Per 42 anni al servizio dello Stato, 80mila sentenze e mai un giorno d’assenza. Sei volte davanti al Csm per le critiche alla corporazione: Sempre prosciolto
“Questa sconvolgente
intervista ce l’ha fatta conoscere il nostro Pasquale De Feo. E la sua importanza è tale che l’ho tolta dal
suo diario per farne un post apposito.
E’ un clamoroso atto
di denuncia del sistema giudiziario italiano, fatto da chi -Edoardo Mori,
magistrato lo è stato -in modo instancabile e apprezzatissimo- per 42 anni. Quello che racconta è lo sfacelo totale.
Una delle sue dichiarazioni..
«Il sistema di polizia, il trattamento
dell’imputato e il rapporto fra pubblici ministeri e giudice sono ancora fermi
al 1930. Le forze dell’ordine considerano delinquenti tutti gli indagati, i
cittadini sono trattati alla stregua di pezze da piedi, spesso gli
interrogatori degenerano in violenza. Il Pm gioca a fare il commissario e non
si preoccupa di garantire i diritti dell’inquisito. E il Gip pensa che sia suo
dovere sostenere l’azione del Pm».
Ed eccone un’altra…
«La categoria s’è autoapplicata la regola che
viene attribuita all’imputato Stefano Ricucci: “È facile fare il frocio col
sedere degli altri”. Le risulta che il Consiglio superiore della magistratura
abbia mai condannato i giudici che distrussero Enzo Tortora? E non parliamo
delle centinaia di casi, sconosciuti ai più, conclusi per l’inadeguatezza delle
toghe con un errore giudiziario mai riparato: un innocente condannato o un
colpevole assolto. In compenso il Csm è sempre solerte a bastonare chi si
arrischia a denunciare le manchevolezze delle Procure».
E ancora un’altra..
«i periti offrono ai Pm le risposte
desiderate, gli forniscono le pezze d’appoggio per confermare le loro tesi
preconcette. I Pm non tollerano un perito critico, lo vogliono disponibile a
sostenere l’accusa a occhi chiusi. E siccome i periti sanno che per lavorare
devono far contenti i Pm, si adeguano».
Edoardo Mori - uno
di quegli uomini precisi, scrupolosi e dallo stile impeccabile che sembrano
appartenere a un secolo precedente- se ne è andato dalla magistratura con un
senso di disgusto. Racconta di come troppe volte si è fatto e viene fatto
totalmente carta straccia del diritto.
E’ davvero
estremamente raro che un Magistrato, specie se ha svolto ruoli importanti,
faccia dichiarazioni di questo livello. Ecco perché crediamo che questa
intervista vada letta.”
E IL GIUDICE SI TOLSE
LA TOGA "NON SOPPORTAVO PIÙ L’IDIOZIA DI TROPPI COLLEGHI"
MAGISTRATI, ALZATEVI!
Stavolta gli
imputati siete voi e a processarvi è un vostro collega, il giudice Edoardo
Mori. Che un anno fa, come in questi giorni, decise di strapparsi di dosso la
toga, disgustato dall’impreparazione e dalla faziosità regnanti nei palazzi di
giustizia. «Sarei potuto rimanere fino al
2014, ma non ce la facevo più a reggere l’idiozia delle nuove leve che sui
giornali e nei tiggì incarnano il volto della magistratura. Meglio la pensione».
Per 42 anni il
giudice Mori ha servito lo Stato tutti i santi i giorni, mai un’assenza, a
parte la settimana in cui il figlioletto Daniele gli attaccò il morbillo; prima
per otto anni pretore a Chiavenna, in Valtellina, e poi dal 1977 giudice
istruttore, giudice per le indagini preliminari, giudice fallimentare (il più
rapido d’Italia, attesta il ministero della Giustizia), nonché presidente del
Tribunale della libertà, a Bolzano, dov’è stato protagonista dei processi
contro i terroristi sudtirolesi, ha giudicato efferati serial killer come Marco
Bergamo (cinque prostitute sgozzate a coltellate), s’è occupato d’ogni aspetto
giurisprudenziale a esclusione solo del diritto di famiglia e del lavoro.
