CHE COS'È UNA MOSCHEA E CHE COSA
VUOL DIRE COSTRUIRE UNA MOSCHEA
Lì si prega e insieme si fa politica. Le avvertenze di un grande esperto gesuita. Pubblicate dalla "Civiltà Cattolica" ma anche, un mese prima, dal giornale della Lega.
di Khalil Samir S.I.
(s.m.) Le seguenti "Note sulla moschea" sono apparse
sull'ultimo numero della "Civiltà Cattolica", la storica
rivista dei gesuiti di Roma. Ciò che distingue la "Civiltà Cattolica"
è che prima di andare in stampa le sue bozze passano l'esame della segreteria
di Stato vaticana. La quale taglia, modifica, aggiunge quanto ritiene
opportuno. Per questo ogni articolo che appare su questa rivista è da
considerarsi "autorevole". In quanto autorizzato dai vertici della
Chiesa, di cui riflette il pensiero.
Ebbene, un dato curioso di questo articolo è che esso non era un
inedito. Ma era già uscito quasi per intero su un altro giornale un mese prima.
Quest'altro giornale è "la Padania", il quotidiano della Lega.
E la Lega è il partito che si è battuto nei mesi scorsi, con molto rumore,
contro la cessione da parte del comune di Lodi di un terreno alla comunità
musulmana, per costruirvi una moschea.
La "Padania" ha pubblicato l'articolo il 15 febbraio 2001
nella pagina intitolata "Le idee". Premettendo che le era stato
«segnalato da un lettore di Sesto Calende» che a sua volta l'aveva letto in una
ancor precedente pubblicazione. Nella versione uscita sulla "Padania"
figurano anche alcune righe che non si ritrovano nel testo della "Civiltà
Cattolica": «Non si capisce bene in
base a quale ragione un'amministrazione locale dovrebbe regalare il terreno o
una parte della costruzione».
Sta di fatto che ai capi della Lega l'articolo è piaciuto. Così come
è piaciuto ai gesuiti della "Civiltà Cattolica". E ai vertici
vaticani... In effetti è un testo di grande interesse, che davvero esige
d'esser letto, indipendentemente dal suo strano pellegrinare da testata a
testata.
Khalil Samir, l'autore, è
un gesuita arabo, nato in Egitto. È fondatore e direttore del Centro di
documentazione e ricerche arabe cristiane dell'università Saint Joseph di Beirut, dove insegna all'Istituto islamo-cristiano.
A Roma, insegna islamologia al Pontificio istituto orientale e al Pontificio
istituto di studi arabi e di islamistica. Ecco, integrale, il suo scritto, per
gentile concessione della "Civiltà Cattolica":
NOTE SULLA MOSCHEA: CHE COS'È UNA MOSCHEA
E CHE COSA VUOL DIRE COSTRUIRE UNA MOSCHEA
di Khalil Samir S.I.
(da "La Civiltà Cattolica" del 17 marzo 2001, pagine
599-603)
Che cos'è una moschea
Ultimamente si è parlato di moschee in Italia; ma sull'argomento
continua a permanere una cappa di genericità e approssimazione. Quando si
discute sull'opportunità di costruire una moschea o di concedere terreni a
questo scopo, è necessario anzitutto non dare per scontata la conoscenza
dell'oggetto della discussione. La
moschea non è una "chiesa" musulmana, ma un luogo che ha nell'islàm
la sua funzione e le sue norme. Perciò si deve guardare all'islàm per capire
che cosa essa è.
Nella tradizione araba esistono due termini per indicare la moschea:
masgid (passato in spagnolo sotto la
voce "mezquita" e di là nelle lingue europee) e giâmi'. Quest'ultimo vocabolo è il più diffuso nel mondo
arabo-islamico. La prima parola deriva dalla radice sgd che significa
"prostrarsi", la seconda dalla radice gm' che significa
"radunare". La moschea (giâmi') è il luogo dove la comunità si
raduna, per esaminare tutto ciò che la riguarda: questioni sociali, culturali,
politiche, come anche per pregare; tutte le decisioni della comunità si
prendono nella moschea. Voler limitare
la moschea a "un luogo di preghiera" è fare violenza alla tradizione
musulmana.
Il venerdì (yawm al-giumu'ah)
è il giorno in cui la comunità si raduna (come indica il nome giumu'ah). Si
raduna a mezzogiorno per la preghiera pubblica, seguita dalla khutbah, cioè il discorso, che non è
una predica. Nella khutbah vengono approfondite la questioni dell'ora presente:
politiche, sociali, morali ecc. Il venerdì non è il giorno in cui non si
lavora, come il sabato degli ebrei o la domenica dei cristiani, ma il giorno in
cui i musulmani si ritrovano insieme come comunità. Ancora oggi, in Arabia
Saudita, il venerdì è un giorno lavorativo; si chiudono i negozi soltanto
all'ora del raduno in moschea a mezzogiorno.
