I poteri di Napolitano sono superiori a quelli di
Dio. Egli è padrone del cielo e della Terra. E soprattutto: immune perfino al
giudizio universale. Lo spiega bene l'ultimo professore di filosofia del
diritto rimasto (ancora per poco?) libero, l'ultimo degli immortali della
Costituzione: Paolo Becchi. Prendete
appunti.
di Paolo Becchi
Ordinario di Filosofia del Diritto all'Università di
Genova
La Corte Costituzionale ha depositato il testo della
sentenza sul conflitto di attribuzioni sollevato da Napolitano nei confronti
della Procura di Palermo. Si chiariscono, così, alcuni degli interrogativi che,
nel corso di una “querelle” a distanza con Eugenio Scalfari, avevo ritenuto
sarebbero verosimilmente emersi con l’avvenuto deposito delle motivazioni (P.
Becchi, Non
siamo tutti uguali davanti alla legge: le prerogative di Re Giorgio, 6 dicembre
2012).
Iniziamo dalla definizione, data dalla Corte, dei poteri e
delle prerogative del Presidente della Repubblica. La novità, qui, è
rappresentata dal fatto che – per la prima volta a quanto mi consta – la Corte
stabilisce una piena corrispondenza tra poteri formali ed «attività informali»
del Capo dello Stato:
Per svolgere
efficacemente il proprio ruolo di garante dell’equilibrio costituzionale e di
“magistratura di influenza”, il Presidente deve tessere costantemente una rete
di raccordi allo scopo di armonizzare eventuali posizioni in conflitto ed
asprezze polemiche […]. È indispensabile, in questo quadro, che il Presidente
affianchi continuamente ai propri poteri formali, che si estrinsecano
nell’emanazione di atti determinati e puntuali, espressamente previsti dalla
Costituzione, un uso discreto di quello che è stato definito il “potere di
persuasione”, essenzialmente composto di attività informali, […]. Le attività
informali sono pertanto inestricabilmente connesse a quelle formali.
Il ruolo del Capo dello Stato sarebbe, pertanto,
caratterizzato dall’ «intreccio continuo tra poteri informali e poteri formali»
(E. Cheli, Tendenze evolutive nel ruolo e nei poteri del Capo dello Stato, in
La figura ed il ruolo del Presidente della Repubblica nel sistema
costituzionale italiano, Milano, 1985, p. 96. Cfr. anche G. Lucatello, Atti
formali e attività informali nello svolgimento del ruolo del Presidente della
Repubblica, in Studi in onore di Feliciano Benvenuti, Modena, 1996, pp.
985-1010).
Incontri, comunicazioni, telefonate, sono tutte attività
informali che sarebbero inestricabilmente connesse, e non separabili, dai
poteri formalmente attribuiti dalla Costituzione al Presidente della
Repubblica. La Consulta, tuttavia, si spinge al di là di questa corrispondenza.
Queste “attività informali”, infatti, sono «fatte di incontri,
comunicazioni e raffronti dialettici» che «implicano necessariamente
considerazioni e giudizi parziali e provvisori da parte del Presidente e dei
suoi interlocutori». Il Presidente dev’essere, pertanto, sostanzialmente libero
nei mezzi, e la sua attività deve essere valutata soltanto in base al fine,
allo scopo raggiunto:
Le attività di
raccordo e di influenza possono e devono essere valutate e giudicate,
positivamente o negativamente, in base ai loro risultati, non già in modo
frammentario ed episodico, a seguito di estrapolazioni parziali ed indebite
[…]. Non occorrono molte parole per dimostrare che un’attività informale di
stimolo, moderazione e persuasione – che costituisce il cuore del ruolo
presidenziale nella forma di governo italiana – sarebbe destinata a sicuro
fallimento, se si dovesse esercitare mediante dichiarazioni pubbliche. La
discrezione, e quindi la riservatezza, delle comunicazioni del Presidente della
Repubblica sono pertanto coessenziali al suo ruolo nell’ordinamento
costituzionale.
