riesce a resistere neanche chi sa benissimo che le patatine fritte sono uno dei
cibi ipercalorici più malsani. I tedeschi ne consumano quasi 400 milioni di
confezioni all’anno. Perché perdiamo tanto facilmente il senso della misura
quando ci mettono sotto il naso un sacchetto di patatine fritte? Non può
dipendere dalle patate: finora nessuno ha mai sentito parlare di orge a base di
patate sbucciate. E poi le patatine fritte confezionate hanno poco a che fare
con le patate vere. Nel processo di produzione, quasi nulla è lasciato al caso:
sono un prodotto artificiale raffinato che grazie a una serie di trucchi induce
le persone a mangiarne il più possibile e il più spesso possibile.
Prendiamo per esempio il concetto scientifico di “punto di rottura”. Le industrie
alimentari hanno scoperto che la maggioranza dei consumatori preferisce
una patatina che si spezza sotto una pressione di 276 millibar. È così che il croc dà il massimo del gusto e
fa venir voglia di mangiare subito un’altra patatina. Anche il fatto che il
boccone si disfi all’istante, dissolvendosi sotto i denti, è frutto di un
calcolo. Tutti infatti tendiamo a credere che un cibo che si scioglie
rapidamente sulla lingua contenga poche calorie. E così sgranocchiamo una
patatina dopo l’altra fino a vuotare il sacchetto.
Poi ci sono le sostanze che servono da esca per il cervello.
Per esempio un’abbondante dose di sale sulla superficie di certi alimenti
attiva il meccanismo neuronale della ricompensa. “Bliss point” ovvero di beatitudine è il nome che le aziende
danno alla dose di sale che procura il massimo “sballo”. L’amido, un tipo di
zucchero che fa aumentare e poi rapidamente scendere la glicemia, aumenta
l’appetito. Infine c’è il grasso, di cui le patatine sono imbevute: è quello
che procura la piacevole sensazione vellutata in bocca.
Non si può rimproverare l’industria alimentare se cerca di
rendere appetitosi i suoi prodotti o di incoraggiarne il consumo: è la legge
del mercato. Ma c’è da chiedersi se questa politica non vada limitata in
qualche modo. Che dire dei produttori che mettono a rischio intenzionalmente, o
addirittura dolosamente, la salute dei consumatori, lanciando sul mercato
prodotti che creano dipendenza?
Che fare quando gli
scienziati arrivano alla conclusione che il consumo di massa di alimenti
industriali a basso prezzo ha provocato la più grande crisi sanitaria del
nostro tempo?
Gli scandali alimentari che recentemente hanno scosso la
Germania – la presenza di carne di cavallo in certe marche di lasagne,
l’imbroglio delle uova “biologiche”, l’aggiunta di enzimi ricavati
dall’Aspergillus, un fungo tossico, ai mangimi per l’allevamento – pongono al
centro dell’attenzione un’industria potente e globalizzata. La carne avariata
nel kebab, il finto prosciutto sulla pizza, le sostanze chimiche cancerogene
nelle patatine fritte: quando si scoprono queste cose, l’opinione pubblica
protesta. Ma nel giro di qualche giorno l’agitazione si placa. E la grande abbuffata
continua.
Ora però sembra che la situazione stia cambiando. Sta
nascendo un movimento internazionale, a cui partecipano medici, nutrizionisti,
psicologi e associazioni per la tutela dei consumatori, che vuole mettere al
centro dell’attenzione un tema molto più importante.
Secondo gli esperti di salute, il vero problema non sono né
le sofisticazioni alimentari né le singole sostanze nocive, ma il generale
aumento di peso delle persone. Gli scienziati lo dicono chiaramente: le
patatine piene di grasso, le bevande gassate zuccherate e i prodotti alimentari
troppo raffinati non sono diversi da altri due veleni altrettanto piacevoli e
onnipresenti, il tabacco e l’alcol.
Nel suo nuovo libro “Salt
sugar fat: how the food giants hooked us”, appena uscito negli Stati Uniti,
il premio Pulitzer Michael Moss
descrive tutti i trucchi con cui le industrie alimentari spingono le persone a
mangiare sempre di più, fino ad ammalarsi.
I giganti dell’alimentazione, spiega Moss, conoscevano gli
effetti devastanti dei loro prodotti sulla salute dei consumatori, e se ne sono
infischiati.
