Teano: Garibaldi incontra Vittorio Emanuele II
di Valerio Rizzo
Prima dell’Unità
d’Italia esisteva la Mafia?
Saviano, durante la trasmissione “Vieni via con me” andata
in onda su Rai 3 lo scorso anno, ha narrato la leggenda dei tre cavalieri:
Ossso, Mastrosso e Carcagnosso, ma questa è appunto una leggenda!
Partiamo dalle parole del giudice Rocco Chinnici che, negli anni ’80, durante un’ intervista affermò:
“prima di occuparci
della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima
guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma
necessariamente, premettere che essa come associazione e con tale
denominazione, prima dell’unificazione non era mai esistita, in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione
del Regno d’Italia”.
Parole, queste, pronunciate da una persona che aveva
studiato il fenomeno mafioso e che la sapeva lunga sull’argomento, molto più di
tanti storici che se ne sono occupati.
Ma anche parole pesanti, difficilmente comprensibili per i
ben pensanti.
Facciamo adesso un passo indietro di qualche secolo, e
precisamente al tempo dei Promessi Sposi.
Manzoni nel suo romanzo descrive i personaggi di Don
Rodrigo, i Bravi: il Griso e il Nibbio, il conte Attilio e soprattutto
l’Innominato, storicamente identificabile in Francesco Bernardino Visconti,
ricco feudatario e capo di una squadra di bravacci che commetteva ogni sorta di
delitti. Ma i Promessi Sposi, prima ancora di essere la storia di due giovani
amanti, è un romanzo storico e come tale ritrae la società del tempo, nella
fattispecie quella milanese del 1600, i cui personaggi potrebbero
tranquillamente essere accomunati agli attuali boss, picciotti o al potente
colluso che per ottenere favori utilizza qualsiasi mezzo.
Tornando ai fatti risorgimentali ormai è nota l’alleanza tra
Garibaldi e i picciotti siciliani, l’eccidio di Bronte ne è l’esempio più
lampante, e lo stesso “eroe dei due mondi” scrive nel suo diario:
“E Francesco Crispi
arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta, 11 maggio 1860“,
ma anche la decisione dei piemontesi di “istituzionalizzare” la Camorra a
Napoli dandogli la gestione dell’ordine pubblico.
L’artefice di tale scelleratezza fu il Prefetto Liborio Romano che scrisse a Salvatore de Crescenzo, esponente della
camorra:
“redimersi per
diventare guardia cittadina, con quanti compagni avesse voluto, col fine di
assicurare l’ordine. In cambio, i camorristi irregimentati avrebbero goduto di
amnistia incondizionata e stipendio governativo”.
Famose poi furono le parole del deputato repubblicano,
Napoleone Colajanni, che nel 1900 affermò al Parlamento:
“Per combattere e
distruggere la mafia, è necessario che il Governo Italiano cessi di essere il
re della mafia”.
E il dubbio sorge anche se si cita un altro protagonista
indiscusso nella formazione sia dell’Unità che della Mafia: la Massoneria.
Molti fonti storiche ormai sono concordi col fatto che
l’impresa dei “mille” fu decisa a
tavolino dalla massoneria, escludendo la partecipazione del popolo. Il film
“Noi credevamo” di Mario Martone mette proprio in evidenza tale aspetto,
mentre, è accertato da sempre che Mafia e massoneria rappresentano quasi la
stessa cosa.
Dunque il dubbio si infittisce e le domande si moltiplicano
alquanto.
Per onestà intellettuale non sarebbe corretto far partire la
storia della criminalità organizzata dall’Unità d’Italia, in quanto già
esistevano germi di prepotenze e piccole organizzazioni di derivazione feudale.
Forse ciò che non è accettabile e che la storiografia sta
facendo venire a galla è il fatto che tali germi siano stati innaffiati dal
dopo-Unità, tanto da far nascere l’albero chiamato Mafia.
Se gli statisti di allora non avessero fatto questa scelta
immonda, forse la storia del nostro Paese sarebbe stata molto diversa.