Per la Corte questo principio risponderebbe alle «esigenze
intrinseche del sistema, che non sempre sono enunciate dalla Costituzione in
norme esplicite, e che risultano peraltro del tutto evidenti, se si adotta un
punto di vista sensibile alla tenuta dell’equilibrio tra i poteri». Occorre,
pertanto, garantire il segreto su tutte le attività del Capo dello Stato, e ciò
«non in rapporto ad una specifica funzione, ma per l’efficace esercizio di
tutte».
Ciò, tuttavia, non
elimina la distinzione, consolidatasi nella giurisprudenza della stessa
Consulta, fra «atti e dichiarazioni inerenti all’esercizio delle funzioni» e
«atti e dichiarazioni che, per non essere esplicazione di tali funzioni restano
addebitabili, ove forieri di responsabilità, alla persona fisica del titolare
della carica». L’art. 90 Cost., pertanto, non potrebbe comunque garantire
alcuna immunità al Capo dello Stato per reati commessi al di fuori
dell’esercizio delle sue funzioni, in relazione ai quali egli «è assoggettato
alla medesima responsabilità penale che grava su tutti i cittadini».
Le intercettazioni, allora, dovrebbero essere ammissibili,
come mezzo di ricerca della prova, quantomeno con riferimento ai reati
extrafunzionali. In tali ipotesi,
infatti, il Presidente della Repubblica non è né più né meno che un privato
cittadino. La Consulta, tuttavia, risponde negativamente:
Ciò che invece non è ammissibile è l’utilizzazione di
strumenti invasivi di ricerca della prova, quali sono le intercettazioni
telefoniche, che finirebbero per coinvolgere, in modo inevitabile e indistinto,
non solo le private conversazioni del Presidente, ma tutte le comunicazioni,
comprese quelle necessarie per lo svolgimento delle sue essenziali funzioni
istituzionali, per le quali, giova ripeterlo, si determina un intreccio
continuo tra aspetti personali e funzionali, non preventivabile, e quindi non
calcolabile ex ante da parte delle autorità che compiono le indagini. In tali
frangenti, la ricerca della prova riguardo ad eventuali reati extrafunzionali
deve avvenire con mezzi diversi (documenti, testimonianze ed altro), tali da
non arrecare una lesione alla sfera di comunicazione costituzionalmente
protetta del Presidente.
Qualcosa non torna, evidentemente. La Corte proibisce,
infatti, l’utilizzo di un mezzo di ricerca della prova spesso indispensabile
indipendentemente dalla distinzione tra reati funzionali ed extrafunzionali.
Cosa accade se il Presidente della Repubblica dovesse commettere uno di quei
reati di cui, di fatto, è impossibile acquisire la prova in altro modo dalle
intercettazioni? Si pensi proprio alle indagini sulla mafia, o a reati come la
turbativa d’asta, l’estorsione, etc. Quante volte, negli ultimi anni, i
magistrati hanno ripetuto che «quello delle intercettazioni è uno strumento
indispensabile per scoprire chi commette reati, per garantire e assicurare alla
giustizia i criminali ed evitare che ci sia impunità nel Paese» (Luca Palamara,
Presidente dell’ANM)? Se un Presidente della Repubblica dovesse investire con
la propria automobile un passante, è verosimile che saranno sufficienti le
testimonianze per inchiodarlo. Ma se fosse coinvolto in un’associazione di
stampo mafioso?
La conclusione è evidente: nessuna parità di trattamento,
nessuna eguaglianza, tra il Presidente della Repubblica ed i privati cittadini,
e ciò proprio in quelle ipotesi in cui, come ribadisce la Corte, il Capo dello
Stato si deve ritenere «assoggettato alla medesima responsabilità penale che
grava su tutti i cittadini». Alla stessa responsabilità, sì. Allo stesso tipo di
indagini, no. E che cosa resta della “responsabilità”, se non vi è modo di
accertarla?
Fonte: srs di di Paolo Becchi Ordinario di
Filosofia del Diritto all'Università di Genova;
da byoblu.com del 17 gennaio 2012
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