Moss ha ricostruito un incontro che si svolse l’8 aprile
1999 nel quartier generale della Pillsbury, a Minneapolis. C’erano i capi dei
più grandi gruppi del settore: Nestlé, Kraft, Coca-Cola, Mars, Nabisco,
Pillsbury, General Mills e Procter & Gamble. L’argomento all’ordine del
giorno era l’allarmante aumento dell’obesità nei bambini. Michael Mudd, uno dei vice-presidenti della
Kraft, andò subito al sodo: “Non ci sono
risposte semplici alla domanda su cosa debbano fare i responsabili della salute
pubblica per arginare il problema, né su cosa debba fare l’industria alimentare
se altri la accuseranno”. Solo una cosa è certa, concluse, “non possiamo non fare niente”. Alla fine
del suo intervento Mudd propose di limitare l’impiego di sostanze dannose per
la salute e ripensare le strategie di marketing delle aziende alimentari. Ma il
suo appello incontrò un netto rifiuto, e la riunione si concluse con un nulla
di fatto.
Irresistibili
A 14 anni di distanza, nel febbraio del 2012, la rivista
scientifica The Lancet ha pubblicato
uno studio condotto da un’équipe internazionale di epidemiologi. I risultati
sono agghiaccianti: gli impegni presi dall’industria alimentare, le tante buone
intenzioni, non sono serviti a nulla. Come spiega Rob Moodie dell’università di Melbourne, che ha guidato la ricerca,
sperare che le aziende fabbricassero prodotti più sani e si occupassero del
benessere e dell’indice di massa corporea dei consumatori è stato come “chiedere a dei ladri d’appartamento di
montare la serratura”. Finora la potente
lobby del settore alimentare è riuscita a soffocare sul nascere i tentativi dei
politici europei e statunitensi di proteggere i cittadini dall’invasione di
calorie promossa dall’industria alimentare con l’aiuto di leggi o regolamenti.
Associazioni per la difesa dei consumatori, aziende sanitarie e pediatri hanno
preteso invano che i cibi dannosi per la salute fossero almeno contrassegnati
in modo chiaro.
Intanto la situazione peggiora: nel 2010 quasi 35 milioni di
persone nel mondo sono morte di malattie non trasmissibili come il cancro,
l’infarto e il diabete. Nello stesso anno il 65 per cento dei decessi era
riconducibile almeno in parte ad abitudini di vita malsane: fumo, alcol, scarso
esercizio fisico, ma anche assunzione di bombe caloriche ad alto tenore di
grassi.
Il problema è particolarmente grave negli Stati Uniti: un
adulto su tre è obeso, un bambino su cinque è troppo grasso. Gli americani
malati di diabete di tipo 2 sono 26 milioni. Anche in Germania la situazione è
preoccupante: un adulto su cinque e un bambino su dieci sono obesi e secondo il
Robert Koch-Institut, un istituto di ricerca biomedica tedesco, il 67 per cento
degli uomini e il 53 per cento delle donne sono sovrappeso.
Come siamo arrivati a questo punto?
Che ruolo ha avuto l’industria alimentare? E soprattutto,
come possiamo evitare la catastrofe? Lo abbiamo chiesto a David Kessler, il giurista e medico di Harvard che negli anni
novanta, quando dirigeva la FDA (Food and Drug Administration), l’ente statunitense per la tutela della saluta
pubblica, ha condotto una dura battaglia contro le lobby del tabacco e ha
contribuito a negoziare un accordo miliardario tra i produttori di sigarette e
46 stati americani. Il suo ultimo libro, “Overeating”, è un atto di accusa
contro l’industria alimentare.
Oggi Kessler ha 61 anni e insegna pediatria all’università
della California a San Francisco. Ci accoglie nella sua graziosa villa, in una
delle tipiche stradine ripide del centro di San Francisco, e viene subito al
dunque. Prende un pezzo di carta e con la biro abbozza un grafico del tema
centrale del suo studio, la bulimia. Prende diversi anni e confronta il peso
corporeo e l’età delle persone: nei più giovani la curva si inarca verso
l’alto, proprio come una pancia. “Oggi i
ventenni pesano almeno otto chili in più rispetto a quarant’anni fa”,
spiega. “Ho cercato di capire perché, e
come mai molti trovano così difficile resistere a questo desiderio
incontenibile di cibo”.
Per cominciare, Kessler ha studiato la dieta dell’americano
medio. Si è intrufolato di notte nei ristoranti per frugare nella spazzatura e
ha studiato le etichette dei cartoni vuoti. Così ha
capito cosa viene veramente servito ai
tavoli. Si può riassumere in tre parole:
sale, zucchero, grasso. Le stesse tre parole che ha scelto Michael Moss per il titolo del suo libro. Lo ha scritto dopo quasi
quattro anni di ricerche, centinaia di colloqui con dirigenti e dipendenti di
grandi industrie alimentari, chimici, nutrizionisti, studiosi del
comportamento, esperti di marketing e lobbisti. Con il loro aiuto ha
ricostruito in che modo, nei laboratori delle industrie, in pochi decenni siano
stati creati, a partire da cibi veri, dei prodotti artificiali pieni di
zucchero, sale e grasso. “In realtà volevo scrivere un libro sullo zucchero,
perché lo consideravo l’elemento più dannoso della nostra alimentazione”,
spiega. “Ma nel corso delle ricerche ho
capito che anche il grasso stimola le persone a mangiare sempre di più, e che
forse il sale è perfino più importante per l’industria alimentare”.