Fonte: srs di Valerio Rizzo, da BRIGANTI.it del 3 maggio
2011
Link: http://briganti.info/91/
150 ANNI FA ENTRAVA GARIBALDI A
NAPOLI, FINIVA IL REGNO DELLE DUE SICILIE E LA “PIEDIGROTTA”
di Angelo Forgione
7 Settembre 1860: la “ Piedigrotta”, anche festa nazionale
delle Due Sicilie, è in pieno svolgimento quando, al culmine della risalita
della penisola da parte dei “mille garibaldini”, Re Francesco II di Borbone
lascia Napoli per evitare sofferenze al suo popolo. Nello stesso giorno, mentre
il Re delle Due Sicilie è in navigazione verso Gaeta, laddove organizzerà
l’ultima difesa del Regno, entra a Napoli Garibaldi che si reca a portare
omaggio alla Madonna per simpatizzare coi napoletani. Quella data è da
considerarsi a tutti gli effetti come l’inizio del potere camorristico in
città.
Le sommosse in Sicilia e le pressioni di Inghilterra e
Francia sotto la spinta delle massonerie avevano convinto Francesco II a
ripristinare la costituzione del 1848 e a promulgare un’amnistia che restituiva
la libertà a un gran numero di camorristi. La camorra di allora non era quella
di oggi, potente e ramificata, ma un’attività dedita ad affari di
quartiere.
Francesco II nominò Ministro di Polizia Liborio Romano, un liberale
pugliese, che subito dopo l’incarico contattò in segreto l’amnistiato
capintesta della camorra Salvatore De Crescenzo, detto “Tore ‘e Criscienzo”, chiedendogli di radunare tutti i
capi-quartiere della città affinché gli facessero visita. Si trattò di
un’assemblea in cui si sancì il primo caso di connivenza tra Stato e malavita
organizzata proprio sul nascere della nazione unita. Liborio Romano,
corrispondente di Cavour, avrebbe favorito l’ingresso di Garibaldi per poi
diventare Prefetto mentre il camorrista “Tore’e Criscienzo” sarebbe divenuto
Questore a capo della guardia cittadina costituita per intero da malavitosi col
compito di garantire l’ordine pubblico in una città in fermento.
I camorristi assoldati dalla nascente nazione si
distinguevano da una coccarda tricolore appuntata sul cappello. Seguirono
giorni di tumulti e assalti ai commissariati napoletani per distruggere gli
archivi; coloro che si opponevano venivano considerati nemici della patria e
ricevevano bastonate.
Il 7 Settembre 1860, dunque, Garibaldi entrò in Napoli a
bordo del treno borbonico, sotto l’occhio attento delle guardie camorristiche.
In testa al corteo che seguiva la carrozza del “dittatore delle Due Sicilie”
figurava proprio il questore capintesta “Tore ‘e Criscienzo”. Via Marina, Maschio Angioino, Largo di Palazzo
(Plebiscito) e breve discorso. Poi su per Via Toledo fino a Palazzo Doria
D’Angri dal quale si affacciò e ne prese possesso come dimora. Il giorno
seguente il Generale si recò a far visita alla Madonna di Piedigrotta
attraversando in parata la Riviera di Chiaia. Per volontà divina, Garibaldi, il
ministro “doppia faccia” Liborio Romano e tutti i camorristi di guardia furono
accolti da un tremendo temporale che inzuppò il corteo alla volta del
santuario.
Quella dell’anno seguente fu l’ultima Piedigrotta,
organizzata dal luogotenente Generale Enrico Cialdini, uomo impegnato in quel
periodo a massacrare migliaia di meridionali patrioti tacciati per questo col
marchio di briganti. I Savoia, tra i tanti demeriti, ebbero anche quello di
sospendere la festa nel 1862 dopo aver decretato nel Febbraio di quell’anno la
soppressione di tutti i conventi e la confisca dei beni mobili e immobili della
chiesa. Fu coinvolto ovviamente anche il santuario di Piedigrotta i cui
canonici furono liquidati con un piccolo vitalizio.
Finiva così la Piedigrotta, finiva Napoli Capitale. Quella
che riprenderà anni più tardi non sarà più la grande festa nazionale che i
visitatori del “Gran Tour” si recavano un tempo a vivere di persona.
Fonte: visto su il Blog di ANGELO FORGIONE, del 7 settembre
2010
Nessun commento:
Posta un commento