martedì 24 marzo 2015

ESCLUSIVO PUTIN: LA MIA VERITÀ SUL COLPO DI STATO IN UCRAINA



Da Claudio Messora

Ci sono narrazioni e contronarrazioni.  I media agiscono nel contesto del proprio frame. C’è il frame Ue-Nato e c’è il frame sovietico. Un blog serve a farvi fare un salto, un cambio di frame, oppure non serve.





Questo è un estratto del documentario appena uscito in Russia, nel quale Vladimir Putin racconta dei tragici giorni del colpo di stato ucraino, e di come avrebbe salvato la vita del presidente deposto Viktor Yanukovych.


Ecco il testo, tradotto per voi da Anya Stepanova e Ivan Setta.


PARLA PUTIN: COSA SUCCESSE DURANTE IL COLPO DI STATO DI KIEV


Putin: “Ho invitato al Cremlino i dirigenti delle nostre forze speciali, il ministero della difesa, dando un ordine ben preciso. Voglio essere sincero: salvare la vita del presidente Ucraino”.

Nella notte tra il 22 e il 23 febbraio è stata messa in atto un’operazione che non trova alcun precedente nella storia moderna. Per ordine del capo di stato della Russia è stato evacuato il presidente in carica di un altro stato, l’Ucraina, da un paese che stava precipitando nel caos.

Putin: “I nostri servizi di ricerca radio-elettronica hanno coperto la via di fuga del suo convoglio. Per noi era evidente il fatto che il convoglio di Yanukovich a brave si sarebbe imbattuto in una trappola. Lo avrebbero eliminato fisicamente. Il presidente legittimo Ucraino ha chiesto di essere aiutato a salvarsi la vita. Tutti i dettagli riguardanti questa operazione sono stati classificati come TOP SECRET per un anno. Gli unici che ne erano a conoscenza erano il Presidente e il personale direttamente coinvolto nell’operazione”.

Giornalista: “Mi faccia capire bene. Lei ha diretto personalmente questa operazione per una notte intera?”.

Putin: “Si, è così. Stiamo parlando della notte a cavallo tra il 22 e il 23. Abbiamo finito attorno alle 7 del mattino e salutandoci – questa la devo dire – ho detto a tutti i miei colleghi (erano in 4): ‘La situazione in Ucraina sta prendendo una brutta piega, perciò mi vedo costretto di annunciarvi che dovremmo far partire un’operazione che assicurerebbe il ritorno della Crimea in Russia. Non possiamo lasciare la popolazione della penisola in mano a nazionalisti’. Così ho rilasciato direttive da seguire, ma ho sottolineato il fatto che la riannessione della Crimea avrebbe avuto luogo solo nel momento in cui la popolazione stessa lo avrebbe voluto. Il punto fondamentale era dare alle persone la possibilità di esprimersi e di palesare la propria scelta. Ve lo dico con la più assoluta sincerità. Tra me e me pensavo: ‘Se invece vorranno fare parte dell’Ucraina, così sarà. Magari avranno più autonomia, diritti speciali. Ma il loro volere verrà rispettato. Però se vorranno ritornare in Russia, noi non abbiamo il diritto di abbandonarli’”.

La situazione a Kiev peggiora drasticamente il 18 febbraio alle 13.30, quando viene sparato il primo colpo. Però ad essere uccisi sono 5 poliziotti degli interni, feriti alla gola. I nazionalisti della destra assaltano l’ufficio del partito regionale. Uno degli addetti viene bruciato vivo. Il giorno dopo nel centro di Kiev vengono uccise altre 25 persone. Il 20 febbraio i cecchini aprono il fuoco in piazza. Sparano su entrambi le fazioni e uccidono circa 100 persone tra golpisti e polizia.

Giornalista: “Tutto cambia rapidamente. La situazione sfugge di mano. Partono i primi colpi d’arma da fuoco. Scorre il sangue a Majdan (la Piazza di Kiev). Come si stava comportando Janukovich? Sicuramente l’avrà chiamato: ha forse chiesto di essere ricevuto?”.

Putin: “Sì, sì. Mi chiamò il 21 sera. Mi disse che sarebbe partito per Harkov per partecipare ad una conferenza regionale. Non voglio nascondervi nulla: gli ho consigliato di non lasciare la capitale, in un clima del genere. Mi ha risposto che mi avrebbe richiamato più tardi”.

In quel momento drammatico, quando vengono uccise delle persone in piazza da parte di cecchini di cui ancora oggi non sappiamo nulla, Viktor Janukovich torna a dormire a casa sua per un’ultima volta.