In molti Paesi musulmani, per esempio in Egitto, che è oggi il più
popoloso Paese musulmano arabo, tutte le moschee sono sorvegliate il venerdì e
le più importanti sono circondate dalla polizia speciale. Il motivo è semplice:
le decisioni politiche partono dalla
moschea, durante la khutbah del venerdì. Nella storia musulmana, quasi
tutte le rivoluzioni e i sollevamenti popolari sono partiti dalle moschee. Lo jihâd, cioè "la guerra sul cammino di Dio" (fî sabîl Allâh) che obbliga
ogni musulmano a difendere la comunità, è proclamata sempre nella moschea, alla
khutbah del venerdì. In alcuni Paesi musulmani, il testo della khutbah
dev'essere presentato prima alle autorità civili visto che gli imâm (che
presiedono le riunioni della comunità) sono funzionari statali1.
Non è solo luogo di culto. E’
il luogo della politica
È dunque scorretto, parlando della moschea, parlare unicamente di
"luogo di culto". Com'è scorretto, parlando della libertà di
costruire moschee, farlo in nome della libertà religiosa, visto che non è
semplicemente un luogo religioso, ma una realtà multivalente (religiosa,
culturale, sociale, politica ecc.). Non si deve poi dimenticare che il luogo
dedicato alla preghiera del venerdì è considerato dai musulmani spazio sacro e
rimane per sempre appannaggio della comunità, la quale decide chi ha facoltà di
esservi ammesso e chi invece lo profanerebbe. Per questo motivo non si può prestare un terreno per 50 anni, per
esempio, per edificarvi una moschea; questo terreno non potrà mai più essere
reso.
Esistono spesso, nelle città dei Paesi musulmani, piccoli
"luoghi di preghiera", chiamati di solito musallâ (preghiera), da salât. Sono come "cappelle" che
possono contenere circa una cinquantina di persone e che si trovano spesso al pian
terreno di una casa, al posto di un appartamento. Questi luoghi, più discreti,
sono generalmente utilizzati quasi unicamente per la preghiera del mezzogiorno,
permettendo alla gente della strada o degli edifici vicini di pregare in pace.
Le moschee hanno normalmente un minareto (manârah), da dove il
muezzin (mu'abhdhin) lancia l'appello alla preghiera (adhân). I minareti hanno
una funzione pratica e sono leggermente più alti delle case che li circondano.
Hanno assunto spesso nella storia una funzione simbolica, di affermazione della
presenza musulmana, e talvolta una funzione politica di affermazione della
superiorità dell'islàm sulle altre religioni. Il loro scopo essenziale è di
permettere alla voce umana di giungere a chi abita vicino.
In questo secolo, si sono spesso posti altoparlanti sui minareti
(soprattutto se c'è una chiesa vicina o un quartiere cristiano), e i muezzin
hanno aggiunto altre cose all'appello alla preghiera (adhân), prolungandolo.
Queste innovazioni sono contrarie alla tradizione musulmana (la sunnah) e i
Paesi musulmani rigorosi le condannano, come per esempio l'Arabia Saudita,
anche se la condanna non cambia le abitudini. In altri Stati, come per esempio
l'Egitto, l'uso degli altoparlanti (a tutto volume) è limitato unicamente all'appello
(che dura circa 2 minuti) ed è vietato per la preghiera dell'alba (salât
alfagr), divieto di fatto non osservato. L'uso dei registratori per l'appello,
che si diffonde in molti luoghi, è considerato contrario alla Tradizione.
Chi le finanzia?
Infine è necessario chiedersi chi finanzi le moschee e i centri
islamici. È risaputo che gran parte delle moschee e dei centri islamici in
Europa sono finanziati da Governi musulmani, in particolare da quello
dell'Arabia Saudita, che perciò ha il diritto di imporre i suoi imâm. Ora, è
ben noto che nel mondo islamico sunnita l'Arabia Saudita rappresenta la
tendenza più rigida, detta wahhabita
(da 'Abd al-Wahhâb, 1703-92). Non sono quindi questi imâm che potranno aiutare
gli emigrati a inserirsi nella società occidentale, né ad assimilare la
modernità, condizioni necessarie per una convivenza serena con gli autoctoni.
Alcuni elementi di giudizio
Non è possibile né giusto impedire ai musulmani di avere luoghi di
preghiera in Occidente. Sarebbe probabilmente più adatto al contesto
sociologico degli emigrati (che rappresentano la stragrande maggioranza dei
musulmani in Italia) avere musallâ, ossia "cappelle", dove potrebbero
ritrovarsi più comodamente per pregare. Sarebbero anche meno costose per loro.
