Il Presidente Monti ci dice che, nel novembre 2011, nei
giorni dell’insediamento del Governo “tecnico”, l’Italia era a rischio di
fallimento e che si rischiava di non poter pagare i dipendenti pubblici. Ci
dice anche che l’aumento del debito pubblico nel corso del 2012 è imputabile
agli aiuti forniti dal nostro Paese a Grecia e Portogallo. Come è possibile
tenere insieme queste due affermazioni? E’ ragionevole pensare che uno Stato a
rischio di fallimento si adoperi per aumentare questo rischio (o accetti di
farlo) per destinare proprie risorse al salvataggio di altri Stati?
Per quanto è possibile sapere, la prima affermazione è tutta
da dimostrare, e fin qui non dimostrata da fonti ufficiali: su fonte Ragioneria
Generale dello Stato, al 2011, il bilancio dello Stato italiano presentava
un consistente avanzo primario, presumibilmente di importo tale da
scongiurare l’eventualità di non poter sostenere le spese correnti della
pubblica amministrazione. Su queste basi, si può affermare – in attesa di
smentita – che lo “stato di emergenza”
(premessa delle politiche di austerità messe in atto, con la massima
accelerazione, dal Governo “tecnico”) non
sussisteva e, dunque, che le politiche realizzate lo scorso anno rispondevano a obiettivi diversi da quello
dichiarato (evitare il rischio di default).
In più, l’impegno assunto dal Governo italiano di destinare
ingenti risorse al “salvataggio” delle banche spagnole sta semmai a dimostrare
che, fra i Paesi europei e ancor più fra i PIIGS, l’Italia è un Paese con una
dinamica del bilancio pubblico già relativamente virtuosa. Non a caso, nella
c.d. Agenda Monti, si fa ora correttamente riferimento al fatto che l’Italia
è un “contributore netto” del bilancio europeo. Ma, mentre nell’Agenda
Monti, non è dato sapere se lo era già prima dell’insediamento del Governo
“tecnico” o se lo è diventato nel corso del 2012, risulta evidente – su fonte
MEF – che, almeno dal 2010, l’Italia ha versato all’Unione Europea più
di quanto ha ricevuto.
Si tratta di una questione, quest’ultima, che merita di
essere chiarita. Mentre negli anni ottanta e novanta, l’Italia oggettivamente
costituiva un’anomalia nell’ambito dei Paesi OCSE per il suo elevato debito
pubblico, negli ultimi anni l’indebitamento italiano è stato sostanzialmente in
linea con quello dei principali Paesi industrializzati e, in alcuni casi (Giappone
in primo luogo), notevolmente inferiore. Se, dunque, nel 2011, l’Italia non era
prossima a una condizione di fallimento, e se il suo indebitamento è stato
sostanzialmente in linea con quello degli altri Paesi dell’Unione Europea, non si capisce – se non adducendo motivazioni
che hanno a che vedere con le imminenti elezioni – per quale ragione il 2012 è
stato caratterizzato dalla più alta pressione fiscale della storia del nostro
Paese e per quale ragione ora Monti scriva, nella sua Agenda (p.5), che “ridurre
le tasse si rende possibile”.
Il Governo Monti si insediò dichiarando che avrebbe
perseguito tre obiettivi: il rigore, lo sviluppo, l’equità. Non solo nessuno dei tre obiettivi è stato
raggiunto, ma da questi ci si è allontanati. Per quanto riguarda il rigore
nella gestione delle finanze pubbliche, può essere sufficiente ricordare che il
rapporto debito pubblico/PIL è aumentato, in un anno, di 6 punti percentuali.
Il modesto calo degli interessi pagati sui titoli del debito pubblico
(nell’ordine dello 0.5% in un anno) è imputabile, come rilevato da molti
osservatori, non alla presunta “credibilità” del prof. Monti, ma agli interventi della Banca Centrale
Europea nei mercati finanziari. Al netto degli acquisiti di titoli pubblici da
parte della BCE, la dinamica dei differenziali di rendimento fra titoli
italiani e bund tedeschi è stata, nel 2012, in linea con quella determinatasi
l’anno precedente. In più, come recentemente attestato dal Fondo Monetario
Internazionale, l’aumento
del rapporto debito pubblico/PIL è
avvenuto proprio per effetto delle politiche di austerità. L’obiettivo
dello sviluppo è stato clamorosamente mancato:
la riduzione della spesa pubblica e l’aumento della pressione fiscale hanno
prodotto un calo della domanda aggregata interna tale da generare un tasso di
crescita negativo nell’ordine del -2,4% nel 2012 (fonte Banca d’Italia).
L’Italia degli ultimi anni è diventato, fra i Paesi OCSE, uno dei Paesi (con
Gran Bretagna e Stati Uniti) con la maggiore immobilità sociale e con la più
diseguale distribuzione del reddito: dunque, un Paese sempre meno equo.