Putin: “Dopo mi richiamò, dicendomi che aveva deciso di partire. L’unica consiglio che gli ho dato al momento era quello di non aumentare il numero delle forze dell’ordine nella piazza. Lui allora mi disse: ‘Si,certo,lo capisco benissimo’. Partendo, ordinò a tutte le forze dell’ordine di andarsene”.

Il 21 febbraio, alle 9.17 del mattino, uscendo dalla residenza del Mezhigorja, Viktor Janukovich si ferma per un attimo come per fare un ultimo saluto. Non vi avrebbe più fatto ritorno. Ma nutriva ancora qualche speranza per un lieto fine, dopo aver accettato una serie di ultimatum che gli sono stati imposti dall’opposizione e dall’Unione Europea.

Putin: “E invece, come ben sappiamo, l’opposizione ha preso con la forza l’apparato amministrativo del presidente Ucraino e il parlamento. Il 22, Janukovich mi chiama ancora dicendomi che si trova a Harkov e che mi avrebbe voluto incontrare per parlare della situazione attuale. Naturalmente accettai subito”.

Quel giorno il colpo di stato anticostituzionale porta al potere Alexander Turchinov, deponendo Viktor Janukovich. Il presidente Janukovich prende la parola da Harkov nella rete televisiva nazionale e dice: “Non sono disposto a rinunciare al mio incarico di legittimo presidente Ucraino. Ciò a cui oggi assistiamo è un vero è proprio colpo di stato ed un atto di vandalismo”.

Appena Janukovich lascia Kiev, gli emissari della commissione dell’Unione Europea (Radoslav Sikorsky, Olivie Boi, Dali Griboutskaje), uno dietro l’altro, iniziano a dichiarare che l’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea verrà comunque firmata con il nuovo governo. Il presidente legittimo Janukovich diviene una figura per loro molto scomoda.

Putin: “Le nostri fonti dicevano che le persone coinvolte in questo colpo di stato non solo erano pronte a incarcerare Janukovich, ma erano disposte persino ad eliminarlo fisicamente, poiché quest’ultimo era una figura molto scomoda per loro. Come diceva un famoso personaggio storico: ‘Non c’è persona, non c’è problema‘. (La frase che lo scrittore Rybakov nel suo libro “I figli dell’Arbat” attribuisce alla figura di Stalin). Poi abbiamo avuto delle conferme sul fatto che ciò avrebbe sicuramente avuto luogo. Se Janukovich fosse morto, l’opposizione sarebbe riuscita più facilmente a risolvere una serie di problemi sorti successivamente“.
Il 22 febbraio Janukovich lascia la città di Harkov spostandosi a Donezk, da dove contatta Putin chiedendo un incontro.

Putin: “Gli avevo fatto una proposta. Gli avevo detto: ‘Ci vediamo a Rostov (Russia), così non perderai tempo nello spostamento via aerea. Posso venire io di persona’. Fu allora che un’altra telefonata da parte degli addetti alla sicurezza personale di Janukovich ci informò di avere avuto grossi problemi all’aeroporto. Impossibile usare l’aereo. Avevo intuito che stava accadendo qualcosa fuori dal comune. Più tardi abbiamo scoperto che il corteo di Janukovich era stato assaltato e preso a colpi di fucile. Anche il corteo del procuratore generale Pshonke fu assaltato e uno degli addetti alla sicurezza ferito. In parole povere, il colpo di stato era già avvenuto ed era partita l’operazione che avrebbe dovuto eliminare fisicamente Janukovich“.

I responsabili delle 4 strutture della difesa Russa ebbero l’ordine da Putin di salvare la vita del presidente Ucraino. Nel frattempo i servizi speciali Ucraini ebbero ordini opposti: quelli di eliminare il Janukovich. Avrebbero dovuto prenderlo ancora nell’aeroporto di Donezk, ma dopo la fuga aerea fallita, il convoglio di Janukovich sparisce nel nulla, tra le pianure dell’est dell’Ucraina.

Giornalista: “E’ riuscito a scappare da Donezk ma senza sapere dove andare”.

Putin: “Ha pensato di andare in Crimea. Però quando mi fecero vedere la mappa dei suoi spostamenti…”.

Giornalista: “Lei è riuscito a rintracciare i suoi movimenti?”.

Putin: “Quando ci ha chiamati, i nostri servizi di intelligence lo hanno subito individuato e hanno seguito il suo convoglio. Ogni volta riuscivamo a stabilire la sua posizione. Però quando mi fecero vedere la mappa, fu subito chiaro che Janukovich stava andando verso una trappola. Le dico di più: i nostri servizi segreti ci informarono che il convoglio di Janukovich si sarebbe scontrato con mitragliatori pesanti che avrebbero dovuto… beh… insomma… Non si sarebbero persi troppo in chiacchiere”.

