Da Claudio Messora
Ci sono narrazioni e contronarrazioni. I media agiscono nel contesto del proprio
frame. C’è il frame Ue-Nato e c’è il frame sovietico. Un blog
serve a farvi fare un salto, un cambio di frame, oppure non serve.
Questo è un estratto del documentario appena uscito in Russia, nel quale Vladimir Putin racconta dei tragici giorni del colpo di stato ucraino, e di come avrebbe salvato la vita del presidente deposto Viktor Yanukovych.
Ecco il testo, tradotto per voi da Anya Stepanova e Ivan Setta.
PARLA PUTIN: COSA SUCCESSE DURANTE IL
COLPO DI STATO DI KIEV
Putin:
“Ho invitato al Cremlino i dirigenti delle nostre forze speciali, il
ministero della difesa, dando un ordine ben preciso. Voglio essere sincero:
salvare la vita del presidente Ucraino”.
Nella notte tra il 22 e il 23 febbraio è stata messa in atto
un’operazione che non trova alcun precedente nella storia moderna. Per ordine
del capo di stato della Russia è stato evacuato il presidente in carica di un
altro stato, l’Ucraina, da un paese che stava precipitando nel caos.
Putin:
“I nostri servizi di ricerca radio-elettronica hanno coperto la via di fuga
del suo convoglio. Per noi era evidente il fatto che il convoglio di Yanukovich
a brave si sarebbe imbattuto in una trappola. Lo avrebbero eliminato
fisicamente. Il presidente legittimo Ucraino ha chiesto di essere
aiutato a salvarsi la vita. Tutti i dettagli riguardanti questa operazione sono
stati classificati come TOP SECRET per un anno. Gli unici che ne erano a conoscenza
erano il Presidente e il personale direttamente coinvolto nell’operazione”.
Giornalista: “Mi faccia capire bene. Lei ha diretto
personalmente questa operazione per una notte intera?”.
Putin:
“Si, è così. Stiamo parlando della notte a cavallo tra il 22 e il 23.
Abbiamo finito attorno alle 7 del mattino e salutandoci – questa la devo dire –
ho detto a tutti i miei colleghi (erano in 4): ‘La situazione in Ucraina sta
prendendo una brutta piega, perciò mi vedo costretto di annunciarvi che dovremmo
far partire un’operazione che assicurerebbe il ritorno della Crimea in Russia.
Non possiamo lasciare la popolazione della penisola in mano a nazionalisti’.
Così ho rilasciato direttive da seguire, ma ho sottolineato il fatto che la
riannessione della Crimea avrebbe avuto luogo solo nel momento in cui la
popolazione stessa lo avrebbe voluto. Il punto fondamentale era dare alle
persone la possibilità di esprimersi e di palesare la propria scelta. Ve lo
dico con la più assoluta sincerità. Tra me e me pensavo: ‘Se invece vorranno
fare parte dell’Ucraina, così sarà. Magari avranno più autonomia, diritti
speciali. Ma il loro volere verrà rispettato. Però se vorranno ritornare in
Russia, noi non abbiamo il diritto di abbandonarli’”.
La situazione a Kiev peggiora drasticamente il 18 febbraio alle
13.30, quando viene sparato il primo colpo. Però ad essere uccisi sono 5
poliziotti degli interni, feriti alla gola. I nazionalisti della destra
assaltano l’ufficio del partito regionale. Uno degli addetti viene bruciato
vivo. Il giorno dopo nel centro di Kiev vengono uccise altre 25 persone. Il
20 febbraio i cecchini aprono il fuoco in piazza. Sparano su entrambi le
fazioni e uccidono circa 100 persone tra golpisti e polizia.
Giornalista: “Tutto
cambia rapidamente. La situazione sfugge di mano. Partono i primi colpi d’arma
da fuoco. Scorre il sangue a Majdan (la Piazza di Kiev). Come si stava
comportando Janukovich? Sicuramente l’avrà chiamato: ha forse chiesto di essere
ricevuto?”.