Con un’imparzialità
e una competenza che gli vengono riconosciute persino dai suoi nemici.
Ovviamente se n’è fatti parecchi, esattamente come suo padre Giovanni, che da
podestà di Zeri, in Lunigiana, nel 1939 mandò a farsi friggere Benito
Mussolini, divenne antifascista e ospitò per sei mesi in casa propria i soldati
inglesi venuti a liberare l’Italia.
Mori confessa d’aver
tirato un sospirone di sollievo il giorno in cui s’è dimesso: «Il sistema di polizia, il trattamento
dell’imputato e il rapporto fra pubblici ministeri e giudice sono ancora fermi
al 1930. Le forze dell’ordine considerano delinquenti tutti gli indagati, i
cittadini sono trattati alla stregua di pezze da piedi, spesso gli
interrogatori degenerano in violenza. Il Pm gioca a fare il commissario e non
si preoccupa di garantire i diritti dell’inquisito. E il Gip pensa che sia suo
dovere sostenere l’azione del Pm».
Da sempre studioso
di criminologia e scienze forensi, il dottor Mori è probabilmente uno dei rari
magistrati che già prima di arrivare all’università si erano sciroppati il
Trattato di polizia scientifica di Salvatore Ottoleghi (1910) e il Manuale
del giudice istruttore di Hans Gross (1908). Le poche lire di paghetta
le investiva in esperimenti su come evidenziare le impronte digitali
utilizzando i vapori di iodio. Non c’è attività d’indagine (sopralluoghi,
interrogatori, perizie, autopsie, Dna, rilievi dattiloscopici, balistica) che
sfugga alle conoscenze scientifiche dell’ex giudice, autore di una miriade di
pubblicazioni, fra cui il Dizionario multilingue delle armi, il Codice
delle armi e degli esplosivi e il Dizionario dei termini giuridici e dei
brocardi latini che vengono consultati da polizia, carabinieri e avvocati
come se fossero tre dei 73 libri della Bibbia.
Nato a Milano nel
1940, nel corso della sua lunga carriera Mori ha firmato almeno 80.000 fra
sentenze e provvedimenti, avendo la soddisfazione di vederne riformati nei
successivi gradi di giudizio non più del 5 per cento, un’inezia rispetto alla
media, per cui gli si potrebbe ben adattare la frase latina che Sant’Agostino
nei suoi Sermones riferiva alle questioni sottoposte al vaglio della curia
romana o dello stesso pontefice: «Roma locuta, causa finita».
Il dato statistico
può essere riportato solo perché Mori è uno dei pochi, o forse l’unico in
Italia, che ha sempre avuto la tigna di controllare periodicamente com’erano
andati a finire i casi passati per le sue mani:
«Di norma ai giudici non viene neppure
comunicato se le loro sentenze sono state confermate o meno. Un giudice può
sbagliare per tutta la vita e nessuno gli dice nulla. La corporazione è stata di un’abilità
diabolica nel suddividere le eventuali colpe in tre gradi di giudizio.
Risultato: deresponsabilizzazione totale. Il giudice di primo grado non si
sente sicuro? Fa niente, condanna lo stesso, tanto – ragiona – provvederà
semmai il collega in secondo grado a metterci una pezza. In effetti i giudici
d’appello un tempo erano eccellenti per prudenza e preparazione, proprio perché
dovevano porre rimedio alle bischerate commesse in primo grado dai magistrati
inesperti. Ma oggi basta aver compiuto 40 anni per essere assegnati alla Corte
d’appello. Non parliamo della Cassazione: leggo sentenze scritte da analfabeti».