Giornalista: “Sta dicendo che non lo avrebbero fermato per arrestarlo?”.

Putin: “Abbiamo tutti i motivi per pensare che lo avrebbero eliminato subito senza nemmeno fermarlo. La sua scorta ha ricevuto informazioni al riguardo. Non potevano proseguire nella direzione prestabilita. Sono stati momenti strani, perché le conversazioni erano aperte. Usavano una linea non codificata e noi usavamo questo a nostro vantaggio per seguire la sua posizione. Ma prima non sapevamo dove fosse, perciò eravamo pronti a prelevarlo direttamente da Donezk via aerea, via terra o via acqua”.

Giornalista: “Vuole dire che vi siete preparati a prelevare Janukovich in qualsiasi modo?”.

Putin: “Si… Si era allontanato ormai troppo da Donezk. Le navi avrebbero impiegato troppo tempo per prelevarlo. Avrebbero avuto bisogno di circa cinque o sei ore per avvicinarsi alla riva”.
Giornalista: “Lo avete consigliato di avvicinarsi alla riva? Lo avete avvisato del pericolo che lo attendeva sulla strada?”.
Putin: “Sì, il convoglio cambiò subito direzione, mentre noi suggerivamo la direzione da prendere. Abbiamo consigliato al convoglio di avvicinarsi alla riva, dove avrebbero dovuto incontrare una squadra di elicotteri con forze speciali a bordo”.

Le ricerche durarono per quasi 2 ore. Ma nessuna squadra di elicotteri riuscì a individuare il convoglio. I piloti non avevano alcun modo di comunicare con Janukovich, mentre il suo portaborse continuava a chiamare il Cremlino.

Putin: “A un certo punto divenne evidente che gli elicotteri non sarebbero riusciti a trovare il convoglio, mentre i serbatoi si stavano svuotando. Avrebbero dovuto a breve ritornare indietroGli elicotteri si erano ormai preparati per rientrare alla base, quando uno dei piloti all’improvviso nota un bagliore in lontananza. Le macchine del corteo di Janukovich, dopo aver sentito il rumore delle pale, avevano acceso contemporaneamente i fari delle loro macchine segnalando così la loro presenza”.

Giornalista: “Come hanno fatto a capire che dovevano comportarsi in questo modo?”.

Putin: “Li abbiamo consigliati noi, diciamo così…”.

Giornalista: “Avete consigliato voi a dei vostri colleghi di comportarsi così?”.

Putin: “Sì, certo, sono stati individuati e prelevati all’istante”.

Putin: “Naturalmente la cosa non finì lì. Janukovich non volle trasferirsi in Russia e chiese espressamente di essere trasferito in Crimea. Andò in Crimea dunque. Perciò nei giorni successivi rimase sempre in Crimea, e cioè sul suolo del territorio Ucraino di allora. Però dopo qualche giorno, quando ormai la città di Kiev era stata perduta e non vi era più rimasto nessuno con cui trattare, mi chiese di essere trasferito in Russia”.

Giornalista: “Quando le è stato comunicato che Janukovich era in salvo, cos’ha provato?”.

Putin: “Abbiamo salvato la sua vita e quella dei suoi famigliari. Penso che salvare vite umane sia una cosa giusta e nobile, aldilà di come le azioni di questa persona possano essere percepite dagli altri. Mi ha detto che non era riuscito a prendere la decisione di firmare l’ordine che avrebbe permesso alla polizia di usare le armi da fuoco. Non mi sento in diritto di incolparlo per questa decisione, di certo non facile. É stato un bene o è stato un male? Una cosa è evidente: la noncuranza e la debolezza personale hanno portato ad un risultato finale piuttosto drammatico”.






Fonte www.byoblu.com





 IN UCRAINA UN GOLPE TARGATO OBAMA 





L’ex premier in esilio Azarov: “Gli Usa volevano farci tornare aggressivi contro Mosca. La consigliera della Casa Bianca pretese un governo di unità nazionale”

È passato da poco un anno dalla rivolta di piazza che provocò la caduta del governo ucraino e la guerra civile che ha portato il mondo sull’orlo di un conflitto più esteso. Mykola Azarov, leader del Partito delle regioni, era il primo ministro che in quei giorni si trovò a gestire lo scontro tra filo russi e filo europei. Si dimise in febbraio, pochi giorni prima della caduta dell’intero governo e del presidente Yanukovich. Braccato dagli insorti, si salvò in modo rocambolesco e ora vive esule a Mosca.