Putin:
“Sì, sì. Mi chiamò il 21 sera. Mi disse che sarebbe partito per Harkov per
partecipare ad una conferenza regionale. Non voglio nascondervi nulla: gli ho
consigliato di non lasciare la capitale, in un clima del genere. Mi ha risposto
che mi avrebbe richiamato più tardi”.
In quel momento drammatico, quando vengono uccise delle persone in
piazza da parte di cecchini di cui ancora oggi non sappiamo nulla, Viktor
Janukovich torna a dormire a casa sua per un’ultima volta.
Putin:
“Dopo mi richiamò, dicendomi che aveva deciso di partire. L’unica consiglio
che gli ho dato al momento era quello di non aumentare il numero delle forze
dell’ordine nella piazza. Lui allora mi disse: ‘Si,certo,lo capisco benissimo’.
Partendo, ordinò a tutte le forze dell’ordine di andarsene”.
Il 21 febbraio, alle 9.17 del mattino, uscendo dalla residenza del
Mezhigorja, Viktor Janukovich si ferma per un attimo come per fare un ultimo
saluto. Non vi avrebbe più fatto ritorno. Ma nutriva ancora qualche speranza
per un lieto fine, dopo aver accettato una serie di ultimatum che gli sono
stati imposti dall’opposizione e dall’Unione Europea.
Putin:
“E invece, come ben sappiamo, l’opposizione ha preso con la forza l’apparato
amministrativo del presidente Ucraino e il parlamento. Il 22, Janukovich mi
chiama ancora dicendomi che si trova a Harkov e che mi avrebbe voluto
incontrare per parlare della situazione attuale. Naturalmente accettai subito”.
Quel giorno il colpo di stato anticostituzionale porta al potere
Alexander Turchinov, deponendo Viktor Janukovich. Il presidente Janukovich
prende la parola da Harkov nella rete televisiva nazionale e dice: “Non
sono disposto a rinunciare al mio incarico di legittimo presidente Ucraino. Ciò
a cui oggi assistiamo è un vero è proprio colpo di stato ed un atto di
vandalismo”.
Appena Janukovich lascia Kiev, gli emissari della commissione dell’Unione
Europea (Radoslav Sikorsky, Olivie Boi, Dali Griboutskaje), uno dietro
l’altro, iniziano a dichiarare che l’adesione dell’Ucraina all’Unione
Europea verrà comunque firmata con il nuovo governo. Il presidente
legittimo Janukovich diviene una figura per loro molto scomoda.
Putin:
“Le nostri fonti dicevano che le persone coinvolte in questo colpo di stato
non solo erano pronte a incarcerare Janukovich, ma erano disposte persino ad eliminarlo
fisicamente, poiché quest’ultimo era una figura molto scomoda per loro.
Come diceva un famoso personaggio storico: ‘Non c’è persona, non c’è
problema‘. (La frase che lo scrittore Rybakov nel suo libro “I figli
dell’Arbat” attribuisce alla figura di Stalin). Poi abbiamo avuto delle
conferme sul fatto che ciò avrebbe sicuramente avuto luogo. Se Janukovich fosse
morto, l’opposizione sarebbe riuscita più facilmente a risolvere una serie di
problemi sorti successivamente“.
Il 22 febbraio Janukovich lascia la città di Harkov spostandosi a
Donezk, da dove contatta Putin chiedendo un incontro.
Putin:
“Gli avevo fatto una proposta. Gli avevo detto: ‘Ci vediamo a Rostov
(Russia), così non perderai tempo nello spostamento via aerea. Posso venire io
di persona’. Fu allora che un’altra telefonata da parte degli addetti alla
sicurezza personale di Janukovich ci informò di avere avuto grossi problemi
all’aeroporto. Impossibile usare l’aereo. Avevo intuito che stava accadendo
qualcosa fuori dal comune. Più tardi abbiamo scoperto che il corteo di
Janukovich era stato assaltato e preso a colpi di fucile. Anche il corteo del
procuratore generale Pshonke fu assaltato e uno degli addetti alla sicurezza
ferito. In parole povere, il colpo di stato era già avvenuto ed era partita
l’operazione che avrebbe dovuto eliminare fisicamente Janukovich“.