Ma questo basta per spiegare l’epidemia di obesità? In
fondo, nella loro forma pura, né lo zucchero né il sale né il grasso hanno mai
mandato in estasi nessuno. Eppure sembra che la voglia di dolce sia innata: i
neonati reagiscono con piacere quando gli si mette in bocca qualche goccia di
una soluzione zuccherata. Il fenomeno ha una spiegazione perfettamente logica
dal punto di vista della biologia evolutiva: in natura il sapore dolce
contraddistingue soprattutto gli alimenti ricchi di calorie. E per i nostri
antenati era consigliabile mangiare tutta la frutta dolce che trovavano: era un
piacere raro.
Nell’epoca dell’abbondanza però le cose sono diverse.
Esperimenti condotti sui topi hanno dimostrato che lo zucchero produce nel
cervello lo stesso schema di attività delle droghe che danno dipendenza. Il suo
potenziale di assuefazione non è paragonabile a quello dell’eroina o della
cocaina, ma è sufficiente a far sì che la maggior parte delle persone ceda alle
molteplici e onnipresenti tentazioni del gusto dolce.
Gli statunitensi consumano ogni anno 58 chili di zucchero a
testa, i tedeschi circa 36, il doppio rispetto alla quantità consigliata dalla
Società tedesca per la nutrizione. L’83 per cento dello zucchero si nasconde
nei cibi precotti. I produttori lo usano non solo perché stimola l’appetito, ma
anche perché, se aggiunto a certe sostanze aromatizzanti, può sostituire
ingredienti più costosi, come la frutta e la verdura.
Ma torniamo ai neonati. Difficilmente la somministrazione di
una soluzione salina suscita in loro reazioni entusiastiche, perché il
desiderio di sale si sviluppa con il passare del tempo. Resta il fatto che il
cloruro di sodio è essenziale per la vita: nervi, reni, ossa, ogni cellula del
nostro corpo ne ha bisogno. Il sale che gli esseri umani perdono con il sudore
e con le altre escrezioni (da uno a tre grammi al giorno) deve essere
reintegrato attraverso gli alimenti.
Molto tempo prima che i supermercati si riempissero di
patatine grasse e cibi pronti ultrasalati, il sale era raro e prezioso: nel
medioevo le città anseatiche costruirono il loro benessere sull’“oro bianco”.
Il sale serviva da moneta (da cui “salario”) e fu una delle prime sostanze usate
per conservare gli alimenti. L’evoluzione
ha iscritto questa predilezione per il sale nei nostri circuiti cerebrali più
primitivi. I nostri antenati, vivendo in un clima caldo, perdevano ogni giorno
molto sale attraverso il sudore, e non sempre riuscivano a reintegrarlo. Ma
l’assunzione di sale stimola la distribuzione della dopamina nel diencefalo, un
effetto che spingeva gli uomini delle caverne a ricostituire le loro riserve di
sale. In altri termini, il nostro corpo dispone di un sistema di ricompensa che
garantisce la nostra voglia di sale, a volte anche in quantità eccessive. Oggi, infatti, quasi tutti assumiamo più sale
del necessario, e solo il 10 per cento circa del sale che assumiamo proviene
dalla saliera: il resto si annida nel pane e nei cracker, nelle patatine e nei
pasti pronti da scaldare al microonde. Insomma, nei prodotti di un’industria
che ha capito da tempo come trarre il massimo del profitto da antichissimi
istinti umani.
Poi c’è il grasso, la terza esca usata dall’industria
alimentare. Il grasso in primo luogo fa da veicolo ai sapori, perché molte
sostanze aromatiche sono solubili nei grassi. Se uno schizzo di panna liquida
migliora il gusto di un sugo per la pasta, è per motivi puramente biochimici.
Ma il grasso determina anche la consistenza degli alimenti, la sensazione che
ci danno in bocca. Le persone a cui piace versarsi in bocca una bustina di
zucchero sono pochissime, ma nella giusta combinazione con il grasso, lo zucchero
può diventare irresistibile: pensate al gelato o alla cioccolata.