E’ anche difficile comprendere la tesi di Monti secondo la
quale, a fronte di “sacrifici” necessari nel breve periodo, si attiverà – più o
meno spontaneamente – un percorso di crescita in un futuro più o meno prossimo.
La c.d. Agenda Monti è troppo vaga per capire quali meccanismi di ripresa della
crescita Monti abbia in mente. Gli unici punti fermi sono la preclusione
ideologica al ricorso a politiche keynesiane e una sostanziale ambiguità
riguardo alle politiche per l’istruzione e la sanità.
A p.9 della sua Agenda, si legge: “La scuola e l’Università
sono le chiavi per far ripartire il Paese e renderlo più capace di affrontare
le sfide globali”. Il prof. Monti pensa che questo risultato venga raggiunto
attraverso il taglio di 300 milioni di euro alle Università statali che proprio
il suo Governo ha decretato nell’ultima Legge di Stabilità? O pensa che scuola e Università sono “le
chiavi per far ripartire il Paese” a condizione che siano private? Lo
stanziamento di fondi aggiuntivi alla Bocconi deciso dal Governo da lui
presieduto fa propendere per questa seconda ipotesi. C’è molto da dubitare sul
fatto che la privatizzazione dell’istruzione sia una strategia efficace per
generare crescita, e ci sono, per contro, ottime ragioni per ritenere che, come
si sta sperimentando nei Paesi anglosassoni, ciò non abbia altri effetti se non
accrescere
l’indebitamento degli studenti e delle loro famiglie.
A ciò Monti aggiunge: “Il servizio sanitario nazionale resta
una conquista da difendere”. Lo scrive ora; ma non è forse vero che la sua
spending review ha sottratto al servizio sanitario nazionale quasi 2mila
miliardi di euro per il biennio 2012-2013?
Fonte: srs di di Guglielmo Forges Davanzati, da
MicroMega del 10 gennaio 2013
Link: http://temi.repubblica.it/micromega-online/monti-la-tecnica-della-falsificazione/#.UPaYYuzk5P8.facebook
IL BARATRO FISCALE DELL’AGENDA
MONTI
Non ci sono solo gli Stati Uniti. Anche l’Italia ha il suo
baratro fiscale, come quello Usa di natura politica prima che economica.
L’agenda Monti vi dedica ampio spazio, sebbene usi altri termini. In realtà il
baratro l’ha aperto il Parlamento quando ha ratificato mesi fa – su proposta
del governo Monti – il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento ecc. imposto
da Consiglio europeo, Commissione e Bce. L’art. 4 prescrive: “Quando il
rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo di una parte
contraente supera il valore.. del 60%... tale parte contraente opera una
riduzione a un ritmo medio di un ventesimo all’anno”. Il Trattato è già in
vigore, ma in base a un precedente regolamento del Consiglio, l’inizio della
riduzione del debito verso la meta del 60 per cento dovrebbe aver luogo solo
dal 2015.
L’agenda Monti riprende quasi alla lettera tale prescrizione
(punto 2, comma c). Si tratta a ben guardare del tema più importante sia della
campagna elettorale che dell’azione del prossimo governo, quale esso sia. Il
motivo dovrebbe esser chiaro. Ridurre davvero il nostro debito pubblico nella
misura e nei tempi richiesti dal Trattato in questione è un’operazione che così
come si presenta oggi ha soltanto due sbocchi: una generazione o due di miseria
per l’intero Paese; aspri conflitti sociali; discesa definitiva della nostra
economia in serie D. Oppure la constatazione che il debito ha raggiunto un
livello tale da essere semplicemente impagabile, per la ragione che esso deriva
sin dagli anni ‘60 non da un eccesso di spesa, bensì dalla accumulazione di
interessi troppo alti. Quindi si dovrebbero trovare altre strade rispetto alle
politiche attuate da Monti e riproposte dalla sua agenda.
Al fine di ripagare un debito a lunga scadenza in rate
annuali è infatti essenziale una condizione: che il debitore, al netto di
quanto spende per il proprio sostentamento, abbia ogni anno delle entrate, per
tutta la durata prevista, che siano almeno pari in media a quella di ciascuna
rata del debito. Nel caso del debito pubblico italiano tale condizione base non
esiste. Il Pil supera i 1650 miliardi, per cui il 60 per cento di esso ne vale
circa 1000. Mentre il debito accumulato ha superato i 2000. Al fine di farlo
scendere al 60 per cento del Pil come prescrive il Trattato, si dovrebbe quindi
ridurre il debito di 50 miliardi l’anno per un ventennio.