I responsabili delle 4 strutture della difesa Russa ebbero l’ordine
da Putin di salvare la vita del presidente Ucraino. Nel frattempo i servizi
speciali Ucraini ebbero ordini opposti: quelli di eliminare il Janukovich.
Avrebbero dovuto prenderlo ancora nell’aeroporto di Donezk, ma dopo la fuga
aerea fallita, il convoglio di Janukovich sparisce nel nulla, tra le pianure
dell’est dell’Ucraina.
Giornalista: “E’
riuscito a scappare da Donezk ma senza sapere dove andare”.
Putin:
“Ha pensato di andare in Crimea. Però quando mi fecero vedere la mappa dei
suoi spostamenti…”.
Giornalista: “Lei è
riuscito a rintracciare i suoi movimenti?”.
Putin:
“Quando ci ha chiamati, i nostri servizi di intelligence lo hanno
subito individuato e hanno seguito il suo convoglio. Ogni volta riuscivamo a
stabilire la sua posizione. Però quando mi fecero vedere la mappa, fu
subito chiaro che Janukovich stava andando verso una trappola. Le dico
di più: i nostri servizi segreti ci informarono che il convoglio di
Janukovich si sarebbe scontrato con mitragliatori pesanti che avrebbero dovuto…
beh… insomma… Non si sarebbero persi troppo in chiacchiere”.
Giornalista: “Sta
dicendo che non lo avrebbero fermato per arrestarlo?”.
Putin:
“Abbiamo tutti i motivi per pensare che lo avrebbero eliminato subito
senza nemmeno fermarlo. La sua scorta ha ricevuto informazioni al riguardo.
Non potevano proseguire nella direzione prestabilita. Sono stati momenti
strani, perché le conversazioni erano aperte. Usavano una linea non codificata
e noi usavamo questo a nostro vantaggio per seguire la sua posizione. Ma prima
non sapevamo dove fosse, perciò eravamo pronti a prelevarlo direttamente da
Donezk via aerea, via terra o via acqua”.
Giornalista: “Vuole
dire che vi siete preparati a prelevare Janukovich in qualsiasi modo?”.
Putin:
“Si… Si era allontanato ormai troppo da Donezk. Le navi avrebbero impiegato
troppo tempo per prelevarlo. Avrebbero avuto bisogno di circa cinque o sei ore
per avvicinarsi alla riva”.
Giornalista: “Lo avete consigliato di avvicinarsi alla riva? Lo
avete avvisato del pericolo che lo attendeva sulla strada?”.
Putin: “Sì, il convoglio cambiò subito direzione, mentre noi
suggerivamo la direzione da prendere. Abbiamo consigliato al convoglio di
avvicinarsi alla riva, dove avrebbero dovuto incontrare una squadra di
elicotteri con forze speciali a bordo”.
Le ricerche durarono per quasi 2 ore. Ma nessuna squadra di
elicotteri riuscì a individuare il convoglio. I piloti non avevano alcun modo
di comunicare con Janukovich, mentre il suo portaborse continuava a chiamare il
Cremlino.
Putin:
“A un certo punto divenne evidente che gli elicotteri non sarebbero
riusciti a trovare il convoglio, mentre i serbatoi si stavano svuotando. Avrebbero
dovuto a breve ritornare indietro. Gli elicotteri si erano ormai
preparati per rientrare alla base, quando uno dei piloti all’improvviso nota un
bagliore in lontananza. Le macchine del corteo di Janukovich, dopo aver sentito
il rumore delle pale, avevano acceso contemporaneamente i fari delle loro
macchine segnalando così la loro presenza”.
Giornalista: “Come
hanno fatto a capire che dovevano comportarsi in questo modo?”.