In conclusione, zucchero, sale e grasso dispiegano al
massimo la loro forza d’attrazione quando sono abilmente mescolati tra loro in
combinazioni, quantità e forme diverse. Un esperimento condotto dallo
scienziato Barry Lewin presso la “New Jersey medical school” mostra il potere
di queste sostanze. Lewin ha lavorato su un gruppo di topi di laboratorio che
normalmente smettono di mangiare quando sono sazi. Quando però, al posto del solito
mangime in pellet, gli ha somministrato un composto cremoso di zucchero e
grasso, tutte le dighe sono crollate: “Non
la finivano più di rimpinzarsi”, racconta Lewin.
Il commento di David Kessler è disincantato: “I cibi industriali sono composti da tanti di
quegli strati di grasso, zucchero e sale, che sotto è difficile trovarci ancora
del cibo vero”. Secondo lui, più questi cibi sono disgustosi e più è
difficile resistergli. Kessler sa di cosa parla: l’esperimento lo ha fatto su
se stesso. Ha comprato dei biscotti al cioccolato (cioè un concentrato di
zucchero e grasso più una presa di sale) e li ha posati sul tavolo da pranzo
davanti a sé. La tentazione di prenderne uno, racconta, era enorme. Ha
resistito per ore, poi ha lasciato la confezione sul tavolo ed è andato in un
caffè vicino a casa sua. A quel punto, di fronte ai dolci in vetrina, la sua
determinazione è crollata e ha divorato un brownie.
Kessler si consola con una spiegazione scientifica. Nel
cervello abbiamo dei circuiti – lui li definisce “circuiti della motivazione abituale” – che si formano quando siamo
bambini e sono attivati da specifiche condizioni che si verificano
nell’ambiente. Alcuni cibi sono in grado di condizionare il nostro cervello
come quello di un tossicodipendente. Si tratta di cibi particolarmente
desiderabili che stimolano la produzione di dopamina. Al punto che dopo un po’
basta vederli perché i circuiti si attivino. L’unica via d’uscita da questa
trappola alimentare, secondo Kessler, è evitare per quanto possibile l’attivazione
di questi circuiti. Lui stesso, quando va all’aeroporto di San Francisco, si
tiene alla larga dalla tavola calda per non vedere la vetrina dei ravioli
fritti. Sa che se ci si avvicina è perduto: “Un boccone di quella roba equivale a un istante di beatitudine”,
spiega. “Dimentichi ogni stress e non
t’importa più nulla. Un attimo dopo sei lì che ti chiedi: perché l’ho fatto?”.
Ma è proprio questa la reazione che l’industria del cibo
cerca. Nel suo libro Michael Moss racconta quanto spendono le industrie per
ottimizzare i loro prodotti. Prendono dei consumatori e li tengono per ore nei
loro laboratori ad assaggiare, gustare, sorseggiare, annusare e palpare. Ogni
loro sensazione viene accuratamente registrata e inserita in un computer. Poi,
con l’aiuto di una procedura statistica detta analisi congiunta, ottengono la
combinazione ottimale tra esaltatori del gusto, confezionamento e colore del
prodotto.
Ma gli strateghi dell’industria sanno anche che non devono
fidarsi delle prime reazioni delle loro cavie. Non sempre, infatti, quello che
gli piace istintivamente è anche quello che alla fine mangeranno. La regola
generale è un’altra: un prodotto che si
vende in grande quantità non può essere troppo buono. Gli esperti chiamano
questa legge apparentemente paradossale “sazietà
sensorio-specifica”. Significa che, quando viene inondato da stimoli gustativi troppo marcati,
il cervello umano reagisce attenuando il desiderio di ripetere l’assunzione del
cibo che li provoca. Il miglior modo di “ingannare” questa reazione, quindi, è
proporre sapori familiari e non troppo intensi.
Kessler non ha dubbi sul fatto che i fabbricanti usino
questi meccanismi in modo consapevole: “Il
business plan delle moderne industrie alimentari consiste nel produrre miscele
di grasso, zucchero e sale, renderle disponibili 24 ore al giorno a ogni angolo
di strada, e farlo sapere a tutti con una campagna promozionale basata sulle
emozioni”.
Kessler ha vinto una battaglia molto dura contro l’industria
del tabacco. E pensa che quella contro le multinazionali dell’alimentazione sia
ugualmente dura, anche se in modo diverso: “Il
fumo si poteva proibire”, osserva. “Abbiamo
demonizzato il tabacco, ma non si può demonizzare il cibo”. Kessler spera
invece di suscitare nell’opinione pubblica un grande dibattito
sull’alimentazione. “La prima domanda da farsi dev’essere: quello che mangiamo
è davvero ancora cibo? La seconda è: quali sono i cibi che desideriamo davvero
mangiare?”. In altre parole, qualcosa cambierà solo quando i consumatori impareranno
a guardare le cose da mangiare sotto un’altra luce. È stato così anche per le
sigarette: “Prima vedevamo la sigaretta
come un’amica, qualcosa di desiderabile, sexy e fascinoso. Ora la vediamo come
un prodotto mortale, schifoso, che dà dipendenza”.