La cifra è di per sé paurosa, tale da immiserire tre quarti
della popolazione. Ma il problema non è solo questo. È che l’interesse sul
debito, al tasso medio del 4 per cento, comporta una spesa di 80 miliardi
l’anno, la quale si somma ogni anno al debito pregresso. Ne segue che
quest’ultimo non smette di crescere. Ora, se riduco il debito di 50 miliardi,
avrò sì risparmiato 2 miliardi di interessi; però sui restanti 1950 miliardi
dovrò pur sempre pagarne 78. Risultato: il debito è salito a 2028 miliardi
(2000-50+78).
L’anno dopo taglio il debito di altri 50 miliardi e gli
interessi di 2. Però devo pagarne 76, per cui il debito risulterà salito a
2054. Chi vuole può continuare. Magari inserendo nel calcoletto un dettaglio:
l’art. 4 del Trattato prescinde del fatto che il debito di un paese potrebbe
col tempo aumentare di molto, per cui l’entità del ventesimo di rientro
andrebbe alle stelle. L’Italia, per dire, potrebbe ritrovarsi a fine 2015 con
un Pil di poco superiore all’attuale, ma con un debito che a causa
dell’accumulo degli interessi ha raggiunto i 2200 miliardi. Così i miliardi
annui da tagliare passerebbero da 50 a 60.
Le obiezioni da opporre a quanto rilevato sopra le sappiamo.
Il raggiungimento di un discreto avanzo primario ha già permesso di ridurre la
spesa degli interessi di 5 miliardi: lo ricorda anche l’agenda Monti. La
riduzione del differenziale di rendimento a confronto dei titoli tedeschi
permetterà altri risparmi. Dalla dismissione di grosse quote del patrimonio
pubblico arriveranno fior di miliardi. Le spese dello Stato possono venire
ridotte di parecchi altri punti; qualcuno parla addirittura di 5 punti per più
anni, alla luce di una profonda teoria politica che si compendia col dire
“bisogna affamare la bestia” (cioè lo Stato, cioè quasi tutti noi). Per finire
con l’immancabile “a fine 2013 arriverà la crescita e il Pil riprenderà a
salire”.
Ciascuna delle suddette obiezioni o è fondata sull’acqua,
come la previsione di ricavare alla svelta decine di miliardi dalla dismissione
di beni pubblici – vedi la sorte delle cartolarizzazioni di Tremonti – oppure
sull’accettazione per i prossimi venti o trent’anni di politiche lacrime e
sangue, ancora peggiori di quelle che hanno afflitto gli ultimi anni
all’insegna dell’austerità.
Naturalmente il problema non riguarda soltanto l’eventuale
ritorno al governo di Monti con la sua agenda. Riguarda più ancora i partiti come
Pd e Sel, che le elezioni potrebbero pure vincerle, ma che hanno dichiarato di
voler rispettare nell’insieme l’agenda in parola. Sono essi per primi a dover
scegliere la strada per uscire dalle strettoie attuali. Da un lato si profila
una grave regressione sociale e politica, oltre che economica, indotta dalla
ricerca coattiva del mezzo per ripagare un debito ormai impagabile. Dall’altro
bisogna riconoscere questa sgradevole realtà, e aprire con decisione una
trattativa su scala europea per trovare modi meno iniqui socialmente per uscire
dall’impasse del debito pubblico, il che non riguarda ovviamente solo l’Italia.
Un riconoscimento al quale potrebbe seguire la ricerca dei
modi per superare una contraddizione in verità non più tollerabile: una Bce che
presta migliaia di miliardi alle banche (lo ha fatto, per citare un solo caso,
tra novembre 2011 e febbraio 2012) all’1 per cento, ma non può fare altrettanto
con gli stati. Per cui questi vendono obbligazioni alle banche, sulle quali
esse percepiscono interessi tripli o quadrupli. È vero, l’art. 123 del Trattato
Ue vieta alla Bce di prestare denaro direttamente agli Stati. Ma a parte il
fatto che prima o poi tale articolo dovrà essere modificato, posto che esso fa
della Bce l’unica banca centrale al mondo che non può svolgere le funzioni
proprie di una banca centrale, si dovrebbe d’urgenza porre rimedio a tale
inaudita contraddizione.
Con il baratro fiscale di mezzo, la riduzione del debito
pubblico a meno della metà è inconcepibile. Ma se l’Italia, per dire, potesse
prendere in prestito dalla Bce, in forma obbligazionaria o altra, 1000 miliardi
al tasso dell’1 per cento, come han fatto le banche europee nel caso precitato,
allora potrebbe diventarlo. Pensiamoci. E magari proviamo a spiegare ai
cittadini come si pone realmente per il prossimo futuro la questione del debito
pubblico.
Fonte: srs di Luciano Gallino, da
Repubblica, 8 Gennaio 2013
Link: http://www.repubblica.it
Fonte: da Micromedia del
8 gennaio 2013
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