La Battaglia di Ostia,
Raffaello Sanzio e allievi (1515)
Già nell’830 pirati saraceni avevano devastato le aree
abitate della campagna romana, giungendo fino alle basiliche di San Pietro e
San Paolo e penetrando fino a Subiaco dove venne distrutto l’abitato e il
Cenobio. Analogamente a questi eventi, nella notte tra il 24 e il 25 agosto dell’846
i pirati saraceni, dopo aver attaccato e saccheggiato Centumcellae,
Civitavecchia, Porto e Ostia, si spinsero fino a Roma.
Questo è l’antefatto di una guerra che fu il jihad,
con una sua lunga e terribile contabilità
fatta di centinaia di attacchi,
raids e scorrerie, sul mare come all’interno che interessano non solo il Sud
Italia, ma tutta la costa e le isole tirreniche, dalla Calabria al Lazio fino
alla Lunigiana, a Genova, alla Sardegna, alla Corsica. E l’Adriatico: la
Puglia, con tutte le sue città, Ancona, le foci del Po, Grado, la Dalmazia. E i
saraceni penetrano anche nell’interno, dal nord della Puglia fino agli Abruzzi
e al ducato di Spoleto. Con incursioni che raggiungono il Piemonte, la Val di
Susa, Asti. Ingaggiando numerose battaglie di terra e di mare, importanti o
meno, tra cui Ostia e Milazzo.
«Nel mese di agosto 846 – scrive Prudenzio di Troyes – i
saraceni e i mauri investirono Roma devastando la basilica del beato Pietro
principe degli Apostoli, asportando insieme all’altare che sovrastava la sua
tomba tutti gli ornamenti e i tesori. Alcuni duchi dell’imperatore Lotario
furono empiamente tagliati a pezzi».
Da Harun ibn Yahya
sappiamo quale fosse la provenienza di questi saraceni: sono spagnoli.
Mentre il Liber
pontificalis riporta in che modo fosse composta la flotta e quanti gli
armati: sbarca ad Ostia un gruppo di sessantatré navi, da cui scendono
cinquecento cavalieri.
Vediamo ora come si svolsero i fatti: i saraceni,
dapprincipio, risalgono il Tevere senza trovare alcuna resistenza. Assaltano le
sedi dei forestieri, le scholae dei pellegrini sassoni, frisoni e franchi.
Saccheggiano tutta la zona fuori dalle mura aureliane. Profanano le
basiliche di San Pietro e San Paolo.
Le locuste, si disse, sono arrivate a distruggere le messi.
L’unica reazione arriva dai contadini romani che attaccano
il contingente saraceno, che scappa con diverse perdite.
Il gruppo di predoni, scompaginato, una volta lasciata la
città si riunisce di nuovo. Per altre razzie. Si avvia verso il Beneventano,
lungo l’Appia. Arriva a Fondi.
A settembre comincia ad assediare Gaeta. Da Napoli e da
Amalfi partono dei rinforzi, guidati dal console Cesario. Un contingente
dell’imperatore franco corre in aiuto di Roma e cade in un agguato. È uno
sfacelo.
I saraceni si dirigono verso Montecassino. Per strada
bruciano tutto quello che trovano, chiese, cappelle, abitati. Li blocca
solo un violento nubifragio. Si avvicina l’inverno. Per i razziatori è il
momento di rientrare alle loro basi. Il blocco di Gaeta si spegne. Scatta,
giocoforza, la tregua.
L’evento che colpisce
Roma lascia una profonda ferita, i cui echi si proiettano ancora nel XII
secolo, nella Destruction de Rome,
sorta di proemio alla Chanson de Fierbras. Appare quasi inconcepibile che non
sia esistito alcun meccanismo di difesa da parte romana. Il gruppo saraceno non
è enorme. Basta un nubifragio a fermarlo: un po’ poco. A ogni buon conto, è la
capacità di sorpresa, l’effetto psicologico che li rende imbattibili.
D’altro canto, i latini non possono che opporre la
resistenza della popolazione locale, di contadini che si ingegnano guerrieri
nell’assenza totale di ogni altra forza militare. I cavalieri franchi, poi,
appaiono, in questa occasione, impreparati a confrontarsi con forze così rapide
come quelle saracene. Si devono aspettare i napoletani e gli amalfitani, gli
unici, in quel momento, ad avere una potenza navale e armata sufficiente da
contrapporre. Ma c’è incertezza sulla loro fedeltà.
Fatto sta che i musulmani possono stazionare, praticamente
indisturbati, per quattro mesi, tra Roma e il basso Lazio, mettendo a sacco la
periferia della città, alle strette Gaeta, riducendo in macerie tutta la
zona tra Fondi e Montecassino.
Dopo il massacro, in ogni modo, c’è da ricostruire,
ricomporre una resistenza, per far fronte a un domani che si presenta oscuro. Nell’assenza del potere imperiale, il ruolo di
promotore viene preso da papa Leone, il quale intuisce che i saraceni possono
ritornare presto.
Allora bisogna coordinare le forze, riassestare le difese
della città papale, operare con una forte e persuasiva opera di propaganda che
rianimi le popolazioni avvilite, riattizzare lo zelo religioso e, in ultimo,
ricorrere all’aiuto bizantino e delle città marittime del Tirreno.
Intanto un’onda di commozione fa il giro d’Europa. Roma è
caduta. Roma sta cadendo. Ma aiuti non arrivano. Non possono arrivare. Il
destino è nelle mani dei signori locali. Specialmente dei napoletani.
A Roma, la vita riprende a fatica: bisogna ricostruire un
tessuto connettivo e impedire che i luoghi santi divengano nuovo oggetto di
razzia. Nasce così la città Leonina. Mentre, nell’849, le città
tirreniche riportano la vittoria navale di Ostia: un simbolo più che un momento
di svolta nelle vicende meridionali del jihad. Da essa deriva almeno una
certezza: che il nemico si può battere sul suo stesso terreno.
(Amedeo Feniello, “Sotto il segno del leone”, pag. 83, 84,
85)
Fonte: da
ISLAMICAMNETANDO del 12 dicembre
2014
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