Putin:
“Li abbiamo consigliati noi, diciamo così…”.
Giornalista: “Avete consigliato
voi a dei vostri colleghi di comportarsi così?”.
Putin:
“Sì, certo, sono stati individuati e prelevati all’istante”.
Putin:
“Naturalmente la cosa non finì lì. Janukovich non volle trasferirsi in
Russia e chiese espressamente di essere trasferito in Crimea. Andò in
Crimea dunque. Perciò nei giorni successivi rimase sempre in Crimea, e cioè sul
suolo del territorio Ucraino di allora. Però dopo qualche giorno, quando ormai
la città di Kiev era stata perduta e non vi era più rimasto nessuno con cui trattare,
mi chiese di essere trasferito in Russia”.
Giornalista: “Quando
le è stato comunicato che Janukovich era in salvo, cos’ha provato?”.
Putin:
“Abbiamo salvato la sua vita e quella dei suoi famigliari. Penso che salvare
vite umane sia una cosa giusta e nobile, aldilà di come le azioni di questa
persona possano essere percepite dagli altri. Mi ha detto che non era
riuscito a prendere la decisione di firmare l’ordine che avrebbe permesso alla
polizia di usare le armi da fuoco. Non mi sento in diritto di incolparlo
per questa decisione, di certo non facile. É stato un bene o è stato un male?
Una cosa è evidente: la noncuranza e la debolezza personale hanno portato ad un
risultato finale piuttosto drammatico”.
Fonte
www.byoblu.com
IN UCRAINA UN GOLPE TARGATO OBAMA
L’ex premier in
esilio Azarov: “Gli Usa volevano farci tornare aggressivi contro Mosca. La
consigliera della Casa Bianca pretese un governo di unità nazionale”
È passato da poco un anno dalla rivolta di piazza che
provocò la caduta del governo ucraino e la guerra civile che ha portato il
mondo sull’orlo di un conflitto più esteso. Mykola Azarov, leader del Partito
delle regioni, era il primo ministro che in quei giorni si trovò a gestire lo
scontro tra filo russi e filo europei. Si dimise in febbraio, pochi giorni
prima della caduta dell’intero governo e del presidente Yanukovich. Braccato
dagli insorti, si salvò in modo rocambolesco e ora vive esule a Mosca.
Signor Azarov, il
giudizio dell’opinione pubblica europea resta confuso e diviso. Fu rivoluzione
di popolo o colpo di stato?
«Guardi, durante i miei tre anni di governo avevamo tenuto
l’Ucraina su una linea di buon vicinato sia con la Russia che con l’Unione
Europea. Questa equidistanza non era gradita agli Stati Uniti d’America che
volevano si tornasse alla politica del precedente governo di dichiarata
ostilità alla Russia. Questa irritazione, e le conseguenti pressioni, l’abbiamo
percepita fin da quando siamo andati al governo».
Lei personalmente
subì pressioni in tal senso?
«Quando noi ci rendemmo indisponibili a sottoscrivere così
come ci erano stati presentati gli accordi con l’Unione Europea, accaddero due
cose contemporaneamente».
Cioè?
«Da una parte incominciarono occupazioni di uffici pubblici
da parte di manifestanti spuntati dal nulla, dall’altra una incredibile e
arrogante ingerenza da parte degli Stati Uniti negli affari interni di uno
Stato sovrano. Venne da me la consigliera diplomatica del presidente Obama,
Victoria Nuland, a pormi una sorta di ultimatum: o accettavo di formare un
nuovo governo di unità nazionale che accontentasse gli anti russi oppure
l’America non sarebbe stata a guardare».
E lei cosa rispose?
«Che il mio governo era stato eletto democraticamente e che
aveva superato ben due voti di fiducia. Le dissi chiaramente che la politica
dell’Ucraina era nelle mani del popolo ucraino e che lei non doveva permettersi
di usare quei toni con il suo legittimo rappresentante».