Questione di vita o di morte
Secondo Robert Lustig,
un collega di Kessler che insegna pediatria clinica all’Università della
California e a quella San Francisco, suscitare un dibattito non basta. Nel 2009
Lustig, che oggi ha 56 anni, è diventato famoso grazie a una conferenza tenuta
alla sua università e intitolata “Zucchero:
l’amara verità”. Il video della conferenza è stato visto su YouTube più di
tre milioni di volte. Lustig si presenta al nostro incontro con una camicia
turchese brillante. Mi ha dato appuntamento alla mensa dell’”Hastings College
of Law University”: la frequenta da quando ha chiesto un anno sabbatico per
prendere un master in giurisprudenza. La specializzazione gli serve per
prepararsi alla battaglia contro l’industria alimentare. “Il punto è: ci sono vie legali per mettere i bastoni tra le ruote
all’industria alimentare? La risposta è: assolutamente sì”.
Nella sua tesi, Lustig cercherà di proporre un parallelo con
la campagna contro le sigarette degli anni sessanta. Secondo lui la battaglia
contro l’industria alimentare dovrebbe seguire esattamente il “copione tabacco”: in entrambi i casi,
infatti, si tratta di una questione di vita o di morte. “Il problema non è che le aziende alimentari mettono sul mercato
prodotti irresistibili”, osserva. “Il problema è che questi prodotti sono
tossici e la gente ne muore”.
Mentre parla, Lustig si arrabbia. Oggi è particolarmente
nervoso, perché tra ventiquattr’ore presenterà insieme ad alcuni colleghi uno
studio che stabilisce un rapporto epidemiologico tra il consumo di zuccheri e
il diabete. Gli studiosi hanno confrontato la quantità di zuccheri presente
negli alimenti con l’incidenza del diabete in 175 paesi negli ultimi dieci
anni. Risultato: più zuccheri nei cibi hanno determinato ovunque tassi di
diabete più elevati. La sorpresa è che il numero delle persone obese non
c’entra proprio niente. Negli Stati Uniti i disturbi del metabolismo riguardano
più o meno lo stesso numero di normopeso e di obesi. “Lo zucchero è veleno”, è la sua conclusione: “A prescindere dalla
quantità di calorie”.
Lustig è un esperto di disturbi ormonali e obesità nei
bambini. È molto preoccupato per il numero crescente dei cosiddetti “grassi di 6 mesi”, cioè i bambini che
sono sovrappeso già al momento di venire al mondo o quasi. “In molti paesi, il peso dei bambini alla
nascita è significativamente più alto rispetto a venticinque anni fa”,
spiega. All’origine del problema, secondo lui, c’è l’alimentazione sbagliata
delle madri. Ma non sono loro a dover finire sul banco degli imputati: “I consumatori non hanno scelta”, spiega.
Sugli scaffali dei supermercati statunitensi ci sono 60mila prodotti alimentari
diversi. Nell’80 per cento dei casi contengono zuccheri aggiunti. I cibi non
alterati sono rari, e più costosi: “Molte persone semplicemente non possono più
permettersi il cibo vero”.
Poi c’è l’imbroglio dei nomi degli ingredienti. Negli Stati
Uniti ci sono 56 modi diversi per indicare la presenza di zucchero negli
alimenti. “Molti sono incomprensibili, e
alcuni addirittura illegali”, dice Lustig. Cosa sarà mai, per esempio, lo “zucchero di canna evaporato”? Il
produttore dello yogurt Chobani è al centro di una serie di cause collettive in
California e nello stato di New York perché stampa sui prodotti diciture come
queste, che le autorità sanitarie definiscono “false e fuorvianti”. Nei procedimenti giudiziari, Lustig è
intervenuto in qualità di perito. “I
fabbricanti hanno carta bianca”, afferma sempre più arrabbiato. “Possono mettere nei loro prodotti tutto lo
zucchero che vogliono”. Per cambiare serve la pressione forte e compatta
dell’opinione pubblica: “Anche
l’industria del tabacco ha reagito solo quando non ha più potuto evitarlo”.