Soprattutto, se il giudice sbaglia, non paga mai. «La
categoria s’è autoapplicata la regola che viene attribuita all’imputato Stefano
Ricucci: “È facile fare il frocio col sedere degli altri”. Le risulta che il Consiglio superiore della
magistratura abbia mai condannato i giudici che distrussero Enzo Tortora? E non
parliamo delle centinaia di casi, sconosciuti ai più, conclusi per
l’inadeguatezza delle toghe con un errore giudiziario mai riparato: un
innocente condannato o un colpevole assolto. In compenso il Csm è sempre
solerte a bastonare chi si arrischia a denunciare le manchevolezze delle
Procure».
Il dottor Mori parla
con cognizione di causa: ha dovuto subire ben sei provvedimenti disciplinari e
tutti per aver criticato l’operato di colleghi arruffoni e incapaci.
«Dopo aver letto una relazione scritta per un
pubblico ministero pugliese, con la quale il perito avrebbe fatto condannare un
innocente sulla base di rivoltanti castronerie, mi permisi di scrivere al
procuratore capo, avvertendolo che quel consulente stava per esporlo a una gran
brutta figura. Ebbene, l’emerita testa mi segnalò per un procedimento
disciplinare con l’accusa d’aver “cercato di influenzarlo” e un’altra emerita
testa mi rinviò a giudizio. Ogni volta che ho segnalato mostruosità tecniche
contenute nelle sentenze, mi sono dovuto poi giustificare di fronte al Csm. E
ogni volta l’organo di autogoverno della magistratura è stato costretto a prosciogliermi.
Forse mi ha inflitto una censura solo nel sesto caso, per aver offuscato
l’immagine della giustizia segnalando che un incolpevole cittadino era stato
condannato a Napoli. Ma non potrei essere più preciso al riguardo, perché,
quando m’è arrivata l’ultima raccomandata dal Palazzo dei Marescialli, l’ho
stracciata senza neppure aprirla. Delle decisioni dei supremi colleghi non me
ne fregava più nulla».
–Perché ha fatto
il magistrato?
«Per laurearmi in
fretta, visto che in casa non c’era da scialare. Fin da bambino me la cavavo un
po’ in tutto, perciò mi sarei potuto dedicare a qualsiasi altra cosa: chimica,
scienze naturali e forestali, matematica, lingue antiche. Già da pretore mi
documentavo sui testi forensi tedeschi e statunitensi e applicavo regole che
nessuno capiva. Be’, no, a dire il vero uno che le capiva c’era: Giovanni
Falcone».
–Il magistrato
trucidato con la moglie e la scorta a Capaci.
«Mi portò al Csm a parlare di armi e
balistica. Ma poi non fui più richiamato perché osai spiegare che molti dei
periti che i tribunali usavano come oracoli non erano altro che ciarlatani.
Ciononostante questi asini hanno continuato a istruire i giovani magistrati e i
risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ma guai a parlar male dei periti ai
Pm: ti spianano. Pensi che uno di loro, utilizzato anche da un’università
romana, è riuscito a trovare in un residuo di sparo tracce di promezio,
elemento chimico non noto in natura, individuato solo al di fuori del sistema
solare e prodotto in laboratorio per decadimento atomico in non più di 10
grammi».
–Per quale motivo
i pubblici ministeri scambiano i periti per oracoli?
«Ma è evidente! Perché ».
–Ci sarà ben un
organo che vigila sull’operato dei periti.
«Nient’affatto, in Italia manca totalmente un
sistema di controllo. Quando entrai in magistratura, nel 1968, era in auge un
perito che disponeva di un’unica referenza: aver recuperato un microscopio
abbandonato dai nazisti in fuga durante la seconda guerra mondiale. Per
ottenere l’inserimento nell’albo dei periti presso il tribunale basta essere
iscritti a un ordine professionale. Per chi non ha titoli c’è sempre la
possibilità di diventare perito estimatore, manco fossimo al Monte di pietà. Ci
sono marescialli della Guardia di finanza che, una volta in pensione, ottengono
dalla Camera di commercio il titolo di periti fiscali e con quello vanno a far
danni nelle aule di giustizia».