Eppure, stando alle
immagini televisive rimbalzate in tutto il mondo, la protesta contro di voi
stava montando.
«Quella di concentrare una massa di persone attorno al
palazzo del potere o nella piazza simbolo di una capitale, è una tecnica
collaudata delle cosiddette rivoluzioni arancioni. In quei giorni avevamo in
mano sondaggi secondo i quali la maggioranza del popolo ucraino appoggiava
convintamente la linea del governo. Del resto bastava spostarsi poche centinaia
di metri dalla piazza occupata per verificare come a Kiev la vita procedesse in
modo assolutamente normale e che altre manifestazioni, di segno opposto,
avvenivano in modo spontaneo un po’ ovunque nel Paese».
Secondo voi, chi alimentava
la pressione della piazza?
«In quei giorni noi avevamo il controllo completo di ciò che
stava accadendo. I nostri servizi segreti avevano infiltrato uomini tra i
manifestanti e avemmo le prove che la piazza prendeva ordini dagli americani,
che il quartier generale della protesta era nell’ambasciata Usa a Kiev, la
quale provvedeva anche a finanziare in modo importante la rivolta».
E non prendeste
contromisure?
«Quando la protesta passò da pacifica a violenta, con uso
massiccio di bombe molotov e anche armi da fuoco contro la nostra polizia,
convocammo sia l’ambasciatore americano che gli ambasciatori europei per
mostrare loro le prove in nostro possesso».
Con che esito?
«Fu sconcertante. L’unica cosa che ci dissero è che noi non
potevamo reagire con la forza alla violenza crescente dei manifestanti. Ci
stavano insomma legando le mani».
L’Europa quindi, mi
sta dicendo, si girò dall’altra parte?
«Il ruolo della Comunità europea, in quei giorni drammatici
e decisivi, fu volutamente marginale e quello dell’Italia pari a zero. Entrammo
in possesso dell’intercettazione di una telefonata nella quale il primo
ministro polacco diceva alla responsabile esteri della Commissione europea che,
contrariamente alla versione spacciata per ufficiale, i cecchini che entrarono
in azione in piazza non erano filo russi ma appartenenti alla fazione a noi
avversa».
La risposta della
ministra?
«Gelida, come dire: è una verità scomoda, lasciamo perdere.
C’era la netta volontà di insabbiare la verità per non intralciare i piani
americani».
Sta dicendo che fu
organizzata una operazione di fuoco amico per fare indignare l’opinione
pubblica internazionale?
«Sto dicendo che servivano vittime da sacrificare per
giustificare l’innalzamento del livello di violenza della piazza e l’assalto ai
palazzi del potere. I nostri poliziotti morivano o rimanevano gravemente feriti
ma il presidente Yanukovich non diede mai l’ordine di dotare i reparti speciali
di armi offensive nella speranza di trovare una soluzione pacifica».
Così si arriva al 27
gennaio 2014, giorno delle sue dimissioni.
«Con grande senso di responsabilità comunicai al presidente
che ero disposto a dimettermi per facilitare una soluzione della trattativa.
Gli chiesi di barattare la mia testa con lo sgombero della piazza e il disarmo
dei gruppi neonazisti e dei facinorosi, circa cinquemila persone, che
prendevano ordini da stati esteri».
Avvenne?
«Le mie dimissioni sì. Per il resto non cambiò nulla. Anzi,
la situazione peggiorava di giorno in giorno».
Ha continuato a
vedere Yanukovich?
«Sì, in quelle ore ci sentivamo e vedevamo spesso».
Che cosa vi dicevate?
«Ho cercato di convincerlo che gli stavano facendo perdere
tempo, che trattare con gli oppositori interni era inutile, in quanto
marionette. Mi parlò di un accordo, peraltro poco onorevole, che stava
raggiungendo con i ministri degli esteri di Polonia, Francia e Germania. Ma era
evidente, e glielo dissi, che l’unica possibilità era quella di trattare
direttamente con gli Stati Uniti, anche se loro, ovviamente, si guardavamo bene
da fare aperture perché come obiettivo si erano dati solo il capovolgimento del
governo».