Il kebab di Ahmed
Ahmed è alto un
metro e 70, pesa cento chili e si cura con otto farmaci diversi. Vive a
Berlino. Alla mano destra porta un guanto protettivo perché le dita gli
formicolano di continuo: come molti pazienti affetti da diabete di tipo 2,
l’aumento della glicemia gli ha danneggiato le terminazioni nervose. Lo incontro nei locali del servizio di
consulenza nutrizionale offerto dal reparto di endocrinologia, diabete e
medicina del ricambio della clinica medica dell’ospedale della Charité. Nell’ingresso, per i clienti “di peso” è a
disposizione una poltrona avvitata al pavimento con una seduta di 83
centimetri. Gli incontri che si svolgono qui servono a insegnare agli obesi a
mangiare in modo sano. Secondo Rotraud
Zehbe, una snella signora di 60 anni che fa la consulente nutrizionale, i professori
sanno poco o nulla di questo argomento. Zehbe tiene sul tavolo un assortimento
di finti panini, melanzane, pomodori, carote e salsicce. I suoi pazienti hanno
una caratteristica in comune: siccome non sanno cucinare, si nutrono quasi
esclusivamente di cibi pronti o nei fast food.
Ahmed giocherella con una bustina di dolcificante e guarda
Zehbe pieno d’aspettativa. “Quando
assumiamo più energia di quella che ci serve”, comincia lei, “aumentiamo di peso. Quindi per perdere peso
dobbiamo eliminare qualcosa”. Il paziente annuisce. Molte persone non
bevono abbastanza: per il buon funzionamento del metabolismo un adulto sano
dovrebbe assumere ogni giorno, per ogni chilo di peso corporeo, 35 millilitri
di liquidi privi di zucchero: acqua o tè, ma niente alcol né succhi di frutta o
latte. Ahmed ogni giorno si scola un litro di latte ed è convinto che contenga
soprattutto acqua. “Già”, ribatte Zehbe. “E
al lattosio non ci pensa?”.
E qui comincia a parlare di grassi: a una donna ne bastano
circa 60 grammi al giorno, a un uomo 80. L’olio d’oliva e di colza è buono, i
grassi animali no. Gli insaccati sono da evitare: troppo grassi. “Buttiamoli nella spazzatura”, esorta
Zehbe. Quando comunica ad Ahmed che dovrà lasciar perdere anche la carne
grondante di grasso del kebab, lui la guarda avvilito. La carne va bene, purché
sia magra, gli spiega Zehbe. La sua regola generale è che ogni giorno si
possono consumare dagli 80 ai 100 grammi di proteine. L’azoto delle proteine
viene eliminato con le urine sotto forma di urea, che aiuta il metabolismo a
bruciare più energia.
Per finire, Zehbe affronta le sostanze più problematiche: i carboidrati. Sono generatori di
energia che si annidano in molti alimenti. Troppi carboidrati fanno male,
perché il fegato li trasforma in grasso, quello che poi si accumula sulla
pancia. Quindi Ahmed dovrà rinunciare al muesli, ai dolci e alla Nutella.
Ora Zehbe passa a spiegare, servendosi dei suoi finti
alimenti, cosa si può mangiare ogni giorno per assumere la giusta quantità di
carboidrati: un panino spalmato di miele, una mela, due patate, una grossa
fetta di pane, un cestino di fragole e, “per
il piacere”, un minuscolo pezzetto di cioccolato. Ahmed non sembra
convinto. Come per consolarlo, la nutrizionista raccomanda al suo corpulento
paziente di mangiare verdure, sia cotte al vapore sia crude. Serve a combattere
la fame, spiega, così come il formaggio quark magro. Mescolato con un po’
d’acqua e messo in vasetti di vetro, può essere una merenda da portare con sé
al lavoro.
Certo, Ahmed sarebbe meno avvilito se fare la spesa fosse
un’impresa semplice. Se i prodotti nei supermercati non avessero etichette così
difficili. Lo sanno tutti che il riso integrale accompagnato da verdure fresche
cotte al vapore è sano: ma se uno non ha tempo per cucinare? Quali sono i cibi
pronti che contengono solo zucchero, sale e grasso, e quali si possono definire
il male minore? Per esempio, se uno vuole a tutti i costi fare una colazione a
base di cereali, quali scegliere? Esiste uno yogurt alla frutta che non sia
troppo dolce né troppo grasso?
Nel 2006 la Food
Standards Agency britannica ha proposto, su incarico del parlamento, di
contrassegnare le confezioni degli alimenti con dei piccoli semafori per far
capire quanto grasso, zucchero e sale contenessero 100 grammi di prodotto:
rosso per una percentuale nociva, giallo per una media, verde nessun pericolo.