–Sono sconcertato.
«Anche lei può diventare perito: deve solo
trovare un amico giudice che la nomini. I tribunali rigurgitano di tuttologi, i
quali si vantano di potersi esprimere su qualsiasi materia, dalla grafologia
alla dattiloscopia. Spesso non hanno neppure una laurea. Nel mondo anglosassone
vi è una tale preoccupazione per la salvaguardia dei diritti dell’imputato che,
se in un processo si scopre che un perito ha commesso un errore, scatta il
controllo d’ufficio su tutte le sue perizie precedenti, fino a procedere
all’eventuale revisione dei processi. In Italia periti che hanno preso
cantonate clamorose continuano a essere chiamati da Pm recidivi e imperterriti,
come se nulla fosse accaduto».
–Può fare qualche
caso concreto?
«Negli accertamenti sull’attentato a Falcone
vennero ricostruiti in un poligono di tiro – con costi miliardari, parlo di lire
– i 300 metri dell’autostrada di Capaci
fatta saltare in aria da Cosa nostra, per scoprire ciò che un esperto già
avrebbe potuto dire a vista con buona approssimazione e cioè il quantitativo di
esplosivo usato. È chiaro che ai fini processuali poco importava che fossero
500 o 1.000 chili. Molto più
interessante sarebbe stato individuare il tipo di esplosivo. Dopo aver
costruito il tratto sperimentale di autostrada, ci si accorse che un manufatto
recente aveva un comportamento del tutto diverso rispetto a un manufatto
costruito oltre vent’anni prima. Conclusione:
quattrini gettati al vento. Nel caso
dell’aereo Itavia, inabissatosi vicino a Ustica nel 1980, gli esami chimici
volti a ricercare tracce di esplosivi su reperti ripescati a una profondità di
circa 3.500 metri vennero affidati a chimici dell’Università di Napoli, i quali
in udienza dichiararono che tali analisi esulavano dalle loro competenze. Però
in precedenza avevano riferito di aver trovato tracce di T4 e di Tnt in un sedile dell’aereo e questa perizia ebbe
a influenzare tutte le successive pasticciate indagini, orientate a dimostrare
che su quel volo era scoppiata una bomba. Vuole un altro esempio di imbecillità
esplosiva?».
–Prego. Sono
rassegnato a tutto.
«Per anni fior di magistrati hanno cercato di
farci credere che il plastico impiegato nei più sanguinosi attentati attribuiti
all’estrema destra, dal treno Italicus nel 1974 al rapido 904 nel 1984, era
stato recuperato dal lago di Garda, precisamente da un’isoletta, Trimelone,
davanti al litorale fra Malcesine e Torri del Benaco, militarizzata fin dal
1909 e adibita a santabarbara dai nazisti. Al processo per la strage di Bologna l’accusa
finì nel ridicolo perché nessuno dei periti s’avvide che uno degli esplosivi,
asseritamente contenuti nella valigia che provocò l’esplosione e che pareva
fosse stato ripescato nel Benaco dai terroristi, era in realtà contenuto solo
nei razzi del bazooka M20 da 88 millimetri di fabbricazione statunitense, entrato in servizio nel 1948. Un po’ dura
dimostrare che lo avessero già i tedeschi nel 1945».
–Ormai non ci si
può più fidare neppure dell’esame del Dna, basti vedere la magra figura
rimediata dagli inquirenti nel processo d’appello di Perugia per l’omicidio di
Meredith Kercher.