Rimane un rischio: la moltiplicazione dei piccoli luoghi di preghiera rende più
difficile il controllo su quanto vi si svolge.
La moschea, in quanto centro
socio-politico-culturale musulmano, non può entrare nella categoria dei
"luoghi di culto", non essendo esclusivamente un luogo di preghiera.
Alla pubblica amministrazione spetta studiare come esercitare un certo
controllo su tali centri, vista la loro funzione politica tradizionale.
L'opposizione che si vede un po' dappertutto in Europa riguardo
all'edificazione di moschee può provenire dalla xenofobia, ma è anche probabile
che derivi dal timore che essa sia un atto politico di affermazione di un'identità
diversa sotto tutti gli aspetti, troppo estranea alla cultura e alla civiltà
occidentale.
Se un tale centro musulmano potesse aiutare gli emigrati a
integrarsi nella società italiana locale e nazionale, con corsi adatti e altri
servizi, sarebbe da incoraggiare, poiché lo scopo è di costituire insieme,
emigrati e autoctoni, una società comune e solidale. Potrebbe essere
incoraggiata (anche materialmente) la formazione di gruppi o associazioni
misti, composti da emigrati (musulmani e non musulmani) e autoctoni, per
rinforzare l'integrazione dei primi nella società italiana e l'apertura dei
secondi agli emigrati. Ma, tenendo conto della tradizione musulmana
multisecolare di non distinguere religione, tradizioni, cultura, vita sociale e
politica, sembra importante che i responsabili si informino bene per operare
queste distinzioni e siano molto attenti a non incoraggiare la politicizzazione
(sotto qualunque forma) dei gruppi di emigrati (musulmani e non musulmani).
Infine è utile notare un piccolo particolare: secondo i dati
ufficiali, gli emigrati musulmani rappresentano circa un terzo di tutti gli
immigrati in Italia. Eppure, fanno parlare di sé molto più degli altri
emigrati, che sono la maggioranza (i due terzi). Ci sembra che il motivo sia
proprio la tendenza dei musulmani a politicizzare la loro presenza, a renderla
visibile (sia per tendenza naturale, sia perché esistono potenti lobbies di
musulmani italiani o stranieri). Sono questa politicizzazione e questa tendenza
ad affermare la propria identità come diversa dagli altri che suscitano le
reazioni di rigetto o di rifiuto. Non sarebbe più conforme agli interessi dei
musulmani stessi cercare di vivere la loro vita (e la loro fede) in maniera
discreta e integrata?
Conclusione
Da ciò che abbiamo detto si possono trarre alcune conclusioni.
Tenuto conto della natura polivalente (e spesso politica) della
moschea nella tradizione musulmana, la costruzione di moschee, contrariamente a
quella delle chiese, può essere un atto politicamente ambivalente. Potrebbe
favorire il contrasto tra la popolazione musulmana (spesso costituita da
immigrati) e quella non musulmana (generalmente costituita da italiani
autoctoni), oppure favorire l'integrazione della popolazione musulmana nel
tessuto della società italiana. Perciò tocca alle autorità civili discernere,
caso per caso, le possibilità di successo di questa seconda ipotesi, ed
enunciare le condizioni che favoriscano il raggiungimento di tale scopo, che
cioè la moschea serva ad aiutare i musulmani a integrarsi nella loro nuova
società.
Questo si potrebbe ottenere con diverse misure concrete: proponendo
corsi di lingua italiana (anziché solo di lingua araba); assicurando servizi
sociali per aiutare gli emigrati ad avere una vita più dignitosa e più
integrata; offrendo servizi particolari alle donne, visto che spesso non
partecipano agli incontri misti, ma nello stesso tempo incoraggiando la loro
integrazione in una società mista; esigendo la distinzione tra centro culturale
e luogo di preghiera; controllando la khutbah (spesso tradotta erroneamente con
"predica") fatta nel quadro della preghiera di mezzogiorno del
venerdì; assicurandosi che la distinzione, fondamentale in Italia, tra
religione e politica sia chiara, e aiutando la comunità musulmana a mantenerla.
No ai non residenti
Nell'autorizzare la costruzione di una moschea è ragionevole tener
conto dei cittadini musulmani della zona in questione, per decidere della sua
dimensione. Non sembra invece ragionevole tener conto dei non residenti, cioè
di chi non ha fatto l'opzione di vivere in questo Paese e di impegnarsi ad
assumere tutti gli obblighi che ne derivano, poiché lo scopo ultimo è creare
una comunità solidale tra gli italiani e chi è emigrato in Italia.
(da "La Civiltà Cattolica" del 17 marzo 2001, pagine
599-603. Nella foto sotto il titolo, la moschea di Dardasht a Isfahan, del
1367)
Fonte: visto su
CHIESA.ESPRESSOONLINE.IT
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