Signor Azarov, il giudizio dell’opinione pubblica europea resta confuso e diviso. Fu rivoluzione di popolo o colpo di stato?

«Guardi, durante i miei tre anni di governo avevamo tenuto l’Ucraina su una linea di buon vicinato sia con la Russia che con l’Unione Europea. Questa equidistanza non era gradita agli Stati Uniti d’America che volevano si tornasse alla politica del precedente governo di dichiarata ostilità alla Russia. Questa irritazione, e le conseguenti pressioni, l’abbiamo percepita fin da quando siamo andati al governo».

Lei personalmente subì pressioni in tal senso?

«Quando noi ci rendemmo indisponibili a sottoscrivere così come ci erano stati presentati gli accordi con l’Unione Europea, accaddero due cose contemporaneamente».

Cioè?

«Da una parte incominciarono occupazioni di uffici pubblici da parte di manifestanti spuntati dal nulla, dall’altra una incredibile e arrogante ingerenza da parte degli Stati Uniti negli affari interni di uno Stato sovrano. Venne da me la consigliera diplomatica del presidente Obama, Victoria Nuland, a pormi una sorta di ultimatum: o accettavo di formare un nuovo governo di unità nazionale che accontentasse gli anti russi oppure l’America non sarebbe stata a guardare».

E lei cosa rispose?

«Che il mio governo era stato eletto democraticamente e che aveva superato ben due voti di fiducia. Le dissi chiaramente che la politica dell’Ucraina era nelle mani del popolo ucraino e che lei non doveva permettersi di usare quei toni con il suo legittimo rappresentante».

Eppure, stando alle immagini televisive rimbalzate in tutto il mondo, la protesta contro di voi stava montando.

«Quella di concentrare una massa di persone attorno al palazzo del potere o nella piazza simbolo di una capitale, è una tecnica collaudata delle cosiddette rivoluzioni arancioni. In quei giorni avevamo in mano sondaggi secondo i quali la maggioranza del popolo ucraino appoggiava convintamente la linea del governo. Del resto bastava spostarsi poche centinaia di metri dalla piazza occupata per verificare come a Kiev la vita procedesse in modo assolutamente normale e che altre manifestazioni, di segno opposto, avvenivano in modo spontaneo un po’ ovunque nel Paese».

Secondo voi, chi alimentava la pressione della piazza?

«In quei giorni noi avevamo il controllo completo di ciò che stava accadendo. I nostri servizi segreti avevano infiltrato uomini tra i manifestanti e avemmo le prove che la piazza prendeva ordini dagli americani, che il quartier generale della protesta era nell’ambasciata Usa a Kiev, la quale provvedeva anche a finanziare in modo importante la rivolta».

E non prendeste contromisure?

«Quando la protesta passò da pacifica a violenta, con uso massiccio di bombe molotov e anche armi da fuoco contro la nostra polizia, convocammo sia l’ambasciatore americano che gli ambasciatori europei per mostrare loro le prove in nostro possesso».

Con che esito?

«Fu sconcertante. L’unica cosa che ci dissero è che noi non potevamo reagire con la forza alla violenza crescente dei manifestanti. Ci stavano insomma legando le mani».

L’Europa quindi, mi sta dicendo, si girò dall’altra parte?

«Il ruolo della Comunità europea, in quei giorni drammatici e decisivi, fu volutamente marginale e quello dell’Italia pari a zero. Entrammo in possesso dell’intercettazione di una telefonata nella quale il primo ministro polacco diceva alla responsabile esteri della Commissione europea che, contrariamente alla versione spacciata per ufficiale, i cecchini che entrarono in azione in piazza non erano filo russi ma appartenenti alla fazione a noi avversa».

La risposta della ministra?

«Gelida, come dire: è una verità scomoda, lasciamo perdere. C’era la netta volontà di insabbiare la verità per non intralciare i piani americani».

Sta dicendo che fu organizzata una operazione di fuoco amico per fare indignare l’opinione pubblica internazionale?

«Sto dicendo che servivano vittime da sacrificare per giustificare l’innalzamento del livello di violenza della piazza e l’assalto ai palazzi del potere. I nostri poliziotti morivano o rimanevano gravemente feriti ma il presidente Yanukovich non diede mai l’ordine di dotare i reparti speciali di armi offensive nella speranza di trovare una soluzione pacifica».

Così si arriva al 27 gennaio 2014, giorno delle sue dimissioni.

«Con grande senso di responsabilità comunicai al presidente che ero disposto a dimettermi per facilitare una soluzione della trattativa. Gli chiesi di barattare la mia testa con lo sgombero della piazza e il disarmo dei gruppi neonazisti e dei facinorosi, circa cinquemila persone, che prendevano ordini da stati esteri».