Dopo alcune esperienze positive nel Regno Unito, anche gli
scienziati tedeschi hanno proposto, nel novembre del 2005, un sistema
segnaletico simile, e hanno invitato la lobby dell’industria alimentare a
partecipare al progetto. Associazioni professionali come quella dei medici
pediatri, organizzazioni di consumatori e i Verdi si sono schierati a favore
dei semafori, e così anche il 69 per cento dei cittadini interpellati in un
sondaggio. Ma Ilse Aigner, la ministra dell’alimentazione, dell’agricoltura e
della protezione dei consumatori, si è detta contraria, così il problema è
stato sottoposto all’Unione europea. A quel punto associazioni e imprese hanno
cominciato a bombardare gli europarlamentari di telefonate, email e documenti.
I lobbisti hanno sostenuto che i valori limite usati per classificare gli
alimenti erano arbitrari. E alla fine sono riusciti a far respingere la
proposta dei semafori. Oggi in Germania la percentuale di grasso, zucchero e
sale presente negli alimenti è indicata esclusivamente da numeri.
I marchi della salute
L’esempio della Finlandia mostra che un sistema di
segnalazione può non solo modificare i comportamenti delle persone, ma forse
salvargli persino la vita. Alla fine
degli anni settanta le autorità sanitarie finlandesi registrarono un numero
allarmante di infarti. Da alcuni studi emerse che l’alimentazione ricca di sale
era un fattore di rischio determinante. Oggi sugli alimenti poveri di sale
spicca un cuoricino rosso con la scritta parempi
valinta, “scelta migliore”, mentre gli alimenti ad alto tenore di cloruro
di sodio sono contrassegnati dall’avvertenza voimakassuolainen (“molto salato”). L’introduzione di queste
etichette ha avuto un successo sbalorditivo: oggi i finlandesi consumano un
terzo di sale in meno rispetto a trent’anni fa e la mortalità per infarto e
ictus è diminuita di circa l’80 per cento.
Invece in Germania le proposte di introdurre scritte chiare,
i divieti di fare pubblicità ai cibi malsani, di tassarli o di stabilire dei
valori limite per gli ingredienti nocivi si schiantano contro un muro. La lobby
del settore è troppo potente: la produzione e la vendita di alimenti danno
lavoro a circa due milioni di persone, e il giro d’affari raggiunge i 170
miliardi di euro. Ma i consumatori, turbati dagli scandali e dai loro problemi
di peso, sono diventati più attenti. L’immagine dell’industria alimentare non è
mai stata tanto negativa, e l’esigenza di chiarezza è sempre più forte.
Stephan Becker-Sonnenschein è da qualche settimana il
principale lobbista del settore in Germania. Nei suoi uffici ancora spogli in
Friedrichstraße, a Berlino, si occupa di rimettere in sesto la reputazione
dell’industria alimentare. Becker-Sonnenschein è il direttore dell’associazione
Die Lebensmittelwirtschaft
(L’economia alimentare), di cui fanno parte sette delle più potenti industrie
del settore. Per questo esperto di pubbliche relazioni di 56 anni la sua nuova
creatura è “una grande sfida”. Becker-Sonnenschein è abituato alle missioni
difficili: è stato responsabile dell’immagine della Philip Morris (tabacco) e
della Rwe (centrali a carbone). E ha letto sul New York Times un estratto del
libro di Michael Moss. “Molto di quello
che scrive si riferisce agli anni ottanta e novanta”, spiega. Da allora,
secondo lui, sono cambiate molte cose.
Mi racconta che nel periodo in cui lavorava per la Kraft
Foods Deutschland l’azienda aveva modificato la composizione di 1.500 prodotti.
La Coca-Cola rivendica di aver ridotto il potere calorico della sua
popolarissima bibita del 9 per cento dal 2000. E anche la Nestlé avrebbe
imboccato la strada per diventare un’azienda salutista. Il gruppo svizzero
infatti ha avviato una collaborazione con l’università di Losanna per creare
prodotti salutari, per esempio yogurt contenente sostanze utili a combattere i
sintomi dell’Alzheimer. La Danone, principale concorrente della Nestlé, ha allo
studio un prodotto simile. Tutti progetti di cui si parla troppo poco, secondo
Becker-Sonnenschein. In realtà, gruppi come Nestlé e Coca-Cola fanno di tutto
per influenzare l’opinione pubblica. Secondo alcune stime la Nestlé spende
circa tre miliardi di dollari all’anno per la pubblicità.
Quando però si tratta di responsabilità, i manager si tirano
indietro. A volte si presentano con calcoli dei valori nutritivi talmente
astrusi da far credere che anche i cereali da colazione con più zuccheri
aggiunti siano salutari. Altre volte si giustificano dicendo che fanno di tutto
per mantenere in forma i consumatori. La Coca-Cola, per esempio, ha lanciato la
sua Mission Olympic per trovare la città “più attiva” della Germania. Il
portavoce del gruppo ci indirizza da un certo Thomas Bach.