«Si dice che questo esame presenti una
probabilità d’errore su un miliardo. Falso. Da una ricerca svolta su un
database dell’Arizona, contenente 65.000 campioni di Dna, sono saltate fuori
ben 143 corrispondenze. Comunque era sufficiente vedere i filmati in cui uno
degli investigatori sventolava trionfante il reggiseno della povera vittima per
capire che sulla scena del delitto era intervenuta la famigerata squadra
distruzione prove. A dimostrazione delle cautele usate, il poliziotto indossava
i guanti di lattice. Restai sbigottito vedendo la scena al telegiornale. I
guanti servono per non contaminare l’ambiente col Dna dell’operatore, ma non per
manipolare una possibile prova, perché dopo due secondi che si usano sono già
inquinati. Bisogna invece raccogliere ciascun reperto con una pinzetta sterile
e monouso. I guanti non fanno altro che trasportare Dna presenti nell’ambiente
dal primo reperto manipolato ai reperti successivi. E infatti adesso salta fuori che sul gancetto
del reggipetto c’era il Dna anche della dottoressa Carla Vecchiotti, una delle
perite che avrebbero dovuto isolare con certezza le eventuali impronte
genetiche di Raffaele Sollecito e Amanda Knox. Non è andata meglio a Cogne».
–Cioè?
«In altri tempi l’indagine sulla tragica fine
del piccolo Samuele Lorenzi sarebbe stata chiusa in mezza giornata. Gli
infiniti sopralluoghi hanno solo dimostrato che quelli precedenti non erano
stati esaustivi. Il sopralluogo è un passaggio delicatissimo, che non consente
errori. Gli accessi alla scena del delitto devono essere ripetuti il meno
possibile perché ogni volta che una persona entra in un ambiente introduce
qualche cosa e porta via altre cose. Ma il colmo dell’ignominia è stato toccato
nel caso Marta Russo».
–Si riferisce
alle prove balistiche sul proiettile che uccise la studentessa nel cortile
dell’Università La Sapienza di Roma?
«E non solo. S’è preteso di ricostruire la
traiettoria della pallottola avendo a disposizione soltanto il foro d’ingresso
del proiettile su un cranio che era in movimento e che quindi poteva rivolgersi
in infinite direzioni. In tempi meno bui, sui libri di geometria del ginnasio
non si studiava che per un punto passano infinite rette? Dopodiché sono andati
a grattare il davanzale da cui sarebbe partito il colpo e hanno annunciato
trionfanti: residui di polvere da sparo, ecco la prova! Peccato che si
trattasse invece di una particella di ferodo per freni, di cui l’aria della
capitale pullula a causa del traffico. La segretaria Gabriella Alletto è stata
interrogata 13 volte con metodi polizieschi per farle confessare d’aver visto
in quell’aula gli assistenti Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. Uno che si
comporta così, se non è un pubblico ministero, viene indagato per violenza
privata. Un Pm non può usare tecniche da commissario di pubblica sicurezza,
anche se era il metodo usato da Antonio Di Pietro, che infatti è un ex
poliziotto».
–Un sistema che ha fatto scuola.
«La galera come mezzo di pressione sui
sospettati per estorcere confessioni. Le manette sono diventate un moderno
strumento di tortura per acquisire prove che mancano e per costringere a
parlare chi, per legge, avrebbe invece diritto a tacere».
–Che cosa pensa delle intercettazioni telefoniche che
finiscono sui giornali?
«Non serve una nuova legge per vietare la
barbarie della loro indebita pubblicazione. Quella esistente è perfetta, perché
ordina ai Pm di scremare le intercettazioni utili all’indagine e di distruggere
le altre. Tutto ciò che non riguarda l’indagato va coperto da omissis in fase
di trascrizione. Nessuno lo fa: troppa fatica. Ci vorrebbe una sanzione penale
per i Pm. Ma cane non mangia cane, almeno in Italia. In Germania, invece,
esiste uno specifico reato. Rechtsverdrehung, si chiama. È lo stravolgimento
del diritto da parte del giudice».