Avvenne?
«Le mie dimissioni sì. Per il resto non cambiò nulla. Anzi, la situazione peggiorava di giorno in giorno».

Ha continuato a vedere Yanukovich?

«Sì, in quelle ore ci sentivamo e vedevamo spesso».

Che cosa vi dicevate?

«Ho cercato di convincerlo che gli stavano facendo perdere tempo, che trattare con gli oppositori interni era inutile, in quanto marionette. Mi parlò di un accordo, peraltro poco onorevole, che stava raggiungendo con i ministri degli esteri di Polonia, Francia e Germania. Ma era evidente, e glielo dissi, che l’unica possibilità era quella di trattare direttamente con gli Stati Uniti, anche se loro, ovviamente, si guardavamo bene da fare aperture perché come obiettivo si erano dati solo il capovolgimento del governo».

Si arriva al 22 febbraio, giorno del colpo di stato, lei dove era?

«La sera prima avevo visto il presidente che mi aveva annunciato l’intenzione di aderire alla proposta di Polonia, Francia e Germania e che all’indomani, in cambio di grosse concessioni, la piazza si sarebbe ritirata come previsto dall’accordo. Così la mattina uscì di casa per raggiungere Yanukovich ma il capo della mia scorta mi fermò. Il palazzo presidenziale era stato preso dagli insorti, la moglie del presidente era scampata per un soffio a un attentato. Mi disse che il presidente stesso era in grave pericolo, che i ribelli avevano dato ordine di bloccare le frontiere a tutti i membri del governo. Yanukovich stava per fare la fine di Gheddafi».

In che senso?

«Gheddafi fu ucciso da bande locali ma i mandanti erano gli stati che avevano dato il via all’attacco alla Libia. Sono certo che senza la copertura politica e morale di Stati Uniti ed Europa nessuno in Ucraina avrebbe avuto la forza di uccidere fisicamente il presidente e noi membri del governo. Prendere atto di questa verità è stata la più grande disillusione della mia vita».

Il presidente Putin, nei giorni scorsi, ha rivendicato di aver salvato la vita a Yanukovich e a lei portandovi in salvo. Come è andata?

«Il presidente Putin ha voluto ribadire che in quelle ore ha compiuto una azione umanitaria nei confronti di persone amiche della Russia che non avevano fatto del male a nessuno. Osservo come le posizioni del governo della Russia siano cambiate nel tempo. All’inizio Putin ha dato la disponibilità a collaborare con il nuovo governo Ucraino ma poi sono accadute cose che hanno fatto cambiare parere. Come l’atteggiamento ostile e violento di Kiev nei confronti della Crimea e delle regioni orientali abitate da russi. Purtroppo l’Europa non conosce questi gravi fatti. Nessuno ha scritto degli assalti ai mezzi dei militari che presidiavano le regioni russe o dei massacri di civili disarmati che protestavano contro il nuovo regime. A Odessa sono state bruciate vive più di cento persone da parte dei nazionalisti ucraini. Nelle zone russofone, Kiev vuole governare col terrore».

Signor Azarov, guardiamo avanti. La tregua durerà?

«Quando noi sosteniamo che ci sono nazisti al potere a Kiev, l’Europa ci prende per bugiardi, ma è la pura verità. Come giudicate voi persone che danno ordine di bombardare interi quartieri con sistemi a lancio multiplo? A Charkiv decine di migliaia di civili sono morti, cinquemila edifici sono stati distrutti, così come gli acquedotti. La gente è al freddo in rifugi e cantine. Sono criminali, presto o tardi l’opinione pubblica internazionale verrà a conoscere questi fatti. Detto questo sono favorevole agli accordi di Minsk che hanno messo fine a questo eccidio. La Russia è pronta al compromesso, ma l’Ucraina è anche dei russi. Dire: l’Ucraina solo agli ucraini è uno slogan nazista. Gli Stati Uniti e l’Europa devono saperlo e agire di conseguenza».

Tornerà in Ucraina?

«Mi hanno inserito in una lista nera in modo del tutto arbitrario. A distanza di un anno non hanno ancora trovato un solo fatto che mi possa compromettere. Non sono però ottimista. Oggi non c’è in Ucraina un solo giudice che abbia la forza di andare contro la volontà del governo. Spero un giorno di tornare. Questa situazione non può durare a lungo. I soldi del fondo monetario purtroppo non finiranno al popolo, la crisi economica è già devastante ma farò di tutto perché il mio paese non diventi una nuova Somalia europea».



Fonte: da Wolf mag  del 24  marzo 2015-03-24








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