Bach è presidente dell’Unione tedesca sport olimpici. Dunque
è una specie di alto dirigente dello sport tedesco, e anche una sorta di
ambasciatore della Coca-Cola. “Il nostro
obiettivo”, mi spiega, “è promuovere
l’attività sportiva, in collaborazione con i nostri partner Coca-Cola
Deutschland e Samsung. Questo significa incoraggiare la cittadinanza ad
abbracciare uno stile di vita attivo”.
Ma al tempo stesso l’industria alimentare punta sui giovani,
con una strategia che ricorda quella dell’industria del tabacco. Dai documenti
interni che le multinazionali delle sigarette resero pubblici nel 1998, si è
appreso che le lobby del tabacco avevano congegnato una campagna pubblicitaria
per diffondere il fumo tra i giovani. Anche l’industria alimentare investe
molti soldi per attirare bambini e ragazzi. L’associazione di consumatori
tedeschi Foodwatch ha individuato 1.514 prodotti che nei supermercati sono
presentati in modo da attirare i bambini. Circa il 73 per cento è costituito da
merendine piene di zuccheri o grassi: “I
piccoli vengono drogati per far girare la macchina dei consumi”, afferma il
vicedirettore di Foodwatch Matthias Wolfschmidt.
Dal punto di vista delle imprese è perfettamente logico. Le
ricerche nutrizionali mostrano che le abitudini alimentari si possono
consolidare: una volta che si è scoperto il sapore di una caramella o di un
cracker al formaggio, gli si resta fedeli.
Lezione di omelette
Alla Gorch-Fock, una scuola di Blankenese, alla periferia di
Amburgo, è l’ora di educazione civica, eppure si sente il rumore di una
centrifuga per verdure. In cucina una macchina per fabbricare popcorn sputa
fuori le sue palline bianche. La maestra Angela
Wöbke-Hasenkamp ha il compito di insegnare a quattordici alunni di quarta
che il gelato alla crema è fatto solo di zucchero e latte e che la passata di
mela fatta in casa è buona anche senza zucchero. “Molti di questi bambini non hanno mai fatto neanche un uovo sbattuto”,
dice. “Oggi nelle famiglie non si cucina più”.
“Pasta e pizza”,
risponde una biondina con gli stivaletti argentati a chi le domanda quali siano
i suoi cibi preferiti. È figlia unica, è molto fiera del suo nuovo iPad mini e
scarica da iTunes le canzoni di Pink e di Psy. A casa sua si cucina poco o niente: la sua
esperienza culinaria più importante, racconta, è stato “mettere il formaggio su una pizza”.
Tutt’altro che facile, dunque, il compito di
Wöbke-Hasenkamp. Oggi la classe imparerà a fare i popcorn e i muffin alla
banana: bisogna pur scendere a qualche compromesso. “Voglio far capire ai
bambini che non va bene buttar via la roba da mangiare. Per esempio, che le
banane, anche un po’ scurite, vanno bene per dolcificare i muffin”.
Se in un quartiere benestante come Blankenese è difficile
far capire ai bambini cosa significa mangiare sano, figuriamoci quanto dovrà
faticare l’assistente sociale scolastica Jeanette
Premper, che lavora alla Hegelsbergschule di Kassel, nel nord della
Germania. Prima che li portasse in gita
in un’azienda agricola, la maggioranza dei bambini non aveva mai visto una
gallina né una mucca. Oggi a lezione si fa l’omelette con feta, pomodori e
spinaci. In uno dei quattro box della
cucina didattica, Emir, Büsra, Max e Kathrin mescolano le uova con il latte. Un
po’ di erbe aromatiche, un cucchiaio d’olio nella padella, e ci siamo. O no?
Quella che ribolle sul fornello somiglia più a una minestrina all’uovo: i
cuochi hanno sbagliato a misurare la quantità di latte. E alla fine della
lezione, più che di erbe aromatiche, la cucina odora d’uovo bruciato.
“I bambini devono
imparare che nessun piatto riesce perfetto al primo tentativo”, spiega
Premper. La settimana scorsa, però, gli spaghetti al pomodoro sono venuti
subito bene, e il prossimo piatto in menù è la zuppa di patate. Nel frattempo
la maggior parte degli alunni del corso di cucina ha preso confidenza con i
fornelli e prova a cucinare anche a casa: “Ho fatto la pastasciutta tutto da
solo!”, dice Emir, 11 anni. Ma quando gli chiedo quali altri piatti conosce, risponde
tutto fiero: “I Chicken McNuggets!”.
FONTE: Internazionale numero
993 – 29 marzo 2013
Fonte: visto su LO
SPIRITO DEL TEMPO del 3 aprile 2013
Fonte: visto su NON CENSURA
del 8 aprile 2013
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