Si arriva al 22
febbraio, giorno del colpo di stato, lei dove era?
«La sera prima avevo visto il presidente che mi aveva
annunciato l’intenzione di aderire alla proposta di Polonia, Francia e Germania
e che all’indomani, in cambio di grosse concessioni, la piazza si sarebbe
ritirata come previsto dall’accordo. Così la mattina uscì di casa per
raggiungere Yanukovich ma il capo della mia scorta mi fermò. Il palazzo presidenziale
era stato preso dagli insorti, la moglie del presidente era scampata per un
soffio a un attentato. Mi disse che il presidente stesso era in grave pericolo,
che i ribelli avevano dato ordine di bloccare le frontiere a tutti i membri del
governo. Yanukovich stava per fare la fine di Gheddafi».
In che senso?
«Gheddafi fu ucciso da bande locali ma i mandanti erano gli
stati che avevano dato il via all’attacco alla Libia. Sono certo che senza la
copertura politica e morale di Stati Uniti ed Europa nessuno in Ucraina avrebbe
avuto la forza di uccidere fisicamente il presidente e noi membri del governo.
Prendere atto di questa verità è stata la più grande disillusione della mia
vita».
Il presidente Putin,
nei giorni scorsi, ha rivendicato di aver salvato la vita a Yanukovich e a lei
portandovi in salvo. Come è andata?
«Il presidente Putin ha voluto ribadire che in quelle ore ha
compiuto una azione umanitaria nei confronti di persone amiche della Russia che
non avevano fatto del male a nessuno. Osservo come le posizioni del governo
della Russia siano cambiate nel tempo. All’inizio Putin ha dato la
disponibilità a collaborare con il nuovo governo Ucraino ma poi sono accadute
cose che hanno fatto cambiare parere. Come l’atteggiamento ostile e violento di
Kiev nei confronti della Crimea e delle regioni orientali abitate da russi.
Purtroppo l’Europa non conosce questi gravi fatti. Nessuno ha scritto degli
assalti ai mezzi dei militari che presidiavano le regioni russe o dei massacri
di civili disarmati che protestavano contro il nuovo regime. A Odessa sono
state bruciate vive più di cento persone da parte dei nazionalisti ucraini.
Nelle zone russofone, Kiev vuole governare col terrore».
Signor Azarov,
guardiamo avanti. La tregua durerà?
«Quando noi sosteniamo che ci sono nazisti al potere a Kiev,
l’Europa ci prende per bugiardi, ma è la pura verità. Come giudicate voi
persone che danno ordine di bombardare interi quartieri con sistemi a lancio
multiplo? A Charkiv decine di migliaia di civili sono morti, cinquemila edifici
sono stati distrutti, così come gli acquedotti. La gente è al freddo in rifugi
e cantine. Sono criminali, presto o tardi l’opinione pubblica internazionale
verrà a conoscere questi fatti. Detto questo sono favorevole agli accordi di
Minsk che hanno messo fine a questo eccidio. La Russia è pronta al compromesso,
ma l’Ucraina è anche dei russi. Dire: l’Ucraina solo agli ucraini è uno slogan
nazista. Gli Stati Uniti e l’Europa devono saperlo e agire di conseguenza».
Tornerà in Ucraina?
«Mi hanno inserito in una lista nera in modo del tutto
arbitrario. A distanza di un anno non hanno ancora trovato un solo fatto che mi
possa compromettere. Non sono però ottimista. Oggi non c’è in Ucraina un solo
giudice che abbia la forza di andare contro la volontà del governo. Spero un
giorno di tornare. Questa situazione non può durare a lungo. I soldi del fondo
monetario purtroppo non finiranno al popolo, la crisi economica è già
devastante ma farò di tutto perché il mio paese non diventi una nuova Somalia
europea».
Fonte: da Wolf mag del 24
marzo 2015-03-24
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