–Come mai la giustizia s’è ridotta così?
«Perché, anziché cercare la prova logica,
preferisce le tesi fantasiose, precostituite. Le statistiche dimostrano invece
che nella quasi totalità dei casi un delitto è banale e che è assurdo andare in
cerca di soluzioni da romanzo giallo. Lei ricorderà senz’altro il rasoio di
Occam, dal nome del filosofo medievale Guglielmo di Occam».
–In un ragionamento tagliare tutto ciò che è inutile.
«Appunto. Le regole logiche da allora non
sono cambiate. Non vi è alcun motivo per complicare ciò che è semplice. Il “cui
prodest?” è risolutivo nel 50 per cento dei delitti. Chi aveva interesse a
uccidere? O è stato il marito, o è stata la moglie, o è stato l’amante, o è
stato il maggiordomo, vedi assassinio dell’Olgiata, confessato dopo 20 anni dal
cameriere filippino Manuel Winston. Poi servono i riscontri, ovvio. In molti
casi la risposta più banale è che proprio non si può sapere chi sia l’autore di
un crimine. Quindi è insensato volerlo trovare per forza schiaffando in
prigione i sospettati».
–Ma perché si commettono tanti errori nelle indagini?
«I giudici si affidano ai laboratori
istituzionali e ne accettano in modo acritico i responsi. Nei rari casi in cui
l’indagato può pagarsi un avvocato e un buon perito, l’esperienza dimostra che
l’accertamento iniziale era sbagliato. I medici i loro errori li nascondono
sottoterra, i giudici in galera. Paradigmatico resta il caso di Ettore Grandi,
diplomatico in Thailandia, accusato nel 1938 d’aver ucciso la moglie che invece
si era suicidata. Venne assolto nel 1951 dopo anni di galera e ben 18 perizie
medico-legali inconcludenti».
–E si ritorna alla conclamata inettitudine dei periti.
«L’indagato innocente avrebbe più vantaggi
dall’essere giudicato in base al lancio di una monetina che in base a delle
perizie. E le risparmio l’aneddotica sulla voracità dei periti».
–No, no, non mi risparmi nulla.
«Vengono pagati per ogni singolo elemento
esaminato. Ho visto un colonnello, incaricato di dire se 5.000 cartucce nuove
fossero ancora utilizzabili dopo essere rimaste in un ambiente umido,
considerare ognuna delle munizioni un reperto e chiedere 7.000 euro di
compenso, che il Pm gli ha liquidato: non poteva spararne un caricatore? Ho
visto un perito incaricato di accertare se mezzo container di kalashnikov
nuovi, ancora imballati nella scatola di fabbrica, fossero proprio kalashnikov.
I 700-800 fucili mitragliatori sono stati
computati come altrettanti reperti. Parcella da centinaia di migliaia di euro.
Per fortuna è stata bloccata prima del pagamento».
–In che modo se ne esce?
«Nel Regno Unito vi è il Forensic sciences
service, soggetto a controllo parlamentare, che raccoglie i maggiori esperti in
ogni settore e fornisce inoltre assistenza scientifica a oltre 60 Stati esteri.
Rivolgiamoci a quello. Dispone di sette laboratori e impiega 2.500 persone,
1.600 delle quali sono scienziati di riconosciuta autorità a livello mondiale».
–E per le altre magagne?
«In Italia non esiste un testo che insegni
come si conduce un interrogatorio. La regola fondamentale è che chi interroga
non ponga mai domande che anticipino le risposte o che lascino intendere ciò
che è noto al pubblico ministero o che forniscano all’arrestato dettagli sulle
indagini. Guai se il magistrato fa una domanda lunga a cui l’inquisito deve
rispondere con un sì o con un no. Una palese violazione di questa regola
elementare s’è vista nel caso del delitto di Avetrana. Il primo interrogatorio
di Michele Misseri non ha consentito di accertare un fico secco perché il Pm
parlava molto più dello zio di Sarah Scazzi: bastava ascoltare gli scampoli di
conversazione incredibilmente messi in onda dai telegiornali. Ci sarebbe molto
da dire anche sulle autopsie».
–Ci provi.
«È ormai routine leggere che dopo un’autopsia
ne viene disposta una seconda, e poi una terza, quando non si riesumano
addirittura le salme sepolte da anni. Ciò dimostra solamente che il primo
medico legale non era all’altezza. Io andavo di persona ad assistere agli esami
autoptici, spesso ho dovuto tenere ferma la testa del morto mentre
l’anatomopatologo eseguiva la craniotomia. Oggi ci sono Pm che non hanno mai
visto un cadavere in vita loro».
–Ma in mezzo a questo mare di fanghiglia, lei com’è
riuscito a fare il giudice per 42 anni, scusi?
«Mi consideri un
pentito. E un corresponsabile. Anch’io ho abusato della carcerazione
preventiva, ma l’ho fatto, se mai può essere un’attenuante, solo con i
pregiudicati, mai con un cittadino perbene che rischiava di essere rovinato per
sempre. Mi autoassolvo perché ho sempre lavorato per quattro. Almeno questo,
tutti hanno dovuto riconoscerlo».
–Non è stato roso dal dubbio d’aver condannato un
innocente?
«Una volta sì. Mi
ero convinto che un impiegato delle Poste avesse fatto da basista in una
rapina. Mi fidai troppo degli investigatori e lo tenni dentro per
quattro-cinque mesi. Fu prosciolto dal tribunale».
–Gli chiese scusa?
«Non lo rividi più, sennò l’avrei fatto. Lo
faccio adesso. Ma forse è già morto».
Intervistato sul Corriere della Sera da Indro
Montanelli nel 1959, il giorno dopo essere andato in pensione, il presidente
della Corte d’appello di Milano, Manlio Borrelli, padre dell’ex procuratore di
Mani pulite, osservò che «in uno Stato bene ordinato, un giudice dovrebbe, in
tutta la sua carriera e impegnandovi l’intera esistenza, studiare una causa
sola e, dopo trenta o quarant’anni, concluderla con una dichiarazione
d’incompetenza».
«In Germania o in Francia non si parla mai di
giustizia. Sa perché? Perché funziona bene. I magistrati sono oscuri funzionari
dello Stato. Non fanno né gli eroi né gli agitatori di popolo. Nessuno conosce
i loro nomi, nessuno li ha mai visti in faccia».
Si dice che il giudice non dev’essere solo imparziale:
deve anche apparirlo. Si farebbe processare da un suo collega che arriva in
tribunale con Il Fatto Quotidiano sotto braccio? Cito questa testata
perché di trovarne uno che legga Il Giornale non m’è mai capitato.
«Ho smesso d’andare ai convegni di magistrati
da quando, su 100 partecipanti, 80 si presentavano con La Repubblica e
parlavano solo di politica. Tutti espertissimi di trame, nomine e carriere,
tranne che di diritto».
–Quanti sono i giudici italiani dai quali si lascerebbe
processare serenamente?
«Non più del 20 per cento. Il che collima con
le leggi sociologiche secondo cui gli incapaci rappresentano almeno l’80 per
cento dell’umanità, come documenta Gianfranco Livraghi nel suo saggio Il potere
della stupidità».
–Perché ha aspettato il collocamento a riposo per
denunciare tutto questo?
«A dire il vero l’ho sempre denunciato, fin
dal 1970. Solo che potevo pubblicare i miei articoli unicamente sul mensile
Diana Armi. Ha chiuso otto mesi fa».
Fonte: srs di Stefano Lorenzetto, da Il Giornale del 18 settembre 2011
Fonte: da LE URLA
DEL SILENZIO del 5 settembre 2012
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